l'intervista

Democrazia Futura. Trenta anni di impegno in Africa per dare libertà ai perseguitati. L’intervista a Maggy Barankitse

di Stefano Rolando, professore universitario, già direttore generale alla Presidenza del Consiglio dei ministri, membro della Fondazione internazionale costituita in Belgio per il sostegno a Maggy Barankitse. |

La voce forte e libera di Maggy Barankitse, oggi a Roma, poi a Bruxelles e venerdì in audizione alla conferenza rifugiati alle Nazioni Unite a Ginevra. L'intervista di Stefano Rolando.

Stefano Rolando

Stefano Rolando nel suo pezzo “Trenta anni di impegno in Africa per dare a perseguitati e rifugiati vita, libertà e futuro”presenta la figura di Maggy Barankitse, definita una bandiera del cristianesimo umanitario nel mondo. Rolando riporta poi l’intervista da lui effettuata a questa “voce forte e libera” dell’Africa, in occasione del suo passaggio oggi a Roma, poi a Bruxelles e venerdì in audizione alla conferenza rifugiati alle Nazioni Unite a Ginevra.

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La voce forte e libera di Maggy Barankitse, oggi a Roma, poi a Bruxelles e venerdì in audizione alla conferenza rifugiati alle Nazioni Unite a Ginevra.

Maggy Barankitse è nata nel 1956 nella città di Ruyigi in Burundi.
Oggi è una bandiera del cristianesimo umanitario nel mondo. Una storia di fatti concreti, di iniziative miracolose, per impatto e risultati. Una vitalità strategica. Ma anche immensa fatica e sacrifici.
Appartiene a un’importante famiglia burundese, ha avuto i mezzi per studiare in Europa (economia e teologia, in Svizzera e in Belgio) e ha iniziato la sua esperienza negli anni Novanta come assistente del vescovo di Ruyigi, la seconda città del paese dopo la capitale Bujumbura.

Come è scritto ormai nei libri di storia tra il 1993 e il 1994 la gravissima guerra civile tra Hutu e Tutsi aveva provocato in Burundi (prolungando le conseguenze per un decennio) 300 mila morti. E creato in Rwanda una delle maggiori carneficine della storia dell’umanità: 800 mila tutsi massacrati a colpi di machete e – proprio nei cento giorni tra aprile e luglio del ’94 – il 20 per cento della popolazione ruandese sterminata.

A mani nude, usando una chiesa come ricovero e a rischio per giorni della vita in quella tragedia, Maggy, che al tempo aveva 23 anni, portò in salvo diecimila bambini. Molti divenuti orfani.  Dedicando tutte le sue energie a creare un centro di accoglienza con il tempo divenuto un esemplare centro socio-sanitario ed educativo per far crescere le giovani generazioni, per accudire le donne, soprattutto nell’ambito della maternità.

Alla fine per tessere una rete di solidarietà internazionale, che ha fatto di Maison Shalom un modello di efficacia e di organizzazione dei diritti umanitari nel mondo.

È stato uno straordinario centro che non solo ha salvato la pelle a migliaia di bambini finiti nell’ecatombe fratricida tra Tutsi e Hutu, ma che ha ridato dignità e futuro a paesi in macerie. 

Maison Shalom è stato un faro per l’Africa e un concreto ambito di solidarietà e cooperazione a cui ha partecipato mezzo mondo, attivato dalla missione laica di una donna divenuta poi “Premio Rifugiati ONU” e Prix Aurora in Canada.  Insieme a tanti altri riconoscimenti molto rilevanti, anche in Italia. Negli ultimi anni il suo nome è nel passaparola internazionale che compone la trama delle nomination del Nobel per la Pace.

Purtroppo, l’evoluzione politica violenta e dittatoriale del Paese ha obbligato Maggy a tornare a difendere la gente e la libertà dei cittadini e delle famiglie. A metà dello scorso decennio la situazione è precipitata. Queste sono state alcune delle dichiarazioni fatte da Maggy con appelli all’opinione pubblica internazionale.

Il Burundi è teatro di una tragedia che si svolge indisturbata sotto gli occhi del mondo. Un regime feroce è all’origine di un’autentica catastrofe umanitaria che deve farci riflettere sulla capacità della comunità internazionale di proteggere un popolo in pericolo”.

E ancora:

Dal 2015 a oggi sono stati assassinati più di 2.500 oppositori, le persone “scomparse” si contano a migliaia, e i rifugiati nei paesi confinanti superano il mezzo milione: Intanto, gli 11 mila prigionieri politici nelle carceri sopravvivono in condizioni subumane, mentre la contabilità delle donne violentate e dei giovani uomini torturati e castrati fa segnare cifre spaventose”.

Nel passaggio di governo del Burundi da Pierre Nkurunziza (morto per Colvid, negazionista come Bolsonaro) a Evariste Ndaydhimiyr, un altro membro dell’apparato militare e di polizia del sistema che ha raccontato ai cittadini che la sua nomina “è stata voluta da Dio“, la situazione si è ulteriormente degradata con dati intollerabili.

Da qui Maggy è stata oggetto di persecuzione diretta, in anni in cui Europa e Stati Uniti d’America hanno messo sotto sanzioni il Burundi (poi sospese per interessi diplomatici, ma senza cambiamenti sostanziali). Persecuzioni che sono arrivate alla farsa di un processo in contumacia e senza diritto di difesa, per “eversione” e “attentato alla sicurezza del Paese”, eccetera. La furia poliziesca ha chiuso e mandato alla malora tutte le realizzazioni (scuole e ospedali compresi) e ha costretto la stessa Maggy all’esilio (con tutta la sua organizzazione). Tra l’altro distruggendo una rete di iniziative di cooperazione sanitarie e sociali nel cui quadro anche l’Italia e in particolare la Regione Lombardia si era prodigata con i suoi ospedali pediatrici e con molti centri di iniziativa sociale.

Aiutata dalla condizione di “rifugiata” che le ha concesso il Granducato del Lussemburgo e dall’accoglienza nel vicino Ruanda in cui è stata incaricata di creare un centro rifugiati di tutti i paesi della regione dei Grandi Laghi, Maggy in questi anni ha messo in atto le condizioni per un secondo miracolo a favore di decine di migliaia di profughi di vari paesi dei Grandi Laghi che hanno così trovato qui non semplicemente accoglienza ma una vera riorganizzazione del futuro.

Una Fondazione internazionale con il traino della Fondazione belga Mairlot-Peterboek è stata creata in Belgio con rappresentanti di molti paesi europei e americani per ampliare le condizioni di solidarietà e sostegno.

I risultati di quanto è stato fatto a Kigali è stato visto il 24 ottobre dai tanti partecipanti provenienti da ogni parte del mondo per questo trentennale: scuole primarie e secondarie molto efficienti, una istituzione universitaria superiore, centri di formazione professionale, strutture sanitarie, ambiti di accoglienza di famiglie, con una qualità sociale che fa impressione perché non c’è dettaglio che non sia curato con una immensa tenacia pedagogica e predicando sempre la filosofia della pace e del perdono.

Ed eccola di nuovo a Roma (dove a giugno è stata a lungo colloquio con il segretario di Stato del Vaticano, cardinale Pietro Parolin su alcuni temi che riprende nell’intervista che segue) e poi in settimana a Bruxelles e a Ginevra per parlare alla conferenza internazionale sui rifugiati delle Nazioni Unite.

Un’intervista, questa che segue – in parallelo con quella fatta dal quotidiano La Stampa in uscita 5 dicembre – per riannodare le ragioni di una battaglia in cui la comunità internazionale è parte decisiva (ma non sempre reattiva e soprattutto preventiva) per tenere in equilibrio situazioni che nella regione dei Grandi Laghi presentano criticità irrisolte e aspetti nodali di una pacificazione importante anche per le relazioni euro-africane.

A Maggy Barankitse è molto piaciuta l’idea di portare le sue parole e le sue riflessioni in una rivista che si chiama Democrazia futura, essendo questo lo scenario della sua costante “profezia” malgrado i molti ostacoli affrontati. Ed è ugualmente piaciuta l’idea di una anticipazione su un magazine online (Key4biz) letto dalla comunità degli operatori italiani ed europei della comunicazione, considerando che senza la comunicazione quella “profezia” rischia l’invisibilità.

L’intervista

Il “trentennale” di Maison Shalom è avvenuto il 24 ottobre a Kigali. 52 delegazioni da tantissimi paesi del mondo. Operatori, personalità, amici, che conoscono e ammirano questa immenso lavoro umanitario, sociale e culturale per la pacificazione che tu hai animato, affrontando serenamente macigni ostili e difficoltà. Prima di parlare di queste difficoltà, possiamo scambiare qualche parola sul successo di questo evento?

Si, è vero. Abbiamo avuto una testimonianza internazionale molto importante per questo evento, che ha significato una continuità e un consolidamento di un’esperienza di un modello non voglio dire unico ma certo originale e singolare nel trattamento della questione mondiale dei rifugiati. In questi trent’anni non ho mai pronunciato la parola “campo”, che ha il significato di un confinamento, ma appunto la parola “casa” che significa vita, relazione, riorganizzazione delle speranze. Maison Shalom ha il suo radicamento nella regione africana dei Grandi Laghi ma le sue ramificazioni internazionali ormai sono ampie.

Il Centro per i rifugiati che hai ricreato a Kigali ha oggi una dimensione e un ruolo che interessa infatti molte situazioni della regione africana dei Grandi Laghi. Quale è questa dimensione e quale è questo ruolo?

Il punto concettuale, in fondo, è molto semplice. Un “rifugiato” è prima di tutto una persona normale. Pur con il peso delle condizioni, spesso tragiche, che hanno motivato quella condizione, già solo un’accoglienza compiuta con tutte le regole della solidarietà umana rovescia stigma, sospetti, emarginazioni. La nostra storia è cominciata accogliendo bambini gravemente traumatizzati. Con frequenza continua arrivano donne gravemente violate. Lo scopo della “professionalizzazione” di chi opera nell’accoglienza ha una dominante da cui dipende tutto il resto. Restituire dignità. Dunque, studiare e lavorare. Due vie pratiche per rimettersi in piedi. Oggi a Kigali ci sono 70 mila rifugiate e rifugiati, larga parte burundesi ma anche in parte congolesi. E altri 11 mila sono accolti in altri ambiti collocati nelle vicinanze delle frontiere con altri paesi (tra cui Tanzania e Uganda). Avere creato centri sanitari ma anche scuole e ora anche università, significa riparare e rigenerare condizioni di estrema sofferenza. Poi – nel quadro anche di storie drammatiche pregresse – ci sono altri problemi da presidiare, come quello della intolleranza identitaria. Provocata dai regimi autoritari e violenti. La nostra scuola “Ubuntu” significa scuola di valori. E su questo terreno che è cresciuta la solidarietà internazionale che ha creato condizioni di autonomia, indipendenza e praticabilità dell’azione umanitaria.

La catena è dunque: accoglienza, educazione, salute e avviamento professionale. Tutto il contrario di quel che si vede spesso in campi rifugiati o immigrati in cui, oltre a un letto e una minestra, non si può andare perché le disposizioni sono contro la prefigurazione di “integrazioni”. Ormai siete anche in grado di valutare gli esiti in generale di questo modello.

Per questo ho detto che non si tratta di un “campo”. Io dico “casa”, ma potrei dire persino “città”. Perché i grandi numeri dei rifugiati, che scappano da situazioni catastrofiche, non possono essere trattati con sistemi polizieschi. Il solo Ruanda oggi, nel complesso delle situazioni che si vanno creando, accoglie e provvede a più di 100 mila rifugiati, il cui numero cresce a vista d’occhio. E tenendo conto dell’esperienza storica fatta in Burundi effettivamente possiamo monitorare infinite storie di rieducazione civile e morale che portano a reinserimenti familiari, sociali, lavorativi lasciando a tutti un legame fraterno che significa molto nel contesto africano. A buoni conti – e per rispondere meglio alla domanda – vorrei dire che lo scopo del nostro lavoro è di non avere più “rifugiati”. Come ho sperimentato prima in Burundi con i bambini: lo scopo era non avere più “orfani”.

Molti potrebbero farsi la domanda del perché il Ruanda – segnato da una storia terribile e con alcuni controversi sviluppi – si sia fatto promotore di questo modello così alternativo.

Nel mio paese c’è un vecchio adagio che dice: “Puoi odiare un coniglio, ma devi riconoscere che sa correre molto bene”. Mi rendo conto che ci sono coloro che non amano Paul Kagame, presidente del Ruanda. Ma si deve sapere che lui stesso è stato un rifugiato.  Aveva tre anni quando è scappato con i suoi genitori. Ed è stato in un campo per rifugiati in Uganda. Pure sua moglie è stata rifugiata in Burundi, è diventata grande come rifugiata. Conoscono bene la condizione degli esiliati, dei rifugiati. Oggi la condizione di accoglienza è diventata una regola del funzionamento di queste realtà ospitanti. Lo statuto di “rifugiato” è una garanzia. Ed è concesso dopo una istruttoria piuttosto veloce.

Da quanti anni hai dovuto subire personalmente questa condizione, costretta a lasciare il tuo paese?

Sono ormai otto anni. Da quando sono stata privata di tutto ciò che è stato costruito a Ruyigi sui terreni che avevo ricevuto in eredità dai miei genitori e messi a disposizione del grande progetto sociale e umanitario di “Maison Shalom”.  Scuole, un ospedale, una azienda di trasformazione agro-alimentare, altre imprese sociali.

Affronto quindi ora un tema spinoso. Il risultato di un’assurda e immotivata condanna avvenuta in contumacia e senza diritto di difesa, provocata politicamente dal governo burundese (come anche nei confronti anche di molte altre personalità “scomode”) è stato alla base di dovere tu stessa assumere la condizione di rifugiata, trovando sia il Lussemburgo che il Ruanda in condizioni di farti proseguire la tua grande impresa umanitaria. Anche se questo episodio ha creato scandalo in molti paesi del mondo, non si è ancora riusciti a creare condizioni di giustizia. Che speranze concrete ci sono per poter tornare in piena libertà e senza condizioni nel tuo Paese?

Sono convinta che io come altri miei compatrioti condannati con totale ingiustizia, faremo ritorno nel nostro Paese. Tutti sanno che mi sono dedicata solo a questo obiettivo umanitario e che ogni accusa di “attentato nazionale” o altro è una mistificazione dovuta alle parole che necessariamente ho dovuto esprimere di fronte a continue violenze di Stato e a diritti umani calpestati. Non mi sono mai mescolata alla lotta politica. E ho protestato solo quando il regime ha ordinato di sparare contro la gente che manifestava legittimamente. Non sono una che chiude gli occhi.  Una “umanitaria” che non difende diritti umani negati non ha più etica. E voglio aggiungere anche una cosa: il popolo burundese ha molto subito, ma ha un carattere resiliente e, per questo, non rinuncerà mai a vedere confiscarti quei diritti umani elementari. Resto convinta che saremo liberi e che rientreremo. Perché, come diceva il Mahatma Ghandi, tutti i dittatori della storia del mondo finiscono per cadere. Francamente sento che ci sia ormai una maturità popolare per creare queste condizioni. Spero che la comunità internazionale intercetti questo grido e questa speranza.

Nel caso ciò risultasse possibile, intendi riprendere anche lì, in Burundi, l’opera interrotta e trasferita a Kigali?

Dico sempre che la carità non ha frontiere. Ho sempre vivo il ricordo di mio nonno. Mi accompagnò lui, ragazzina, per iniziare le scuole superiori a 200 chilometri dal mio villaggio. Avevo perduto mio papà a cinque anni di età. E mio nonno era molto importante nella mia vita. Quando mi disse “arrivederci” in quella occasione mi guardò con sguardo obliquo sotto il suo cappello. Non mi chiamava mai con il mio nome, Marguerite. Mi disse:

Mon enfant, le educatrici sono belghe. Non ti insegneranno mai ad amare la tua patria, il Burundi. Perché tu devi sapere che hai due madri. Quella terrestre che ti ha messo al mondo. E quella immateriale che si chiama Burundi”. 

Da quel giorno so che non si abbandona la propria madre quando agonizza.

Anche il Ruanda nel 1993-94 agonizzava…

Esattamente. E non è un caso che il leader attuale del Paese proprio in quel tempo abbia fatto ritorno e contribuito a ricomporre una crisi violentissima. E comunque quando tutto tornerà alla normalità ci troveremo anche un passaporto della Comunità africana che renderà più facile la cooperazione, le intese, la mobilità tra i paesi confinanti. Un esempio: oggi in Canada ci sono 18 mila burundesi che hanno sentimenti patriottici molto forti. Voglio dire che la nostra diaspora sarà parte della ricostruzione. Se chiediamo a noi stessi se siamo depressi o se conserviamo una visione, la vera risposta che ci dobbiamo dare è che nessuno al mondo ha il potere di fermare l’amore.  Ora è il momento di avere anche qualche audacia.

A proposito di “Maison Shalom” – una parola simbolica che oggi risuona per tante situazioni di conflitto, dall’Ucraina al Medioriente – che messaggio viene oggi per il mondo (che per altro con tanti riconoscimenti ha già dato riscontri) dalla tua esperienza di fronte alla difficoltà di riportare pace e coesistenza in realtà ancora drammatiche?

È vero che è un’espressione simbolica. Ma ci sono state delle incomprensioni. Anche a proposito della parola “Maison”. C’è chi ha pensato, al tempo, che si trattava di una “casa” dove mettere gli orfani di guerra. Punto. Papa Francesco dice spesso che dobbiamo curare la “nostra casa”, intendendo con questa parola la Terra. Il mio pensiero è sempre andato alla famiglia che abitava quella casa e quindi alla parola ebraica – lo dico anche da cristiana – che voleva intendere la pacificazione profonda del nuovo contesto. Era ed è una sfida al mondo: noi vogliamo che regni la pace. Il nostro logo è la semplice traduzione di questo sentimento. Era il pensiero di Martin Luther King: non volete vivere come fratelli? ebbene morirete come degli imbecilli.

Quanti episodi nella storia del mondo di questo nuovo secolo ci ripropongono il senso di questa affermazione, vero?

Ricordo infatti che al tempo del bombardamento di Baghdad (un nome che vuol dire “la città della pace”), nel 2003, avevo immaginato che Maison Shalom avrebbe dovuto agire in concreto in quelle circostanze. E che – avendone i mezzi – dovrebbe tuttora agire nei contesti drammatici di guerre, come quelle che oggi sono sotto i nostri occhi, dall’Ucraina al Medioriente, dalla Siria alla Somalia. Non parlo per megalomania, ma perché il modello che abbiamo sperimentato nel corso di quella catastrofe che è stata la guerra civile del 1993 e 1994 insegna cose inimmaginabili fuori da quei contesti.

E da questo punto di vista la tragedia della guerra civile del 1993-94, che hai ora ricordato, che ha riguardato Ruanda e Burundi, cosa ha lasciato di insoluto e come va vista con gli occhi al futuro?

La traccia della violenza è rimasta nella memoria del mondo, giustamente. Ma non si è fatto abbastanza per raccontare la complessità dell’azione di ricostruzione, con criminali sottoposti a giudizio, con riconciliazioni operate nel tessuto sociale e in quello istituzionale, in cui ha preso corpo anche un’esperienza come la nostra. Che si possa resistere e ritrovare dignità, anche partendo da una catastrofe, si è rivelato possibile.  Si è ritrovato persino un terreno pubblico di umanità che appariva impensabile. Ma – come è successo negli ultimi dieci anni in Burundi – è successo anche che non è stato sufficiente a prevenire un ritorno di violenza, che ha riguardato l’apparato dello Stato. Dunque, questo cantiere, per significare un paradigma per il mondo, deve ancora fare strada.

Si dice che l’Africa sia sempre più terra di penetrazione degli interessi russi e cinesi. Cosa ne pensano gli africani più responsabili? E come viene considerata la politica europea attuale nei confronti di un continente materno per l’Europa stessa?

Fammi dire, con franchezza, che penso che siamo tutti parte della stessa umanità. Che si tratti di russi o cinesi.  L’Europa dovrebbe mettere a punto una strategia vincente non tanto basata sulla concorrenza a russi e cinesi. Perché forse l’apertura dell’Africa verso russi e cinesi nasce anche per provocare un po’ la debolezza d’iniziativa degli europei che hanno – o almeno avrebbero – molti argomenti per rilanciare un grande progetto. Sia per le ragioni che hai ricordato di un’antica maternità africana, sia per le ragioni delle più recenti colonizzazioni. L’Europa porta una storia di lotte per i diritti umani e civili. Sono argomenti forti. Ci vuole più progettualità e meno paternalismo. Io – simbolicamente parlando – chiedo di essere trattata come una sorella non come una “poverina” (in italiano n.d.r.) da assistere.

Di recente, a giugno nel Palazzo Apostolico in Vaticano, il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin ha ascoltato per più di un’ora in udienza personale, il tuo punto di vista su molti di questi tremi e soprattutto sulla situazione del tuo Paese. Che sguardo ha oggi la Chiesa verso l’Africa e verso la regione dei Grandi Laghi in particolare?

Sai come è chiamato – religiosamente parlando – il Burundi? È chiamato “la Polonia africana”. Grande maggioranza cattolica. Ma – parlo adesso più in generale per la regione – la Chiesa Cattolica ha perso una parte della fiducia, proprio perché ha perso molte volte e in molte occasioni coraggio. È stata intimidita, certo. Ma ha anche spesso rinunciato a denunciare soprusi e violenze. Credo che oggi sarebbe importante che la Chiesa si facesse più audace. Il male resta il male. Se non è la Chiesa a riconoscerlo, chi lo deve fare? Essa conserva ancora una grande forza morale. La deve usare. Sento di potere dire queste cose – e le ho dette ad autorevoli interlocutori – perché la mia fede è saldissima e di essa fa parte anche un messaggio di liberazione che il cristianesimo esprime.

Che importanza annetti all’Italia e agli italiani (nella loro pluralità) nei riguardi del futuro di tutto ciò che hai pensato e realizzato per la dignità, la sicurezza, l’educazione e la salute delle popolazioni di cui tu ti occupi abitualmente?

In Italia ho sempre trovato attenzione e serietà di comportamenti. La nostra struttura ospedaliera in Burundi si chiamava, in italiano, Casa della Pace. Erano i medici italiani che vi collaboravano assiduamente. Sono italiane e italiani che hanno adottato alcuni nostri orfani. È stata una banca italiana che ha sostenuto per tre anni i costi della formazione dei nostri infermieri.  E poi ogni volta che sono stata in Italia ho potuto esprimermi, ho potuto confrontarmi, ho potuto comprendere la generosità e non gli interessi che di solito vengono sollecitati per darsi da fare nei confronti di paesi con problemi. E in Burundi ci sono missionari e missionarie italiane all’altezza della difficoltà di quelle funzioni.

 Hai sostenuto i valori di pacificazione e di coesistenza in due paesi africani che hanno espresso una vera e propria catastrofe umanitaria soltanto trenta anni fa. Pensi che questo modello abbia fatto strada e conquistato condizioni di stabilità?

Non ho mai pensato di predicare nel deserto. Premi, riconoscimenti, atti di solidarietà sono stati in questi anni il segnale di un dialogo internazionale prima di tutto attorno a un “modello”, come dici, riconosciuto, il cui esito è importante per tutti. I duecento ospiti venuti da tutto il mondo a proprie spese a Kigali per un evento simbolico, come il nostro trentennale, sono un riscontro che ci motiva molto. Così come ho considerato preziosa la benevolenza di figure europee importanti, come Louis Michel in Belgio o la Granduchessa del Lussemburgo. Ma ora non è il tempo del compiacimento. È il tempo per ripristinare, con l’aiuto del mondo, una condizione di libertà di contesto preziosa come l’aria. In questi prossimi due anni Congo, Ruanda e Burundi vanno ad elezioni. Non entro nel merito né dei candidati, né della trasparenza di questi eventi. Dico solo che quel contesto potrebbe farsi ancora più tenebroso oppure aprire squarci di grande opportunità. E su questo l’appello a chi ha forza e potere negoziale è proprio alla coscienza che sento di poter sollecitare verso miglioramenti divenuti inderogabili. L’Europa, l’ONU possono agire proprio in questo tempo che guardando il rapporto tra opportunità e rischi potrebbe anche essere un tempo di prevenzione.