Arte

Democrazia Futura. Le età della pioggia. Dipinti di Alberto Zamboni

di Roberto Cresti, ricercatore e docente di storia delle arti del Novecento all’Università di Macerata |

L’artista in copertina e nelle pagine di questo dodicesimo fascicolo. Alberto Zamboni visto da Roberto Cresti.

Roberto Cresti

Roberto Cresti illustrata la sua scelta de “L’artista in copertina e nelle pagine del dodicesimo fascicolo” di Democrazia futura in fase di chiusura. Ne “Le età della pioggia. Dipinti di Alberto Zamboni” sottolinea l’eredità di Giorgio Morandi per tutta una generazione di artisti bolognesi nel caso di Zamboni anche – scrive Cresti – “la presenza di un Vermeer, di un Rembrandt, magari con la mediazione del formidabile Chardin e di Corot, ha continuato ad agire, anche partitamente, in modo autonomo, come modello col quale confrontarsi. Di incedibilmente suo, Alberto, vi ha messo un clima, in apertura, notturno, un chiaroscuro basato, in prevalenza, sulle tonalità del blu, come in una camera oscura ove le immagini però non vengono sviluppate per ridare l’effetto del sole o della luce bianca bensì permangono in sfumature quasi di una luce nera, che procede a rovescio verso lo spettatore, come in un film proiettato dalla parte opposta della tela. Il buio diviene perciò il reagente, il quale rende visibile un’oscurità di fondo ben più fitta, che si schiarisce in superficie e lascia intravedere le forme”.

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Il pleut doucement sur la ville
Arthur Rimbaud

La pittura di Alberto Zamboni è cominciata da una velatura notturna dei suoi oggetti, che appaiono, già nelle prove di trent’anni fa, avvolti da una oscurità da essi indistinguibile. A Bologna, dove Alberto si è formato frequentando la Accademia di Belle Arti e ha condotto il suo apprendistato (il padre, Nicola, è stato uno scultore molto conosciuto e attivo, non solo sotto le Due Torri), la lezione di Giorgio Morandi si è comunicata ai pittori delle generazioni successive in modo quasi segreto, ma efficacissimo, come un antidoto (per chi l’ha sentita come tale) a una concezione estetica nella quale lo spirito dei tempi obbliga l’artista ad un ossequio ideologico: che un tempo fu politico, poi sociologico (come nel caso della pop art), infine tecnologico (come avviene, ai nostri giorni, con l’avvento dell’epoca digitale). Morandi rappresenta, infatti, la capacità di macinare il proprio grano in assoluta solitudine, prendendo da qualunque fonte, ma facendo sempre centro in sé stessi.

Il tonalismo stesso morandiano è parte integrante di questa capacità macinativa, che il maestro di via della Fondazza 36 ha condiviso col suo remotissimo «doppio» americano, ovvero Edward Hopper. Un legame, quest’ultimo, che si avverte in pittori di generazioni bolognesi precedenti a quella di Alberto, come Leonardo Cremonini, Dino Boschi e Aurelio Bulzatti, i quali, ovviamente, l’hanno assunto e interpretato ciascuno a suo modo, ma con una costanza che appare davvero innegabile.

Quante potessero essere poi le tracce nelle tracce, quanto, per esempio, la pittura olandese del XVII secolo entrasse in questo contesto fin dalle origini, è quasi scontato ricordare, ma è anche evidente che la presenza di un Vermeer, di un Rembrandt, magari con la mediazione del formidabile Chardin e di Corot, ha continuato ad agire, anche partitamente, in modo autonomo, come modello col quale confrontarsi.

Di incedibilmente suo, Alberto, vi ha messo un clima, come già detto in apertura, notturno, un chiaroscuro basato, in prevalenza, sulle tonalità del blu, come in una camera oscura ove le immagini però non vengono sviluppate per ridare l’effetto del sole o della luce bianca bensì permangono in sfumature quasi di una luce nera, che procede a rovescio verso lo spettatore, come in un film proiettato dalla parte opposta della tela. Il buio diviene perciò il reagente, il quale rende visibile un’oscurità di fondo ben più fitta, che si schiarisce in superficie e lascia intravedere le forme.

Agli inizi si è trattato di suppellettili o di mobili, con tutta la suggestione immaginativa di un sonnambulismo o solo di quel torpore che ad occhi fessurati ciascuno di noi ha vissuto da bambino alzandosi dal letto e aggirandosi nella propria casa in piena notte, magari risvegliato da un tuono e dal bruire alterno della pioggia. In quei momenti gli ambienti, gli oggetti e le forme più consuete erano apparsi come nella stiva oscillante di un galeone che giace sul fondo sabbioso di un oceano. Sicché, a quel tempo, Alberto ha scelto inquadrature libere (dall’alto, dal basso, di profilo), come un nuotatore in apnea che fluttua liberamente in una liquida oscurità.

Ma da quelle prime esperienze, in cui la pittura a olio è supportata da piccolissimi telai dotati però di uno spessore che li rende essi stessi oggetti che sorreggono il dipinto, egli è poi passato ad altre immersioni orizzontali, nelle quali ha via via messo a fuoco un mondo più vasto ma sempre colto dalla sua mobilissima camera oscura (l’amore per il viaggio sia reale che mentale l’ha indotto a illustrare diari di bordo come quello di Antonio Pigafetta e a ispirarsi a pionieri della terra o dell’aria).

La fluidità notturna, quasi onirica, si è allora trasposta in un paesaggismo polimorfo, dagli stessi caratteri indefiniti, che ha accolto suggestioni anche di tempi diversi dal suo, con un candore di pronuncia pittorica che, per la consapevole ingenuità, ricorda il grande modello del Doganiere Rousseau, col suo mondo-carillon fatto di giostre, giungle e orti domestici, ove trovano spazio velieri, aerostati, giocatori di pallone, tigri, cani, ninfe, fanciulle, bimbi e persino lo zar di tutte le Russie.

Legato ai suoi luoghi natali, fra la pianura padana e l’alta valle del Reno, Alberto ne ha tratto, in parallelo, paesaggi resi opachi dalla nebbia, alle volte con punti di fuga nell’infinito quotidiano delle stradine appenniniche, già care a Morandi, che attraversano colline che egli stesso ha eletto a trascolorante dimora, e dove tuttora risiede.

In quel contesto ha meditato anche gli alberi, i loro fogliami notturni, rendendoli come capillari lunari, rifugio di invisibili uccelli, secondo un topos tutto romantico, che ricorda l’usignolo di John Keats (di cui do, a seguire, un passo nella mia traduzione):

Non vedo quali fiori stiano intorno a me,
né il tenue incenso effondersi sui rami
ma, nell’oscurità fragrante, indovino
le gioie di cui il mese propizio orna l’erba…

L’hanno attratto anche contesti urbani, soprattutto quelli delle periferie, e qui la marca hopperiana è riemersa, pur sempre diluita, come se ora la pioggia cadesse incessante, ma senza toccare terra, facendo bioccosa l’aria, dove avanzano sparsi pedoni senza volto. Vengono in mente certi repertori cinematografici, dalle distopie di Blade Runner di Ridley Scott al sottovoce lirico delle immagini che accompagnano le trame dei film di Aki Kaurismäki, e in pittura si riflettono nei dipinti di Peter Doig.

Né gli sono mancate, in tempo ormai lungo di attività, le occasioni di esporre in luoghi prestigiosi e di lavorare con gallerie come la celeberrima Il segno, di Roma, o la Carzaniga di Basilea, ma sempre tenendosi fedele al suo carattere e a quella bruma sottile che l’accompagna, dagli inizi, al chiuso e all’aperto, scendendo per il suo pennello. 

C’è una scuola bolognese in pittura, che poco corrisponde ai dettami del progresso virtuale (altro davvero non se ne vede), una scuola fatta di solitudini condivise e accoglienti (sono tante). Se andrete a trovare Alberto nel suo romitaggio, vi offrirà del vino e magari una sventagliata di note della sua adorata fisarmonica. Come sempre sono le braci i semi del fuoco, i rami dell’albero ignoto, il poco che contiene il grande.