Il libro

Democrazia Futura. Storia di una piccola minoranza e del suo rapporto con la maggioranza

di Sara Carbone, storica e critica letteraria |

La recensione del libro di Anna Foa, "Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni".

Sara Carbone

Sara Carbone per la rubrica “Fresco di Stampa” in un pezzo intitolato “Storia di una piccola minoranza e del suo rapporto con la maggioranza” recensisce il saggio di Anna Foa, Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni pubblicato da Laterza. “La storica si mette sulle tracce degli ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ponendo al vaglio le fonti storiche disponibili e individuando nella parte meridionale dell’Italia, fino alle città di Roma e Ostia, «il cuore della diaspora occidentale» degli ebrei: si tratta di insediamenti antichi che risalgono a un periodo precedente alla distinzione tra ashkenaziti e sefarditi e all’interno dei quali, all’inizio, non si registrano differenze di costumi rispetto alle altre comunità ebraiche fuori dall’Italia”.

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Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni» della storica Anna Foa, edito nel 2023 per la casa editrice Laterza, rappresenta più che la narrazione di una specificità storica – le vicende del popolo ebraico in Italia-, quella di un racconto, fenomenologico ed epistemologico insieme, dell’elemento ignoto che, di volta in volta, si inserisce nel noto, nell’accomodato, di ciò che è sconosciuto, di una minoranza che impatta la maggioranza, del nuovo che viene a turbare paradigmi sociali e civili.

Tale approccio, esplicitato chiaramente nella postfazione – «storia di una piccola minoranza, del suo rapporto con la maggioranza» – è coerentemente mantenuto durante tutto l’arco della narrazione. Le ansie suscitate nel mondo cristiano dalla scoperta del Nuovo Mondo e dai «suoi milioni di abitanti che non avevano conosciuto il Cristianesimo», a esempio, vengono placate con l’identificazione degli indigeni con gli ebrei, attingendo dal mito antico e, per altro ebraico, degli “ebrei nascosti”. Tale riconoscimento, fa osservare la studiosa, non è altro che l’inserimento dell’«ignoto nel noto» e diventa esigenza ogni volta che una società viene turbata da ciò che non conosce.

Anna Foa analizza il mondo ebraico italiano dall’interno e dall’esterno con un continuo spostamento di prospettiva che le consente di individuare aperture e chiusure reciproche di due mondi, quello cristiano e quello ebraico, i quali, pur riconoscendo la necessità della presenza dell’altro, non rinunciano a rimarcare confini e differenze perché gli altri sono «necessari come un’ombra di sé». Sebbene affascinati dalla cultura cristiana, nel corso del Quattrocento, a seguito della diffusione dei testi a stampa, infatti, gli ebrei esternano il timore di perdere la loro integrità culturale collaborando in modo troppo costante col mondo cristiano; i cattolici, parimenti, nel tentativo di frenare l’interesse che si è andato manifestando per la cultura ebraica nel secolo precedente in Italia, spingono, nel Cinquecento, per il sequestro del Talmud nelle biblioteche ebraiche e la sua distruzione nella pubblica piazza.  

Le comunità ebraiche in Italia

Tra accoglienza e separazione il mondo cristiano cattolico italiano agisce sempre nel corso del tempo. In questo senso può essere letto anche il “risanamento religioso” operato dalle città, prima di Ferrara e poi di Ancona, di fronte alla questione dei marrani nel XVI secolo; Ercole II e papa Paolo III consentono ai conversos di scegliere se essere ebrei o cristiani ma, una volta fatta la decisione non è possibile modificarla e tale divieto è previsto anche per le generazioni successive: una possibilità di scelta certo, ma immutabile e, dunque, volta a creare una netta e definitiva divisione.

La storica si mette sulle tracce degli ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ponendo al vaglio le fonti storiche disponibili e individuando nella parte meridionale dell’Italia, fino alle città di Roma e Ostia, «il cuore della diaspora occidentale» degli ebrei: si tratta di insediamenti antichi che risalgono a un periodo precedente alla distinzione tra ashkenaziti e sefarditi e all’interno dei quali, all’inizio, non si registrano differenze di costumi rispetto alle altre comunità ebraiche fuori dall’Italia.

Col procedere della trattazione, si evidenzia come la specificità delle comunità ebraiche in Italia tragga origine da una maggiore apertura e, dunque, scambio, di questa minoranza ebraica con l’esterno ossia con ciò che socialmente si configura come “maggioranza”. Dall’essere piuttosto piccole, formate generalmente al massimo da due famiglie (tranne nel caso di quella a Bologna), quando si diffondono in tutta Italia a partire dalla fine del Duecento, le comunità ebraiche italiane sono caratterizzate dall’assenza del Talmud, proibito appunto a partire dal Cinquecento, e, dunque, «del testo fondante dell’esegesi rabbinica»; introducono, nel corso del Rinascimento, gli strumenti musicali nelle sinagoghe e, dunque, la musica,  che è avversata dal rabbinato più tradizionalista, il quale vieta di «rallegrarsi … dopo la distruzione del Tempio».

L’integrazione degli ebrei in Italia

È nel capitolo intitolato «L’Età dell’emancipazione», in cui l’autrice rivolge l’invito «a tornare alla storia» come rimedio a interpretazioni ideologiche più che storiche appunto, che si delineano le principali specificità del “caso” italiano: la continuità storica degli ebrei italiani (che, sottolinea la Foa, non è sempre un vantaggio); la mancanza di una migrazione ebraica dall’Est europeo e, dunque, una conseguente stabilità demografica degli ebrei in Italia; la presenza nel Paese della Chiesa cattolica e del ghetto inteso come «ideologia catechizzante e di controllo e non solo come chiusura e separazione». Tutti fattori questi che hanno determinato un processo di modernizzazione degli ebrei italiani non in termini di assimilazione ma di integrazione che si è realizzata senza eccessive perdite di identità.

In un’indagine che non manca di rilevare, di riflesso, i contrasti interni al mondo della Chiesa cattolica e che inquadra la storia degli ebrei italiani in una prospettiva più ampia di rapporti di potere che caratterizzano, a esempio, le relazioni fra Roma e il Portogallo che spinge per l’istituzione dei un’inquisizione sul modello spagnolo attorno alla metà del Cinquecento, la Foa individua nell’Ottocento il momento della massima integrazione ebraica in Italia: i ghetti vengono chiusi, gli ebrei partecipano al processo risorgimentale italiano e viene riconosciuto loro lo status di cittadini; se qualche episodio di antisemitismo si manifesta nel Paese in quegli anni, dice convintamente la Foa «senza timore», esso va attribuito, più che all’antisemitismo politico che si va diffondendo in Europa, a un antisemitismo cattolico  di una Chiesa che interpreta il ruolo di «convitato di pietra» in uno Stato di recente costituzione e sempre più laico.

Le leggi razziali del 1938

Bastano gli anni del fascismo – anni in cui tutti sono fascisti e, dunque, lo sono anche gli ebrei italiani – a cancellare quei principi di uguaglianza a cui ci si è ispirati nel tardo Ottocento: l’introduzione delle leggi razziali in Italia nel 1938 sono la pagina più buia in assoluto della storia del razzismo in Italia, «la storia di un necrologio». Introdotte, senza alcuna richiesta esplicita in tal senso da parte della Germania, da un Mussolini che crede, così, di “allinearsi” alla modernità, esse sono prima di tutto, leggi razziste e non antisemitiche: mirano a colpire i camiti quanto i semiti come dimostra il primo numero de La difesa della razza, che ritrae una donna africana in primo piano, dietro la quale si staglia l’immagine di un ebreo; esse furono, in parte più dure di quelle di Norimberga, poiché, non contemplando alcune distinzioni, come quella fra ebreo e meticcio, fanno sì che molte più persone rientrino nella categoria di “ebreo”. È il silenzio con il quale gli italiani accolgono tali leggi a dover farci riflettere così come il collaborazionismo dei fascisti di Salò alle deportazioni nei campi di concentramento a essere sufficiente, da solo «a sfatare il mito degli italiani brava gente».

Ricorrendo a una metodologia rigorosa, alla quale ci ha abituato con i suoi testi – pone e si pone domande, avanza ipotesi – Anna Foa chiama a raccolta un’imponente documentazione e passa a narrare i fatti; quando ci si aspetta che la sequenza narrativa sia conclusa, la storica, invece, avanza una nuova riflessione, una nuova domanda alla quale risponde assumendosi tutta la responsabilità intellettuale di chi dice esplicitamente: «Io credo», «Penso di poter affermare».

Lo stile di Anna Foa, fedele al suo obiettivo di non scrivere per i suoi colleghi ma ai fini di una «divulgazione alta», è quello di Federico Chabod, caratterizzato da semplicità sintattica e da un lessico piano ma sempre rispondente al valore dell’esattezza terminologica.

Gli undici capitoli di cui si compone il libro sono tutti corredati da un focus finale, quasi un’appendice, che affronta biografie e vicende specifiche oggetto di studi passati e materia di pubblicazioni dedicate. Un esempio fra tutti, la storia di alcune ragazze che, nel 1554, a Roma, a seguito di comportamenti strani manifestati, vengono esorcizzate e, alla domanda su chi abbia mandato loro il diavolo, queste rispondono che sono stati gli ebrei. È una vicenda che la scrittrice affronta nell’agile testo dal titolo Eretici, Storie di streghe, ebrei e convertiti, edito dalla casa editrice il Mulino di Bologna nel 2004. Ma indizi di studi dedicati a certi temi, da frequentatrice della materia, sono i richiami ad argomenti analizzati in altre sedi anche nel corso della trattazione storica vera e propria.  Ci si riferisce, a mo’ di esempio, al capitolo in cui Anna Foa analizza la situazione degli ebrei in Italia alla fine dell’Ottocento e la pone a confronto con quella di altre realtà europee, francese e tedesca in particolare, rintracciando nella classe dirigente e intellettuale italiana un’impronta bruniana piuttosto che wagneriana di cui si fa portavoce, invece, il mondo tedesco unificatosi ugualmente in tempi recenti. La vicenda della collocazione della statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori a Roma, inaugurata ufficialmente il 9 giugno 1889, che viene considerata da parte dei detrattori della figura del filosofo nolano «opera di “stranieri, ebrei, ateisti e massoni”», e lo scontro politico e religioso che la caratterizza, sono stati, infatti, oggetto di un’indagine esclusiva da parte della studiosa, confluito nella pubblicazione del volume Giordano Bruno, edito nella collana L’identità italiana del Mulino, nel 1998.

Nelle battute finali del libro, si ripercorrono le vicende che vedono protagonisti gli ebrei dopo il 1945 e si riflette sul valore della memoria mentre l’attenzione della storica – come annota nella post fazione, datata luglio 2022 – è già catturata dai rovesciamenti del tempo presente rispetto ai quali l’autrice si chiede se il mondo «potrà mai ritornare anche solo ad assomigliare a quello di prima».

Di fronte a tali incertezze e fragilità, Anna Foa si affida al potere rassicurante della Storia che

«anche di fronte ai grandi rivolgimenti, [mantiene] un suo compito» e cioè quello di insegnare «a misurarci sempre con il resto del mondo, a restare esseri pensanti, a salvaguardare la nostra umanità, a guidarci nelle nostre ineludibili scelte».