patriarcato e femminismi

Democrazia Futura. Donne e uomini nell’età barbarica, la pagliuzza e la trave

di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in Storia moderna e contemporanea, e Licia Conte, giornalista e autrice radiofonica |

Botta e risposta su Democrazia Futura tra Giulio Ferlazzo Ciano e Licia Conte sul patriarcato e i femminismi.

Le parole d’ordine dell’ultima ideologia sopravvissuta al Novecento sarebbero la foglia di fico che nasconde un degrado generalizzato della nostra società. Questa la tesi sviluppata dal nostro stretto collaboratore, il giovane storico dell’età moderna e contemporanea Giulio Ferlazzo Ciano in questo parere in dissenso contro la vulgata generale espressasi in questi mesi dopo i raccapriccianti episodi fra femminicidi, stupri e altre forme di violenza perpetrati contro le donne, per fortuna non più relegati alle pagine di cronaca. Gli risponde garbatamente Licia Conte, giornalista sessantottina autrice del primo programma radiofonico femminista della Rai negli anni Settanta, distinguendo nella fattispecie “Femminismo emancipazionista e femminismo della differenza”. Pareri espressi da due generi diversi, ma anche da due diverse generazioni che spesso non si capiscono e che necessitano di confrontarsi sui grandi temi sociali e culturali della società italiana.

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Giulio Ferlazzo Ciano

La pagliuzza si presenta con le sue parole d’ordine: il “patriarcato” non solo esiste ancora, ma è vivo e vegeto come mai prima d’ora e si esercita a sottomettere le donne attraverso, ad esempio, subdole pratiche di mortificazione intellettuale, come il mansplaining (nella vulgata pseudoscientifica d’accatto e inglesizzante ormai in uso), pubbliche e plateali umiliazioni come il catcalling (sempre nella solita vulgata di cui sopra), in un crescendo con esiti potenzialmente drammatici che, passando per le più viete forme di molestia, per la persecuzione sistematica e ossessiva di coloro che osano ritagliarsi spazi di autonomia o ribellarsi al controllo maschile, definita anch’essa con etichetta anglofona (stalking), per gli schiaffi e le percosse, per la violenza sessuale, singola o di gruppo, culminano sempre più spesso nel tragico atto conclusivo del circolo vizioso, il cosiddetto “femminicidio”, che, senza nulla togliere all’aberrazione umana che il neologismo intende denunciare, è però anche un obbrobrio lessicale, questa volta sfortunatamente nella lingua di Dante.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato che

«quando ci troviamo di fronte a una donna uccisa, alla vita spezzata di una giovane, a una persona umiliata verbalmente o nei gesti della vita di ogni giorno, in famiglia, nei luoghi di lavoro, a scuola, avvertiamo che dietro queste violenze c’è il fallimento di una società che non riesce a promuovere reali rapporti paritari tra donne e uomini».

È curioso che la più alta carica dello Stato non scorga altri evidenti segni di fallimento della nostra società, ma evidentemente è più ottimista di chi scrive. D’altro canto il presidente Mattarella sembra essere più pessimista di chi scrive quando, con le sue parole, parlando addirittura di fallimento della nostra società nel promuovere rapporti paritari tra donne e uomini, dà l’impressione di credere che l’Italia sia un Paese dove alle donne non sia permesso di vivere una vita normale, libera da condizionamenti, soprusi e violenze maschili. Insomma, non molto meglio dell’Arabia Saudita. Così in effetti si esprime anche il movimento femminista: i maschi, privilegiati in un contesto sociale e culturale segnato dal “patriarcato”, sono tutti colpevoli, sia di fatto che potenzialmente, e soltanto coloro che ammettono le loro responsabilità e agiscono nella battaglia culturale in atto a fianco delle donne possono sperare nel perdono.

Sembrerebbe davvero un’Arabia Saudita mediterranea alle prese con un immaginario processo rivoluzionario di parificazione ed equilibrio di genere, alla maniera sudafricana, sull’esempio della Truth and Reconciliation Commission presieduta da Desmond Tutu: si raccontino i propri misfatti o si ammettano le proprie colpe, si faccia atto di contrizione e si verrà perdonati. Mattarella con le sue parole si è già portato avanti, così come molti di coloro che occupano posizioni di rilievo nel mondo della stampa e dell’informazione radiotelevisiva, i più esposti.

Ma sarebbe facile cavarsela così, fin troppo facile.

Un’assunzione di responsabilità collettiva, un atto di contrizione, qualche slogan femminista bofonchiato e via, tutto finito, tutto perdonato. Ma è proprio questa facile via d’uscita che il movimento femminista del XXI secolo, alla prova dei fatti più vendicativo che rivendicativo, più inetto che efficace, sta offrendo alla società con le sue parole d’ordine vuote di significato che richiamano alla mente certi slogan politici ripetutamente urlati, fino allo sfinimento, dal ’68 in avanti, nella continua lotta dei puri e progressisti contro il “capitalismo”, l’“imperialismo”, il “neocolonialismo”, il “fascismo”.

A tutto questo ora si è aggiunto il “patriarcato”, invero un “ismo” mancato. Ed è un peccato, perché la lotta contro i residui e le incrostazioni del maschilismo avrebbe avuto più senso. Ma evidentemente “maschilismo” richiama specularmente, su un mero piano lessicale, “femminismo” e non sarebbe dunque il caso di evocare una lotta dei sessi per la supremazia.

Meglio invece un tranquillizzante lessico da focolare domestico, addirittura più ottocentesco che novecentesco, che evochi capifamiglia dalla lunga barba assisi al desco, intenti a dispensare consigli non richiesti, richiamare all’ordine gli indisciplinati, inanellare accordi matrimoniali e, naturalmente, a raccomandare castigatezza e morigeratezza alle donne di casa, sotto minaccia di punizioni esemplari. Tutto molto aggiornato ai tempi attuali.

Bene, chi scrive non ci sta affatto a partecipare a questo gioco al massacro: responsabilità collettiva maschile, universo maschile eticamente guasto, una società dove i maschi sono dominanti in qualsiasi coppia, famiglia o luogo di lavoro, tutti potenzialmente pronti a uccidere pur di esercitare il loro potere sulla vita delle donne.

Per questa strada si finirà per farsi del male da entrambe le parti.

Le recriminazioni e le accuse generalizzate producono rancore e inoculano veleno nella società, rischiando in futuro di far mancare quella solidarietà e quel rispetto che dovrebbero sempre improntare i rapporti interpersonali fra esseri umani di qualunque genere. E per di più tutto questo avverrebbe in una stagione storica e in una parte di mondo che, pur con tutti i limiti del caso, hanno visto compiere in pochi decenni passi da gigante sulla strada dell’emancipazione femminile (sul piano sociale, economico e culturale) impossibili da negare.

Vogliamo davvero parlare di patriarcato nel 2023, in Italia, così come in tutto l’Occidente, avendo l’impudenza di sostenere che negli ultimi cinquant’anni, se non anche nell’ultimo secolo, poco o nulla nella sostanza sarebbe cambiato sul fronte dell’emancipazione femminile e della promozione di quei rapporti paritari tra donne e uomini evocati dal presidente Mattarella? Sostenerlo sarebbe ridicolo. Si può ancora migliorare ed è senz’altro auspicabile, ma che gli uomini siano generalmente dipinti come se fossero ancora al livello di cavernicoli, civilizzati solo esteriormente, sarebbe insultante.

Bene, pare già di sentire le obiezioni: naturalmente chi scrive è un classico esponente di quel patriarcato che si deve cancellare dalla faccia della terra ed è pertanto normale che stia provando a ribellarsi, percependo che i privilegi e i metodi repressivi di cui si è sempre servito stanno venendo a mancare. E così sia, se vi piace. In realtà le cose non stanno affatto in questo modo, ma di fronte al furore ideologico di un certo femminismo vendicativo del primo quarto di secolo XXI non c’è nulla da fare e nulla da obiettare. O lo si accetta per come è, subordinandosi ad esso, alle sue logiche e ai suoi slogan ideologici, o si viene bollati come nemici da combattere o da isolare socialmente. Come sempre avvenuto nelle stagioni di furore ideologico accecante, quando l’umanità intera è divisa fra amici e nemici, oltre che potenziali e sospetti nemici.

Peccato che, della complessità intellettuale di certe ideologie del passato, il femminismo detto della “quarta ondata” non abbia quasi nulla. Per essere probabilmente l’ultima ideologia sopravvissuta al Novecento, poteva venirne fuori qualcosa di meglio.

In conclusione si propone una domanda retorica che contiene un’ipotesi alternativa per la ricerca di una spiegazione all’ignominia degli omicidi compiuti come forma estrema di violenza di genere, deviando dalla facile soluzione del persistere della società patriarcale. Ecco la domanda: forse che stiamo osservando la pagliuzza negli occhi dei maschi e non già la trave che pesa sul capo dell’intera società?

Possibile che non si scorga, in questa nostra ricca e opulenta società occidentale composta di uomini e donne mediamente agiati, una deriva generalizzata del vivere civile che potremmo un po’ enfaticamente definire come una incipiente nuova stagione barbarica? Laddove, tuttavia, l’imbarbarimento non sarebbe il prodotto di migrazioni di massa di popoli mediamente più rozzi e incivili (almeno non ancora), ma scaturirebbe da noi stessi, liberi e mediamente agiati cittadini dell’Occidente, sottoposti a decenni di desertificazione morale indotta, tra le altre cose, dall’adozione di modelli di sviluppo economico e sociale estremamente egoisti, sia nei confronti degli altri esseri umani, sia nei confronti delle generazioni future, nonché verso il pianeta, le sue risorse e le forme di vita che lo abitano. Turbocapitalismo e società consumistica, non accompagnati da interventi educativi sul fronte etico e culturale, potrebbero essere all’origine di questa forma di regressione del vivere civile che da decenni si impone agli occhi di tutti.

Alcuni esempi in ordine sparso: pestaggi e aggressioni nei confronti di medici e insegnanti fin dentro gli ospedali e nelle scuole, da parte di adulti così come di giovani e giovanissimi; dilagare di bullismo e atti di sopraffazione tra gli studenti delle scuole di qualunque ordine e grado; aggressioni filmate con i telefoni cellulari senza alcun tentativo di intervenire in difesa delle vittime; violenza verbale sempre più diffusa, spesso accompagnata da gravi minacce e intimidazioni, in spazi fisici così come, sempre più spesso, negli spazi virtuali; il fenomeno delle “movide” urbane molto rumorose e senza regole, a qualunque ora delle notte, aggravate da atti di vero e proprio vandalismo; abuso e diffusione di droghe pesanti in sempre più ampi strati della società; marcata riduzione e semplificazione del vocabolario, connesse a una regressione della capacità di comprensione dei testi scritti, di pari passo con una montante diffusione interclassista del turpiloquio; produzione e ampia diffusione di filmati, musiche (spesso molto popolari, specialmente tra i giovani) e videogiochi nei quali si propongono modelli e stili di vita improntati a logiche di dominio e sopraffazione tra esseri umani, banalizzando la violenza, disumanizzando le vittime, spingendosi talvolta a esaltare modelli di vita criminale; esaltazione del vandalismo, ai danni di opere d’arte e monumenti, come forma di lotta politica; polarizzazione politica estrema e radicalizzazione del linguaggio politico, aggravate da diffusione incontrollata di propaganda e false informazioni sulle reti social, con esiti molto pericolosi per la futura tenuta delle istituzioni liberaldemocratiche…e si potrebbe continuare.

Insomma, ce n’è abbastanza per interrogarsi se il fenomeno dei cosiddetti femminicidi non sia tanto il prodotto del perdurante maschilismo (chiamiamolo pure “patriarcato” per farsi capire), semmai uno dei tanti perniciosi effetti di questa deriva della civiltà occidentale, sempre più priva di bussole morali, di visione storica e di guide politiche all’altezza dei cambiamenti imposti dal rimescolamento degli equilibri economici e geopolitici mondiali, dalla grande trasformazione tecnologico-digitale e dalle crisi climatiche.

Per quanto riguarda nello specifico il nostro Paese, che dell’Occidente fa parte, andrebbe segnalato non tanto il perdurante maschilismo (evitiamo peraltro di raffigurare le nazioni euro-mediterranee come le patrie per eccellenza del machismo e del patriarcato o rischieremmo di essere vittime consenzienti di stereotipi nordeuropei che distorcono non poco il senso della realtà e della storia sociale e culturale di questa parte di mondo), quanto il sussistente abisso, apertosi a partire dal boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta e mai colmato, tra aumento e redistribuzione della ricchezza e del benessere, in grado di produrre enormi cambiamenti e trasformazioni sociali, e la perdurante arretratezza culturale (in senso antropologico) della popolazione italiana, mai efficacemente educata a far tesoro di questo recente benessere raggiunto per armonizzare le trasformazioni in atto nella società, comprese quelle molto importanti che hanno coinvolto l’universo femminile.

Col passare del tempo, al contrario, sono venuti a mancare quei valori e quei codici comportamentali diffusi in ogni classe sociale che per secoli avevano improntato la vita degli italiani, tuttavia senza essere sostituiti da altrettanto solidi valori o codici comportamentali. Laddove c’era la Chiesa, con le sue severe imposizioni e regole morali, ora c’è molto spesso solo una devozione di facciata, più per abitudine che per reale sentire.

Laddove c’era la tanto vituperata borghesia, pur con le sue meschinità e ristrettezze di vedute, che però sapeva anche essere variamente colta e illuminata, ora domina una vasta platea di figure di arricchiti e incolti cafoni. Privi dunque di un qualunque sostegno valoriale, privati anche di quei soggetti di intermediazione rappresentati dai partiti politici, sostituiti ultimamente dai social network, attaccati al denaro («fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste», lo scriveva Giorgio Bocca nel 1962, ma vale senz’altro anche oggi), immersi in un clima di edonismo commerciale che esalta la bellezza e la giovinezza, ciascuno ripiegato sul proprio ego ipertrofico, quasi sempre ferito, e sul proprio smartphone, si poteva credere davvero che tutto questo potesse produrre a lungo andare dei risultati positivi sul piano dei rapporti paritari tra donne e uomini? D’altra parte anche su un piano più ampio dei rapporti tra esseri umani, di qualunque genere, non sembra andare molto meglio.

Ecco la trave, basterebbe soltanto accorgersene.

Con questo si vorrebbe forse sostenere che la soluzione sia più facile e a portata di mano? Purtroppo no, semmai il contrario. Sarebbe tutto più facile se il problema fosse l’ostinata sopravvivenza del patriarcato. Si potrebbe agire con un maggiore coinvolgimento dei giovani maschi nelle scuole e con una maggiore informazione e sensibilizzazione su tv, radio e social network, nonché naturalmente con la summenzionata lavata di capo collettiva al genere maschile che produca pentimento e ravvedimento. Nel giro di poco tempo, c’è da crederlo, il fenomeno sarebbe eradicato.

Purtroppo possiamo ritenere con una certa ragionevolezza che non sarebbe così, perché le cause sociali e culturali che producono la violenza di genere rimarrebbero intatte e le soluzioni proposte sarebbero soltanto un palliativo per rassicurare l’opinione pubblica e, se possibile, acuire ancor più l’ostilità tra uomini e donne. La cura andrebbe fatta semmai, in modo più ampio e incisivo, sull’intera società italiana, dovendo tuttavia recuperare in pochi anni il tempo perduto in poco più di mezzo secolo. Fermo restando che se qualcuno crede davvero che il fenomeno dei “femminicidi” possa prima o poi scomparire completamente, allora potrebbe anche illudersi che qualsiasi forma di crimine particolarmente ignobile e turpe potrebbe essere sradicato dalla faccia della terra. E sarebbe un’illusione.

Infine, un inciso. Sarebbe il caso che si osservassero con attenzione i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istat)[1] per avere la reale dimensione del fenomeno. Si potrebbero fare interessanti e inaspettate scoperte e riflettere sul ruolo dei media nel gonfiare l’ampiezza di certi fenomeni.

Risposta amichevole a Giulio Ferlazzo Ciano

Femminismo emancipazionista e femminismo della differenza

Licia Conte

Giulio Ferlazzo Ciano nel suo articolo parla di
“deriva generalizzata del vivere civile’ nella ‘nostra ricca e opulenta civiltà occidentale’, nella quale intravede una ‘incipiente nuova stagione barbarica”.

Enumera alcuni esempi di “questa forma di regressione” delle nostre società: pestaggi e aggressioni di medici e insegnanti, aggressioni filmate, bullismo, movide sempre più rumorose, abuso e diffusione di droghe pesanti. Denuncia anche la

‘riduzione e semplificazione del vocabolario connesse a una regressione della capacità di comprensione dei testi scritti’.

E via di questo passo.

Come dargli torto? Credo che come lui ognuno di noi assista con sgomento al racconto di questi episodi quando non ne sia addirittura vittima. Non si può non tremare se un nostro congiunto (o magari noi stessi) eserciti una di quelle professioni prese di mira dalla violenza cieca.

È tutto ciò allarmante? E come leggere questi fatti? Come siamo arrivati a tutto ciò? Di quale cultura sono espressione gli atti enumerati?

Lei, caro Giulio, riesce a darsi conto del perché tutto ciò accade? Il nostro mestiere è denunciare? Sì, certo, ma abbiamo soprattutto il dovere di capire e io, da sola, non ho certo competenze e strumenti per venirne a capo.

Per curare una malattia, occorre capirla e capirne l’origine. Ciò che vale per il corpo umano, vale anche per la società. Qual è il virus (in senso ovviamente metaforico) che ha colpito la parte più ricca e colta del pianeta, o almeno quella che si ritiene essere la parte più ricca e colta del pianeta? Se lei, caro Giulio, ne avesse le possibilità, che farebbe per guarire la parte malata delle nostre società?

Se ne avessi il potere, convocherei in una specie di conclave le menti più acute del Paese e sottoporrei loro la questione: qual è il male iniziale? come fermare la diffusione di questi comportamenti? È sicuramente un male endogeno, ma da dove e da che ha avuto inizio?

Mi fermo qui. E chiedo a collaboratori e lettori di questa nostra rivista di dire la loro, di provare a darci qualche lume.

Caro Giulio, devo ammettere invece che non la capisco più quando annovera il femminismo (“della quarta ondata”) fra i fenomeni e i comportamenti succitati.

Se lei vuol dire che anche le donne talvolta, o sovente, partecipano da protagoniste a queste azioni più o meno scellerate, le rispondo che ha con ogni probabilità ragione. Ma le donne sono metà dell’umanità: ci sono donne buone e remissive, ci sono donne ribelli e asociali, ci sono anche donne violente.

Poi c’è il femminismo, anzi ci sono i femminismi.

Il femminismo emancipazionista punta al raggiungimento di obiettivi individuali come lavoro, carriera e pari riconoscimenti.

Il femminismo della ‘differenza’ vede nel puro emancipazionismo un rischio: l’omologazione al modello maschile. Ha un progetto più ambizioso: vuole portare nel mondo la propria ‘differenza’, vuole che le donne restino sé stesse pur reclamando parità di diritti.

E non solo dice che non c’è più un soggetto unico, ma proclama che i soggetti sono due. Queste donne infatti dicono: vogliamo essere pari e differenti.

Ove mai si affermasse questa visione filosofica, noi assisteremmo non solo al realizzarsi degli obiettivi di quella che Eric Hobsbawm definì ne Il Secolo breve la rivoluzione femminista “l’unica rivoluzione riuscita del Novecento”, ma assisteremmo a qualcosa di più profondo: il soggetto, dicevamo, non sarebbe più uno, diventerebbe due, potendo così rappresentare i due sessi, appunto pari e differenti. Una rivoluzione non soltanto sociale e antropologica, ma simbolica.

Entrambi questi due tipi di femminismo mettono in crisi il patriarcato, sistema sociale in cui gli uomini detengono in via primaria il potere.

Esiste ancora il patriarcato?

Dobbiamo ricordare che in Italia è sopravvissuto sul piano legislativo fino alla cancellazione del delitto d’onore e fine alla fine dello ‘ius corrigendi’. Sul piano culturale e antropologico sussiste ancora, perché i cambiamenti culturali sono lenti, quelli antropologici sono epocali.

Questo può forse spiegare la recrudescenza di fenomeni forse antichi ma certamente ora caratterizzanti nella nostra società: i femminicidi, ossia l’uccisione di donne per mano di chi diceva di amarle.  Se in me sopravvive, a livelli profondi e a mia insaputa, la legge del patriarca, se tu a me ti sottrai, io ti uccido.

Caro Giulio, ognuno può legittimamente avere opinioni diverse da quelle qui esposte, ma certo nessuno può affermare che il femminismo predichi comportamenti violenti o lesivi della dignità altrui.


[1] Si parta ad esempio dalla seguente pagina internet, dalla quale è possibile scaricare ulteriori tabelle e grafici, per esempio l’interessante tavola delle Vittime di omicidio secondo la relazione con l’omicida – Anni 2002-2022 (dalla banca dati sugli omicidi volontari del Ministero dell’Interno, Direzione centrale della polizia criminale): https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne