Politica

Democrazia Futura. I delitti e le pene di un comunista liberale

di Salvatore Sechi, docente universitario di storia contemporanea |

Finalmente la biografia di Luigi Cavallo. La recensione di Salvatore Sechi.

Salvatore Sechi

Per la rubrica Fresco di Stampa di Democrazia futura Salvatore Sechi in un pezzo intitolato “I delitti e le pene di un comunista liberale. Finalmente la biografia di Luigi Cavallo” recensisce il volume Luigi Cavallo. Da Stella Rossa alla rivolta operaia di Berlino scritto dalla vedova Lorenza Pozzi Cavallo (Torino, Golem edizioni, 2023, 687 p.). “Il comunismo presentò il volto feroce di un dispotismo che già nel 1939 lo aveva portato a un accordo spartitorio col nazismo attraverso il patto Molotov-von Ribbentrop, l’intesa scellerata tra le due più potenti dittature del mondo. Dopo il 1945 – ricorda Sechi – Stalin avrà un atteggiamento quasi neocoloniale nel dare vita alle micidiali macchine totalitarie dei partiti-Stato in Europa orientale.
A un sincero militante come Luigi Cavallo, che aveva identificato il comunismo nell’ampliamento delle libertà e nel contenimento delle diseguaglianze, già nel 1949 non resterà che prendere atto come il contenitore (lo stalinismo) fosse l’opposto del contenuto. Di qui la rottura col Pci. Paglia e fieno di Mosca”.

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Col venir meno dell’influenza politica dei comunisti, anche la storiografia sul loro passato è venuta scemando. È calato il silenzio anche su figure autorevoli della guerra civile del 1943-’45 e della ribellione all’unico comunismo rinvenibile nel mercato politico, quello stalinizzato.

È il caso del comandante Luigi Cavallo. Col movimento Stella rossa (successivamente confluito nel PCI) fu l’iniziatore della resistenza partigiana contro il nazifascismo nelle valli del Piemonte.

Il silenzio su di lui è stato lungo, non facile, mai pacificato, anzi sempre irto di rancore e impressionanti falsità.

La ricostruzione minuziosa che ne oggi fa Lorenza Pozzi Cavallo, cioè la moglie, si segnala perché assolve ad un rigore documentario molecolare che può sembrare ossessivo. La grande ampiezza e la cura certosina delle note ne fanno un secondo volume.

Chi lo rileva, ha il dovere di chiedersi: si può contrastare il mausoleo a più piani di non verità costruito dal comunismo senza uno smantellamento, pezzo per pezzo, di ognuna di esse?

In secondo luogo, Lorenza Pozzi Cavallo si rende conto che finora in Italia non è stato colmato un grande vuoto, cioè la narrazione di quella che è stata la “sinistra antitotalitaria”[1]. Come amava dire Alfred Camus, “La vera passione del XX secolo è il servilismo”.

Nel volume il concetto adottato è più ricco di quello di dissidenza. Tale fu quella di Angelo Tasca e Ignazio Silone, per fare degli esempi sui quali la storiografia si è soffermata. Ma non si può banalizzare quanto rileva il vicepresidente dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Luciano Boccalatte. Nella breve, ma succosa prefazione, presenta Cavallo come Un testimone inascoltato.

Questa raccolta preziosa di documenti archivistici sulla guerra di liberazione in Piemonte e sul comunismo in Europa, Boccalatte l’ha voluta patrocinare. Diciamo pure che si è trattato di un inedito e raro (ormai nel mondo degli archivisti) impulso di andare contro-corrente, l’aperta volontà di sottrarsi alla morta gora prevalente, quella ormai virale dell’allineamento, della verità unica.

Tutto il volume, 687 pagine, vogliono ricordare come la storia non subisca se non occasionali e mai imperturbabili lavacri. Il riferimento è al fatto che la generazione di Luigi Cavallo nata e cresciuta durante il fascismo, faticosamente avvicinatasi all’anti-fascismo e agli ideali del comunismo, si è servita di Stalingrado.

La costosissima vittoria sovietica sull’aggressione delle armate nazi-fasciste, cioè del grandioso mito di Stalin perché,

“spazzava via … critiche, dubbi, reticenze. Stalingrado lavava tutti i crimini del passato quando non li giustificava. La crudeltà, i processi, le liquidazioni trovavano la loro finalità in Stalingrado”.

Sono parole esemplari, una confessione all’aperto di Edgar Morin di quasi sessata anni fa[2]. Ma quel che teneva in serbo il dopoguerra a questa generazione era un’atroce disillusione.

Il comunismo presentò il volto feroce di un dispotismo che già nel 1939 lo aveva portato a un accordo spartitorio col nazismo attraverso il patto Molotov-von Ribbentrop, l’intesa scellerata tra le due più potenti dittature del mondo. Dopo il 1945 Stalin avrà un atteggiamento quasi neocoloniale nel dare vita alle micidiali macchine totalitarie dei partiti-Stato in Europa orientale.

A un sincero militante come Luigi Cavallo, che aveva identificato il comunismo nell’ampliamento delle libertà e nel contenimento delle diseguaglianze, già nel 1949 non resterà che prendere atto come il contenitore (lo stalinismo) fosse l’opposto del contenuto. Di qui la rottura col Pci. Paglia e fieno di Mosca.

Il capitale di cui Luigi Cavallo disponeva e gli impedì di andare a fondo, fu di poter interloquire in inglese, francese, tedesco, russo e giapponese. Si era laureato a Berlino e poi presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino con un docente di rango come Alessandro Passerin d’Entrèves. Aveva stretto rapporti con Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat e la stessa casa editrice guidata da Giulio Einaudi. Nelle grandi convention internazionali a Parigi aveva tradotto gli interventi di personaggi come l’italiano Palmiro Togliatti e il russo Andrey Vyšinskij.

Rispetto alle regole formali della liberaldemocrazia, per Cavallo il comunismo non era l’allegoria, ma l’unico concreto modo in cui potevano esplicarsi i valori della libertà e dell’eguaglianza. Erano principi e convinzioni dai quali non volle mai deflettere. Di qui il suo avvicinarsi, e collaborare, con i socialisti autonomisti di Milano ed europei.

In quegli anni di contrapposizioni estreme tra Mosca e Washington si fece di tutto per fargli espiare una decisione audace e irremovibile. Lo testimoniano i molti articoli scritti per l’organo stesso del Pci, cioè di essersi schierato dalla parte di Tito contro Stalin, e di avere difeso le ragioni del dissenso dall’Unione sovietica di molti esponenti dei Paesi del patto di Varsavia. A Berlino con gli insorti a metà degli anni Cinquanta Cavallo si ritroverà fianco a fianco.

In uno dei pamphlet meno eccellenti dell’editore Einaudi, a firma del giornalista comunista Alberto Papuzzi, il fondatore di Stella Rossa venne liquidato come un provocatore[3]. La guerra fredda è stata segnata dell’effluvio di questo termine.

Sulla scorta di tale epiteto infamante contro Cavallo si montò una lunghissima, feroce e avvilente campagna di stampa.

Per un anti-comunismo genuino, orgoglioso delle proprie ragioni e prove, e non di mere escursioni agitatorie e pregiudizi, in Italia non c’era spazio. Nessuno, neanche dalle molte decine di membri del Comitato scientifico della Fondazione Antonio Gramsci, avrebbe mosso un dito per fare presente che anti-sovietismo e anti- comunismo erano stati ben delineati da lui stesso nella prima metà degli anni Trenta nei Quaderni del carcere. Col neo-bonapartismo, ripreso da Marx, volle riassumere il fiume travolgente delle finzioni, delle persecuzioni e dei fallimenti in cui era precipitata la leadership staliniana e l’oppressivo dispotismo del suo regime politico.

La diffusa corrività a questa atmosfera non più conquérant – come nel 1917-1924 – del filo-sovietismo, le continue irruzioni in casa e negli uffici per continue inchieste giudiziarie, finirono per costringere Luigi Cavallo, insieme alla sua compagna di fortissimo carattere e indomita tenacia, come Lorenza Pozzi Cavallo, a riparare prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Esuli per aver evocato la natura reale del comunismo. Non solo ostile alla democrazia liberale, ma ad ogni micro-sogno liberatorio dalle diseguaglianze.

Non mollarono neanche di fronte a questo ridicolo, ma penosissimo, episodio editoriale di caccia alle streghe. Avveniva nel cuore della guerra fredda e in una stretta fortissima di una delle non rare crisi finanziarie attraversate dalla casa editrice di Giulio Einaudi.

La casa editrice non si mostrò in grado di arginare la tradizionale empatia del “buon vicinato” col Pci. Era diventato un “animal spirit” sempre misurato, non ingombrante, ma certamente assai invasivo. Ne fu vittima consenziente un giornalismo di inappuntabile vocazione a mettersi al servizio, schierarsi (come ha ricordato Albert Camus), cioè incapace di sottrarsi, con le armi del controllo delle fonti (se non proprie della ricerca storica) alla propaganda intessuta di intimidazioni e minacce, in stile pervasivo, delle Botteghe Oscure.

A Torino c’era il giovane compagno Papuzzi, a Roma il ministro comunista (in pectore) dell’Interno, Ugo Pecchioli, si era circondato delle penne censorie, se non molto aguzze, di due fratelli. Su Enrico Berlinguer avrebbe vigilato come l’ombra di un Blanco de noantri, Antonio Tatò. Un insuperabile e ostinato fautore dell’idea che non la vituperatissima socialdemocrazia, ma un’immacolata e fantasiosa “terza via” potesse, e anzi dovesse, essere l’alternativa al fallimento plateale del comunismo.

Il volume ospita una selezione delle analisi che su di esso, nelle diverse fasi storiche del secondo dopoguerra, Luigi Cavallo seppe elaborare. Facendone attraverso opuscoli, micro-biografie e riviste dal tono impietoso, uno strumento di conoscenza e di denuncia di illusioni e infamie dello stalinismo e del suo “avvocato italiano” (cioè Palmiro Togliatti).

Il che spiega perché contro di lui si sia arrivati a scatenare una faziosità indiscriminata e di bassa lega. Fu quella di accusarlo di aver ordito un colpo di Stato (‘golpe bianco’) di concerto con l’ex segretario del partito repubblicano Randolfo Pacciardi, e l’ex ambasciatore a Saigon Edgardo Sogno. Volevano solo (Pacciardi fin dal 1964, a dire il vero) una repubblica presidenziale!

Alla fine un giudice romano come Francesco Amato in istruttoria fece un falò del mandato di arresto e dell’ordine di detenzione emessi da Luciano Violante contro i tre imputati. Li assolse perché “il fatto non sussiste”.

Edgar Morin già nel 1959 aveva anticipato il ruolo politico avuto dal mutismo e dell’ingiuria come armi essenziali con cui i comunisti nel secondo dopoguerra avevano fatto strame di ogni opera intellettuale indipendente. Tale valore assume oggi, in un Paese come il nostro dominato da una destra becera e sensibile ad ogni folata di vento, l’investimento fiduciario che il dott. Boccalatte ha fatto nel valore degli archivi. Dalla residenza di Béziers, in Francia, in cui erano depositati, sono in trasferimento a Torino.

Il magistrato romano dott. Amato seppe formulare un giudizio netto sull’estraneità di Luigi Cavallo ad operazioni golpiste. Due suoi distinti e impareggiabili colleghi come Raffaele Guariniello e Luciano Violante, invece, non se la sentirono di essere altrettanto sicuri e solleciti. Ma la diversità di opinioni è la forza delle democrazie liberali.


[1] Lorenza Pozzi Cavallo, Luigi Cavallo. Da Stella Rossa alla rivolta operaia di Berlino, Torino, Golem edizioni, 2023, 687 p.

[2] Edgar Morin, Autocritique, Paris, Julliard, 1959, 285 p. Traduzione italiana: Autocritica. Una domanda sul comunismo, Bologna, Il Mulino, 1962, 280 p.  

[3] Alberto Papuzzi, Il provocatore. Il caso Cavallo e la Fiat, Torino, Einaudi, 1976,174 p.