Guerre

Democrazia Futura. L’Onu non chiede tregua, bensì solo più aiuti, mentre la strage continua

di Giampiero Gramaglia Giornalista, co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles |

Venti mila morti ammazzati, oltre mezzo milione di persone che soffrono la fame, circa due milioni di sfollati, in un territorio grande un decimo della città di Roma, con due edifici su tre distrutti o seriamente danneggiati. Ma tutto ciò non basta al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per disporre “una sospensione delle ostilità urgente”.

Giampiero Gramaglia

Prosegue la pubblicazione dei pezzi scritti da Giampiero Gramaglia dedicati alla guerra fra Hamas e Israele. Il primo “L’Onu non chiede tregua bensì solo più aiuti, mentre la strage continua[1]“, scritto alla vigilia di Natale, rievoca i rapporti agghiaccianti dell’Onu sulla situazione alla Striscia di Gaza: il secondo articolo, “Speranze di pace, notizie di morte[2]” scritto il 3 gennaio 2024, aggiorna i numeri di un’immane tragedia non senza rievocare le ripercussioni sul fronte interno israeliano. Il terzo, scritto il 10 gennaio 2024 osserva infine come “Proseguono i movimenti diplomatici, ma continua la conta dei morti[3]“, affrontando questa volta i riflessi del conflitto negli Stati Uniti e i rischi di allargamento del conflitto nello scacchiere medio-orientale.

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Venti mila morti ammazzati, oltre mezzo milione di persone che soffrono la fame, circa due milioni di sfollati, in un territorio grande un decimo della città di Roma, con due edifici su tre distrutti o seriamente danneggiati. Ma tutto ciò non basta al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per disporre “una sospensione delle ostilità urgente”.

Dopo giorni di tira e molla per ottenere che gli Stati Uniti non s’astengano, il Consiglio di Sicurezza approva un documento annacquato, che chiede un’accelerazione degli aiuti umanitarie, ma si limita ad appoggiare l’idea di una pausa nei combattimenti, senza chiederla. Attualmente, nella Striscia, quando va bene, entra un decimo dei tir abitualmente necessari al sostentamento della popolazione. Gli Stati Uniti, ma anche la Russia, per motivi diversi, si sono astenuti.

La mozione è stata approvata, ma avrà scarso impatto. Israele sottolinea che “mantiene l’autorità delle forze di sicurezza israeliane di monitorare e ispezionare gli aiuti in ingresso a Gaza”; e ringrazia gli Stati Uniti e il loro presidente Joe Biden “per la ferma posizione al nostro fianco”. L’Onu – è l’accusa che viene da Gerusalemme – “tace di fronte alle atrocità del 7 ottobre” e “guarda solo agli aiuti a Gaza”, invece di pensare alla “crisi degli ostaggi”.

A innescare il conflitto furono i raid terroristici del 7 ottobre in territorio israeliano: miliziani di Hamas e di altre sigle palestinesi fecero 1200 vittime e presero 240 ostaggi, circa 130 dei quali restano in mani palestinesi (oltre cento sono stati liberati nella settimana di tregua a fine novembre).

Il voto del Consiglio di Sicurezza è arrivato dopo una serie di rinvii causati dall’impegno a evitare, com’era accaduto due settimane or sono, il veto degli Stati Uniti, che restano solidamente vicini a Israele, nonostante i tentativi senza esito di esercitare una ‘moral suasion’ per ridurre uccisioni e sofferenze dei civili.

Il 12 dicembre, l’Assemblea generale delle Nazioni unite aveva chiesto, a larghissima maggioranza, una tregua. Ma quel voto non ha carattere vincolante, come avrebbe invece un ordine del Consiglio di Sicurezza.

Rapporti Onu agghiaccianti

Con la guerra ormai giunta sulla soglia dell’80° giorno, rapporti dell’Onu dicono che oltre un quarto della popolazione di Gaza, 570 mila persone per la precisione, soffrono “una fame devastante”, perché nella Striscia non entra cibo a sufficienza: peggio che le recenti carestie in Afghanistan e nello Yemen.

Scrive l’Associated Press, parafrasando i documenti dell’Onu:

“In poco più di due mesi, l’offensiva israeliana ha causato più distruzioni che ad Aleppo, rasa al suolo tra il 2012 e il 2016, e a Mariupol in Ucraina… Per certi aspetti, le devastazioni sono state superiori a quelle provocate dai bombardamenti alleati sulla Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale… La campagna nella Striscia ha ucciso più civili di quella condotta per tre anni contro il sedicente Stato islamico, l’Isis…”.

L’avere costretto circa due milioni di palestinesi, praticamente tutta la popolazione della Striscia, che era di 2,2 milioni prima del conflitto, ad abbandonare le loro case, rappresenta l’esodo maggiore nella Regione dal 1948, quando venne creato lo Stato di Israele. Poche aree della Striscia sono state risparmiate da bombardamenti e combattimenti e gli ordini di evacuazione di Israele, spesso casuali e confusi, hanno costretto i rifugiati ad ammassarsi in zone sicure di dimensioni sempre più ridotte.

Il Ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che il numero delle vittime ha superato le 20 mila, con oltre 50 mila feriti: un abitante su cento della Striscia è stato ucciso, uno su 40 è stato colpito; donne e bambini rappresentano il 60 per cento delle perdite umane.

Le preoccupazioni internazionali per l’impatto sui civili dell’offensiva israeliana vanno crescendo, e pure il danno di immagine per Israele nelle opinioni pubbliche, senza che se ne intravveda una fine e senza che ci sia una prospettiva di soluzione politica per il futuro assetto della Striscia.

Gli appelli dell’Amministrazione Biden al Governo Netanyahu perché riduca le perdite civili sono sostanzialmente disattesi, così come gli allarmi delle organizzazioni internazionali perché fame e malattie stanno diffondendosi nella Striscia sull’orlo del collasso.

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La situazione delle due guerre Israele-Hamas e Ucraina all’inizio del 2024

Speranze di pace, notizie di morte

L’anno che si spera di pace si apre con notizie di guerra: in Medio Oriente, Israele uccide in Libano un capo di Hamas; in Ucraina, sono 500 i missili e i droni russi scagliati in cinque giorni – mai così tanti -. Non c’è un’ipotesi di tregua, men che meno un percorso per superare i conflitti.

Saleh al-Arouri, uno dei fondatori dell’ala militare di Hamas, e due altri comandanti delle Brigate al-Qassam, le unità di elite di Hamas, vengono raggiunti da un missile ed eliminati in un palazzo d’un sobborgo a sud di Beirut. L’azione potrebbe scatenare ritorsioni.

A partire dal 3 gennaio 2024, l’esercito israeliano inizia a ritirare una parte delle truppe dal nord della Striscia di Gaza – migliaia di soldati, intere unità -; ma avverte che i combattimenti continueranno per tutto il 2024.

C’è chi vede nella decisione un segnale della volontà di Israele di ridurre l’intensità di scontri e bombardamenti e di passare, dopo quasi tre mesi, ad un conflitto meno cruento, almeno in termini di vittime civili, tenendo così conto delle pressioni internazionali. L’annuncio è stato fatto dopo alcune delle giornate più letali dell’intera guerra, con attacchi su campi di rifugiati che hanno fatto centinaia di vittime.

Il ministro della Difesa Yoav Gallant puntualizza: 

“La sensazione che noi stiamo fermandoci non è giusta. Se non vinciamo in modo netto, non potremmo resistere nel Medio Oriente”.

Il conflitto prosegue senza sosta, con aspri combattimenti nel Sud della Striscia, dove la situazione umanitaria è, se possibile, sempre più drammatica. E persiste il rischio di allargamento dell’area di guerra, osserva Politico: dal Libano, dove Israele colpisce, al Mar Rosso, dove i ribelli sciiti dello Yemen intralciano la libertà di navigazione.

In Ucraina, invece, le cronache di guerra sono sostanzialmente ridotte ai bombardamenti notturni, d’intensità, però, spaventosa. Kiev prende di mira la Crimea, unità russe nel Mar Nero, Belgorod; Mosca replica con gli attacchi più pesanti dall’inizio del conflitto; ci sono vittime civili da una parte e dall’altra, molto più numerose le ucraine.

Il fronte, però, resta bloccato: il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj cerca di rinvigorire il sostegno occidentale al suo Paese e sostiene che l’Ucraina può vincere sul terreno, riconquistare i territori occupati, ma gli aiuti americani promessi non sono stati ancora sdoganati dal Congresso di Washington.

Il presidente russo Vladimir Putin pronuncia propositi bellicosi a fine anno, ma, secondo il New York Times, avrebbe “silenziosamente segnalato” all’Occidente di essere disponibile a un cessate-il-fuoco, che lo troverebbe in posizione di vantaggio.

I numeri di una immane tragedia

In quasi tre mesi della guerra innescata dagli attacchi terroristici del 7 ottobre in territorio israeliano, che fecero circa 1200 vittime e centinaia di ostaggi (una metà dei quali ancora prigionieri), i morti nella Striscia di Gaza sono oltre 22 mila, calcola il Ministero della Sanità di Hamas. L’esercito israeliano ha perso sul campo 170 soldati. L’Onu segnala centinaia di funzionari e operatori umanitari uccisi. I giornalisti caduti sono almeno cento.

Sul fronte umanitario, i palestinesi non hanno più modo di sottrarsi all’offensiva israeliana, estesasi al Sud della Striscia. Fonti dell’Onu dicono che almeno 150 mila persone “non sanno dove andare”, dopo che l’esercito israeliano le ha invitate a sgomberare le loro abitazioni. Inchieste giornalistiche accertano orrori non dichiarati: il New York Times testimonia ogni genere di violenze e brutalità sessuali perpetrate dai terroristi palestinesi il 7 ottobre su donne israeliane; altri media raccontano dolore e sofferenza nei campi palestinesi attaccati.

Capitolo ostaggi, il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, parlando in televisione, dice che

“i prigionieri del nemico saranno rilasciati solo alle condizioni stabilite dalla resistenza”.

Hamas e Jihad islamica hanno informato l’Egitto di volere il cessate-il-fuoco e il ritiro degli israeliani. Sugli scenari futuri Haniyeh prospetta un possibile governo nazionale palestinese che gestisca sia la Striscia che i Territori (e che sarebbe controllato da Hamas).

Giustizia, ostaggi, i fronti interni

In Israele, il conflitto non è solo un fatto militare, ha anche dimensioni politiche.

Sul fronte interno, la Corte Suprema boccia elementi della riforma della giustizia del premier Benjamin Netanyahu, specie quelli che limitano i suoi poteri. Prima del 7 ottobre 2023, la riforma era quotidianamente oggetto di massicce contestazioni popolari e il giudizio della Corte Suprema può ravvivare tensioni sociali, che si sommano alle richieste di dare priorità al ritorno degli ostaggi piuttosto che alla eradicazione di Hamas dalla Striscia di Gaza.

Ma proprio l’addensarsi di tensioni politiche interne e, inoltre, la prospettiva di una resa dei conti dopo il conflitto sull’incapacità di prevenire gli attacchi terroristici del 7 ottobre possono indurre Netanyahu a protrarre lo stato di guerra.

Il governo israeliano si prepara a confutare dinanzi alla Corte penale internazionale dell’Aja accuse di genocidio mossegli dal SudAfrica, in merito all’offensiva nella Striscia di Gaza. Israele sostiene che il SudAfrica “dà copertura politica e legale” agli attacchi terroristici del 7 ottobre.

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Guerra Israele – Hamas

Proseguono i movimenti diplomatici, ma continua la conta dei morti

Qualcosa si muove negli intrecci diplomatici in Medio Oriente. Ma la pace resta lontana. Se Israele vuole che la spirale di violenza finisca e che si apra una stagione di tranquillità e di sicurezza, deve cominciare a fare piani per il dopo guerra con i leader palestinesi moderati e accettare la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese.

Il segretario di Stato Usa Antony Blinken, all’ennesima missione in Medio Oriente, lo dice chiaro e tondo al premier israeliano Benjamin Netanyahu, in una conversazione definita “tempestosa”.

Blinken riferisce a Netanyahu di avere riscontrato “sostegno” al progetto di uno Stato palestinese nelle capitali visitate, gli chiede di autorizzare ispezioni dell’Onu nella Striscia e di consentire maggiori flussi di aiuti umanitari e, soprattutto, di fare di più per tutelare i civili.

Gli Usa sollecitano Israele a non boicottare l’idea di una forma di auto-governo palestinese, condizione perché gli altri Stati della Regione e pure l’Ue finanzino la ricostruzione.

Nei cento giorni di guerra tra Israele e Hamas, un abitante della Striscia di Gaza su cento è stato ucciso. L’offensiva di Israele è stata innescata dagli attacchi terroristici di Hamas e di altre sigle palestinesi che provocarono 1200 vittime israeliane il 7 ottobre, con la cattura di circa 250 ostaggi, una metà dei quali ancora trattenuti – 132 si calcola per l’esattezza, ma alcuni potrebbero essere deceduti nei bombardamenti e nei combattimenti -.

I morti a Gaza superano i 23 mila, secondo il Ministero della Sanità palestinese. I giornalisti uccisi sono circa 110. Centinaia gli operatori umanitari, dell’Onu e di altre sigle, fra le vittime. Su Israele sono incessanti le pressioni delle Nazioni Unite e degli organismi internazionali perché eviti stragi di civili e uccisioni per errore, come a più riprese avvenuto – fra le vittime, ostaggi e bambini -.

Ucraina: tutto fermo, il fronte e la diplomazia

Ai movimenti militari e diplomatici in Medio Oriente, si contrappone la stasi letale dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: presto due anni di guerra, centinaia di migliaia di caduti stimati nei due campi, una linea del fronte sostanzialmente statica da almeno 15 mesi e nessuna iniziativa diplomatica seria per innescare un percorso di pace. Ma missili e droni fanno vittime ogni notte.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi ministri continuano a sollecitare aiuti militari dagli Stati Uniti e dai Paesi Nato: in una riunione a Bruxelles, hanno insistentemente chiesto sistemi di difesa anti-aerea per contrastare gli attacchi russi, che presto potrebbero contrare su missili forniti dall’Iran e dalla Corea del Nord.

Ma gli aiuti più cospicui restano bloccati da diatribe interne agli Usa e all’Ue. A Washington, l’opposizione repubblicana subordina il sostegno all’Ucraina a misure anti-migranti dal Messico, sostenendo che la sicurezza dell’Unione si gioca più lungo il confine che in Europa. A Bruxelles, l’Ungheria congela un pacchetto di aiuti pluriennale da 50 miliardi di euro: una decisione potrà forse essere presa nella riunione straordinaria del Consiglio europeo del 1° febbraio.

Come il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha notato, parlando al Parlamento italiano, si colgono in Russia segnali di disponibilità al negoziato e in Ucraina fermenti di minore coesione. Ma, contro le speranze di pace, o almeno di tregua, giocano, nel Medio Oriente e sul fronte ucraino, i calcoli di quanti sperano di trarre vantaggio da un cambio della guardia alla Casa Bianca: il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti farebbe finire la guerra in Ucraina “da un giorno all’altro” – promessa del magnate -, accettando di fatto lo ‘statu quo’ e cioè l’annessione alla Russia dei territori ucraini occupati; e offrirebbe all’estremismo di destra israeliano una spalla più solida dell’Amministrazione Biden.

Israele – Hamas: una nuova fase, con indicazioni contraddittorie

Nel suo viaggio, che dura un’intera settimana, Blinken va prima in Grecia e in Turchia, dove parla dell’adesione della Svezia alla Nato, che Ankara tiene in sospeso, in attesa degli F-16 Usa, e poi nella penisola arabica, in Giordania e in Egitto, in Israele e nei Territori. Obiettivo: ridurre il rischio che il conflitto deflagri a livello regionale e discutere la nuova fase dell’offensiva israeliana e i piani – ancora nebulosi – per il dopo guerra.

Il presidente israeliano Isaac Herzog esclude che Israele voglia espellere i palestinesi dalla Striscia. Ma le dichiarazioni del presidente fanno seguito ai progetti espressi da alcuni ministri per svuotare parti della Striscia. Secondo l’Onu, il 90% degli oltre due milioni di palestinesi che abitano a Gaza hanno già dovuto abbandonare le loro abitazioni e vivono in condizioni di fortuna, con scarsi viveri e un’assistenza sanitaria precaria.

Negli ultimi giorni, ci sono stati movimenti contrastanti: da una parte, palestinesi che cercano di tornare alle loro case distrutte; dall’altra, manovre israeliane perché i palestinesi evacuino la Striscia e s’installino in Egitto o in Giordania o altrove – mosse che destano diffidenza nei Paesi arabi vicini a Israele, ma anche nella comunità internazionale -.

Israele sostiene di aver iniziato una nuova fase delle operazioni militari nella Striscia: meno intensa e più cauta, accogliendo, dopo oltre tre mesi, gli appelli di Stati Uniti e comunità internazionale. D’ora in poi, dovrebbero esserci meno truppe sul terreno e meno attacchi aerei indiscriminati, ma più operazioni mirate. Il che, però, comporta altri rischi, quando esse vengono condotte al di fuori della Striscia o dei Territori.

Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant non lascia, tuttavia, spazio, a equivoci: la guerra va avanti e Israele non si ritirerà da Gaza se non saranno liberati tutti gli ostaggi. La nuova fase s’articola in minori scontri nel Nord della Striscia, ormai praticamente svuotato della popolazione, ma nell’intensificazione della caccia ai leader di Hamas nel Centro e nel Sud, dove le azioni di terra e di cielo potrebbero addirittura intensificarsi: in una notte, a Khan Younis, sono stati colpiti oltre cento obiettivi.

Gallant ha anche le sue idee su come la Striscia possa essere governata a conflitto concluso: Israele dovrebbe mantenere il controllo della sicurezza, mentre un’entità palestinese indefinita, ma sotto tutela israeliana, gestisce la vita di tutti i giorni, con Stati Uniti ed Unione europea a farsi carico della ricostruzione. Difficile dire – osserva la Ap – in che misura i vaghi propositi del ministro soddisfino gli auspici statunitensi. E, del resto, vi sono tensioni e divergenze nel governo israeliano: Gallant – si dice – non è in sintonia con Netanyahu; e c’è chi preme per elezioni che potrebbero coincidere con il tramonto del premier.

Israele – Hamas: riflessi del conflitto negli Stati Uniti e rischi di allargamento

Negli Stati Uniti, l’atteggiamento dell’Amministrazione Biden di pieno sostegno a Israele, al di là delle pressioni umanitarie che vengono esercitate con esito incerto, s’è ormai rivelato un fattore di debolezza elettorale per il presidente democratico, che lunedì è stato accolto da cori pro-palestinesi a Charleston, nella South Carolina, dov’era andato per riconquistare il voto dei neri, che gli sta scivolando di mano. Contemporaneamente, centinaia di manifestanti pro-palestinesi erano arrestati a New York, per avere bloccato il traffico sui ponti della Grande Mela, chiedendo il cessate-il-fuoco a Gaza.

Fra gli obiettivi della missione di Blinken, il più realistico e il più impellente è evitare il rischio d’allargamento del conflitto, acuitosi negli ultimi giorni, dopo che Israele, che aveva già fatto fuori un dirigente di Hamas con un attacco a sud di Beriut, ha di nuovo colpito e ucciso in Libano: stavolta, l’obiettivo era un comandante di Hezbollah, il gruppo filo-iraniano che opera sul confine tra Libano e Israele, Wissam Hassan Al-Tawil, responsabile del lancio di razzi contro Israele.

Le forze israeliane hanno intercettato Al-Tawil a Khibet Sel, un villaggio libanese, a circa 15 km dal confine con Israele. L’episodio s’è verificato quando non s’era ancora placata la tensione per l’attentato in Iran che, il 3 gennaio, anniversario dell’uccisione a Baghdad del generale Suleimani, ha fatto un centinaio di vittime e scosso il regime di Teheran.

L’azione è stata rivendicata dall’Isis e non è quindi ascrivibile a Usa o Israele. Ma ogni sussulto nella Regione, dove si registrano scaramucce anche in Iraq e in Siria – le truppe Usa di stanza reagiscono a provocazioni -, oltre che nel Golfo Persico, dove i ribelli Huthi mettono a repentaglio la libertà di navigazione, fa crescere il timore di un conflitto su scala regionale. Va detto che finora Beirut e Teheran hanno mostrato una certa freddezza, lasciando protagoniste le milizie sul terreno.

Per Hamas, gli attacchi terroristici del 7 ottobre sono stati “un puro atto di resistenza palestinese”: nessun gruppo non palestinese vi ha preso parte. Ma quando Israele risponde avviando nella Striscia la più devastante campagna militare del XXI Secolo, il cosiddetto Asse della Resistenza, sostenuto dall’Iran che foraggia milizie nella Regione, dal Libano alla Siria all’Iraq, entra in fermento e partecipa, in qualche misura, al conflitto.

Di tutti i gruppi vicini all’Iran, e solidali con la causa palestinese, Hezbollah è quello più sollecitato. Se tollera gli attacchi di Israele, rischia di apparire un alleato debole e inaffidabile. Ma se dovesse lanciare in uno scontro aperto, Israele ha già minacciato di causare massicce distruzioni in Libano, Paese già alle prese con una grave crisi economica.

L’ultima cosa che gli Stati Uniti e la stragrande maggioranza dei cittadini americani vogliono, dopo decenni di costose e sanguinose e sostanzialmente inutili nei risultati campagne in Afghanistan e in Iraq, è un’altra guerra in Medio Oriente. Ma negli ultimi giorni le forze statunitensi hanno ucciso un comandante di una milizia sostenuta dall’Iran in Iraq e una decina di ribelli Huthi, creando anch’esse i presupposti per un’escalation di ritorsioni.


[1] Scritto per The Watcher Post, 23 dicembre 2023. Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2023/12/23/israele-hamas-onu-non-tregua/.

[2][2] Scritto The Watcher Post 3 gennaio 2024. Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2024/01/03/guerre-israele-ucraina/

[3] Scritto per The Watcher Post, 10 gennaio 2024. Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2024/01/11/israele-hamas-conta-morti/.