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Democrazia Futura. Sei mesi di dibattito pubblico su pandemia, democrazia e sicurezza: come prima, più di prima…

di Stefano Rolando, Professore di Comunicazione pubblica e politica di ruolo dal 2001 all’Università Iulm di Milano |

Oggi siamo in grado di leggere con più ampiezza la quasi totalizzante discussione di questi mesi che si apre a interrogativi pressanti sull’incerto futuro. E’ bastato infatti poco, in questo tempo di aggressività planetaria del virus, per sentire quotidianamente, ma diversamente declinata, l’espressione “come prima”. Per alcuni “nulla sarà come prima”; per altri “tutto tornerà come prima”. Ma cosa ci aspetta davvero?

Pubblichiamo di seguito il contributo di Stefano Rolando, Professore di Comunicazione pubblica e politica di ruolo dal 2001 all’Università Iulm di Milano, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0” e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.

Ho iniziato il 21 febbraio, su proposta e intuizione del mio rettore Gianni Canova, un monitoraggio quotidiano attorno al “dibattito pubblico” innescato da Coronavirus.  Quel giorno era segnato da due contagi in Italia (ma con l’ombra del caso di Wuhan).

Oggi (fine settembre 2020), con una seconda ondata in corso, siamo arrivati a 25 milioni di contagi complessivi nel mondo (e 840 mila morti) e a 265 mila contagi e – pur con minore letalità – a quasi 36 mila morti in Italia.

A fine aprile gli amici di Infocivica che danno vita a questa rivista – un prezioso nucleo di operatori e studiosi che hanno a cuore le sorti del concetto di servizio pubblico (anche al di là dello specifico radiotelevisivo – hanno avuto la cortesia di chiedermi di aprire una discussione sulle dominanti del dibattito pubblico in quel momento. Ho messo due punti al centro di quell’occasione (oggi diremmo di “mid-term”): efficacia e crisi del governo comunicativo dell’emergenza, riguardante l’evidenza (caso così tradizionalmente italiano) di molti dualismi e natura dei conflitti inter-istituzionali, al momento con prevalenza nel rapporto Stato-Regioni.

Oggi siamo in grado di leggere con più ampiezza la quasi totalizzante discussione di questi mesi che si apre a interrogativi pressanti sull’incerto futuro.  E’ bastato infatti poco, in questo tempo di aggressività planetaria del virus, per sentire quotidianamente, ma diversamente declinata, l’espressione “come prima”.  Per alcuni “nulla sarà come prima”; per altri “tutto tornerà come prima”.

Una risposta univoca non c’è, né in Italia né altrove. Le tesi si contrappongono in alcuni ambiti ragionevolmente, in altri ambiti (come quello innescato dal negazionismo) mescolando argomenti importanti e irragionevolezze antiscientifiche. Al di là di tesi espresse con dignità culturale e filosofica, vi sono poi – a trovarne traccia – forti scontri di interesse.

Attorno a cui tutte (o quasi) le voci vanno ascoltate perché gli interessi maggiori di parte, quindi fondati su vantaggi finanziari e di potere, parlano poco e contano molto. Ora si comincia a profilare una sorta di posizione di mezzo. Un’idea cioè che i cambiamenti saranno vistosi ma che, per il modo di rapportarci ad essi senza un grande progetto globale di conoscenza e di orientamento all’etica pubblica, rischiamo di trovarci più coinvolti in adattamenti parziali e inerziali che in rigenerazioni progettuali.

In questa scia comincio a raccapezzarmi. Stordito dagli economisti che hanno dettato condizioni per essere “come prima”. Strattonato dagli scienziati che hanno dettato condizioni per “non essere come prima”. E infine divaricato dai filosofi: alcuni hanno auspicato il raggiungimento della maturità esistenziale (diventare “migliori”), altri hanno previsto la perdizione nei rancori e nelle frustrazioni (diventare “peggiori”).

Il parere di chi scrive, nei giorni ancora di transizione estiva verso l’esito incerto di questa “fase due”, è permeato da qualche pessimismo.

E’ vero che le vicende gravi della storia hanno rimesso in movimento quasi sempre umanità, sapere, progettazione, riscatto. Ma non è vero che ciò sia avvenuto e che ciò avvenga in automatico. E nemmeno nei tempi brevi in cui le ombre avvolgono ancora tanto i problemi quanto le soluzioni.

Rispetto all’andamento d’opinione, che tra giugno e luglio 2020 ha fatto immaginare ragionevole pensare alla svolta in autunno, quel che ora appare è che – sanitariamente, socialmente, culturalmente – i percorsi stanno prendendo i tempi del “medio periodo”.

Dunque due/tre anni, in cui il vecchio e il nuovo si daranno il cambio.  Con la dolorosità, le inerzie, le intuizioni, i ritardi, che sono universalmente distribuiti nelle situazioni di crisi. Ma rispetto a cui alcune comunità rispondono con più metodo e vigilanza proattiva, altre con maggiore trascuratezza.  L’Europa contiene l’una e l’altra faccia della medaglia. L’Italia contiene l’una e l’altra faccia della medaglia.

Monitoraggio

Nel quadro del monitoraggio quotidiano della relazione tra le istituzioni e la società i flussi osservati sono stati diversi. Messaggi istituzionali per influenzare i comportamenti (nella prima fase andati a segno, che è un argomento da lasciare a credito soprattutto della volonterosità del premier e della impaurita saggezza degli italiani).

Voci nel quadro del sistema pubblico (comunità scientifica in testa) per incrementare conoscenza e responsabilità (crescita della domanda sì, il resto è tema aperto). Orientamenti dei principali soggetti che influenzano il dibattito pubblico (Scuola, Università, Rai, per cominciare) per promuovere qualità partecipativa: troppa entropia, troppi vincoli, troppa confusione anche sul termine partecipazione per cogliere cose da apprezzare.

Di converso le fonti statistiche (realtà) e demoscopiche (percezione) che offrono tendenzialità reattive (o non reattive). Qui con l’aggravio che una grande occasione di riequilibrio statistico rispetto ai sondaggi, vede le statistiche sotto tiro e i sondaggi sempre prevalenti.

Queste voci – ove possibile e in un modo espressivo che qualche volta è stato encomiabile – hanno tenuto conto di qualità, conflitti, sforzi e reticenze. Ma hanno visto purtroppo una perdita di un quarto del consumo dei quotidiani. Poca rigenerazione dei format televisivi. Irrobustimento della rete, che ora contiene anche un giornalismo d’opinione più diffuso, ma anche tutta l’offensiva delle fake news che spaventa chi conserva un briciolo di giudizio sul sistema dell’informazione.

Noi parliamo di linea di relazione tra pandemia e democrazia. Ma il grosso dei cittadini legge come centrale la questione pandemia-sicurezza. Quindi gli sbandamenti su soccorsi e cura, ma anche il coraggio, la tenuta, l’impegno di un sistema sanitario che – pubblico o privato – risponde alla responsabilità delle istituzioni. Il momento è cruciale, perché il vissuto della prima fase non è catastrofico. Ma l’uso delle risorse per riorganizzare e prevenire adesso è cosa decisiva, anzi prioritaria.

Non abbiamo più un dato aggiornato e verificato sull’analfabetismo funzionale nel nostro paese, tra l’affermazione mai smentita di Tullio De Mauro di una ventina di anni fa che parlava di 47% e i dati OCSE (costruiti con maggiore prudenzialità) che due anni fa miglioravano attorno al 30% una condizione comunque grave.

E’ evidente che questa realtà (uno su due oppure uno su tre) influenza tutti gli esiti. E influenza la politica (per cui alfabetizzati o analfabeti funzionali, sempre voti sono) a preferire spesso galleggiamenti, ambiguità ma soprattutto eccessive semplificazioni anche del processo di conoscenza e responsabilizzazione.

Lo schema di analisi che gli operatori di comunicazione pubblica (anche giornalisti della “pubblica utilità”) avvertono per giungere a un giudizio trasversale su queste complesse vicende è che nella fase emergenziale si sia registrata una certa efficacia tra comunicazione e comportamenti; ma che dalla fine del lockdown l’ondeggiamento comunicativo ha raccontato tutta la difficoltà italiana di avere netta preferenza per strategie con confronti e convergenze programmate e non per  forme solo apparenti. “Inventari” (Piano Colao), “passerelle” (Stati generali) “equidistanze” (oggi con gli scienziati, domani con gli industriali), eccetera. Alla fine gli stakeholder sono tutti scontenti, le priorità ignote, le responsabilità evaporate. La confusione del dibattito (prioritario) sulla scuola non è stato un buon banco di prova.

Per questo alcune notizie che si sono lette sulla stampa in questi mesi hanno fatto sobbalzare, perché non ci introducevano, responsabilizzandoci, nella fatica e anche nella dolorosità dei cambiamenti. Ma sempre in un mondo magico che, senza problemi, si sarebbe schiuso alla miglior sorte. Per esempio questa, del 5 giugno: “La cancelliera Angela Merkel ha dichiarato alla tv tedesca Zdf:Sono contenta che il premier italiano abbia detto di voler cambiare l’azione di governo e che abbatterà la burocrazia. Ha anche presentato un piano per cambiare il Paese“.

Tracce di evoluzione

In questa immensa sintesi dobbiamo tornare almeno alla piccola responsabilità di chi scrive attorno a un’idea sulla linea evolutiva.  Gli eventi che abbiamo annotato nel corso del semestre, di volta in volta potendo scrutare il lato prevalente della tendenza, propendono per tre mediane di sintesi, che prenderanno forma appunto nel medio termine indicato.

  • Tra estinzione dell’epidemia, ristrutturazione degli handicap sanitari riconosciuti, riadattamento della cultura di prevenzione, vaccinazioni universali, i tre anni non basteranno a mostrare una “svolta”;
  • tra spinte a governare con annunci e ondeggiamento strategico, piuttosto che ad assumere l’intera responsabilità di un indirizzo strategico che non confida sui cardini dell’assistenza ma su intelligenti e governati piani di riorganizzazione e rilancio produttivo, non è un “partito preso” dire che oggi emerge una connotazione disarmante.  Per inciso, aggiungo: peggiorata dall’enfasi messa sul diversivo incomprensibile della centralità del referendum sul taglio ai parlamentari.  Con una preoccupazione in più: che se il quadro di governo è responsabile di questo indirizzo incerto, il quadro dell’opposizione a grandi linee appare persino più arretrato nel posizionamento strategico;
  • così le radicalizzazioni che ogni crisi grave determina inevitabilmente (ricchi e poveri; partecipanti con opinione informata ai processi di cambiamento e ambiti sociali passivizzati senza reattività; corpi intermedi resi idonei a gestire le dinamiche di sussidiarietà rispetto a corpi intermedi puramente convolti nella rivendicazione formale; eccetera) appaiono già, dopo sei mesi di crisi, fonti di più gravi disuguaglianze. E appare anche – fatti salvi pochi nuclei consapevoli – che non ci sono sponde solide nei sistemi decisionali per immaginare la formazione di una rassicurante dialettica al riguardo.

Questo schema induce a uno scenario che ha prevalentemente i tratti della politica. Diciamo – per fare riferimento a questa rivista – che sono i tratti che orientano un giudizio sulla qualità della “democrazia futura”. 

L’approccio seguito nell’esperienza qui accennata non è stato tuttavia propriamente nelle scienze politiche, cioè costruito per cogliere come la pandemia fa morire vecchia politica e fa nascere politica rinnovata, anche se molte pagine del testo che cerca ora di descrivere il percorso contengono alcuni spunti forse utili a questo esame.

L’approccio usato appartiene piuttosto alle analisi delle scienze della comunicazione, che sono riuscite dopo trenta anni dalla loro legittimazione accademica a non ottenere nemmeno la principale legittimazione disciplinare, quella cioè di esistere attraverso autonomi raggruppamenti. Argomento questo di una considerazione finale. 

Parliamo di un campo che conta moltissimo nei consumi e nelle dinamiche finanziarie e tecnologiche. Ma il cui corrispettivo accademico-disciplinare è un’area debole e subalterna a storici radicamenti (sociologia, economia, filosofia, diritto, tecnologia) che si sono fin qui divisi l’egemonia senza farsi nemmeno contaminare da quel naturale sconfinamento che questo nuovo campo di ricerca e didattica profila. In tale quadro il settore della comunicazione pubblica ha avuto negli anni citati solo lo spunto importante di una legge di settore, oggi attaccata.  Una materia professionale erosa nella pratica che non ha avuto neppure l’adeguata accoglienza che si deve alle “macro-discipline contenitrici”, cioè perimetro di molteplici approcci.  Così che tutta la domanda di rinnovamento della comunicazione istituzionale (dalle istituzioni ai cittadini e viceversa) – che è la punta dell’iceberg della comunicazione pubblica e che potrebbe essere uno degli esiti auspicabili della crisi – è appesa a un filo sottile. Troppo sottile.

Pur mettendo all’ordine del giorno – con questa pandemia in esemplare evidenza –  tre temi immensi:

  • portare a sistema la comunicazione scientifica nel rapporto tra istituzioni, educazione e società;
  • portare a sistema la comunicazione di crisi, al di fuori dei contesti emergenziali, per costruire una cultura sociale della prevenzione;
  • portare a sistema la regia di una battaglia pubblica civile per l’annientamento dell’analfabetismo funzionale.

Sono i tre mali che conducono una guerra antica e silenziosa al paese del coraggio, della dedizione, della creatività, della fraternità, della qualità organizzativa.  Che pure è un paese che conosciamo.

Mali che ancora avremmo la possibilità di identificare meglio e attaccare frontalmente.

Solo che ci fossero idee chiare. E riformatori ancora all’opera.      

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