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Democrazia Futura. Dalla nascita del telefono a quella della radiofonia in Italia

Gabriele Balbi

Per iniziare l’approfondimento ‘Un secolo fa: uno sguardo sulla nascita della radiofonia in Italia: dall’Uri all’Eiar sino alla Rai’, Democrazia futura ha intervistato nel dicembre 2022 il professor Gabriele Balbi autore di importanti studi sulla nascita della telefonia, della telegrafia senza fili e della radiofonia in Italia. Di questa intervista pubblichiamo i punti salienti rivisti dall’autore.

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Il testo qui di seguito trascrive i punti salienti rivisti dall’autore di un’intervista realizzata con il professor Balbi nel dicembre 2022.

Il telefono arriva in Italia negli anni Ottanta dell’Ottocento[1]. La sua gestione è vaga e contrastata. Nel 1899, per esempio, ci sono tre decreti regi sui telefoni e telegrafi che contrastavano tra loro in merito a gestione pubblica o privata del sistema. O, sempre nei primi anni, perdurò l’idea della protezione del telegrafo: una società telefonica che avesse impiantato una rete fra due località, in caso di parallela riduzione di introiti telegrafici tra quei due luoghi, avrebbe dovuto risarcirli. Tale folle sistema naturalmente scoraggiava qualsiasi iniziativa del settore privato, tanto più che sembrava quasi che telefono e telegrafo fossero concepiti come uno stesso sistema di comunicazione, con stessi usi e che l’uno fosse destinato a sopprimere l’altro. Le concessioni inoltre duravano pochissimo, non più di 5 anni, in seguito alla quale sarebbero tornate allo Stato.

Esistevano poi in alcune città (come Milano) tre società telefoniche con tre reti diverse totalmente distinte l’una dall’altra e gli abbonati di una rete non potevano telefonare a quelli dell’altra.

Le forze in campo e i gruppi di interesse non mancavano: aziende per lo più straniere, gli americani con la “Bell” (antesignana della “AT&T”), e una serie di attori belgi, francesi e persino greci. Queste società spesso non trattavano solo i servizi telefonici, ma li abbinavano ad altri servizi di rete, come i servizi tramviari, il business degli orologi pubblici nelle città, le reti elettriche e altri ancora. In ogni caso si trattava di interessi su reti urbane ed estremamente localizzate, cosa che rimarrà fino al periodo fascista.

A un certo punto una grande azienda finisce per assumere un ruolo quasi monopolistico, sul modello di “AT&T”, ovvero la “Società Generale dei Telefoni” con capitale misto franco-belga e greco (da parte di singoli investitori) a cui si aggregarono le grandi banche italiane (Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana). Tale situazione si mantiene fino al 1907, anno in cui si decide per la nazionalizzazione. Non senza dibattiti e tentativi di resistenza delle imprese private telefoniche, che ambiscono a trarre profitti dall’eventuale nazionalizzazione facendosi corrispondere congrui risarcimenti.

Nel 1907 viene quindi nazionalizzato il servizio telefonico, ma questa idea si rivela fallimentare già nel giro di pochi anni, alle soglie del primo conflitto mondiale: per esempio, lo Stato non riesce a far fronte alle richieste di allacci, i finanziamenti sono modesti e gli utenti devono attendere fino a due o tre anni per ottenere la concessione.

Frattanto anche i sistemi tariffari mutano, passando da tariffe fisse per ciascun fruitore del servizio (il cosiddetto forfait che assomiglia alle odierne tariffe flat, in cui tutto è incluso) fino all’approdo delle tariffe a consumo.

Dopo la prima guerra mondiale, a causa della scarsa o nulla manutenzione negli anni del conflitto, la rete grava in cattive condizioni, tanto da spingere il governo fascista a premere per una nuova privatizzazione del servizio che avverrà nel 1925.

Il Fascismo privatizza: radiotelegrafia (1923), broadcasting (1924) e telefonia (1925)

In tre anni si decidono tre importanti partite relative al destino di altrettanti servizi di comunicazione. Nel 1923, il Fascismo assegna le concessioni italiane della telegrafia senza fili o radiotelegrafia a un consorzio straniero franco-tedesco; si trattava del medium che interessava di più a Guglielmo Marconi anche su scala mondiale, ma da cui il futuro senatore uscì sconfitto.

Nel 1924 avviene la scelta sul broadcasting, anch’essa molto sentita da Marconi, presente con la “Radiofono” (società compartecipata da capitali anglo-americani, soprattutto la Western Electric), la SIRAC (anch’essa partecipata dagli statunitensi con la RCA), infine la piccola “Radio Araldo”, vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro tanto che viene fatta rapidamente fuori.

L’ultima partita infine è quella del 1925, quella proprio della telefonia. Si era negli anni in cui le direttive economiche del governo fascista si ispiravano ancora alle logiche della scuola liberale e liberista classica, tanto che si decise di privatizzare il servizio, dividendo le reti in cinque grandi aree date in concessione. Addirittura, per il Mezzogiorno e la Sicilia la società concessionaria fu la svedese “Ericsson”, tutt’altro quindi che italianissima.

Dal telefono alla radio: la storia dell’Araldo telefonico

Il telefono non fu solamente un mezzo di comunicazione punto-a-punto, tra due abbonati. Nei primi anni della sua storia le reti telefoniche furono anche utilizzate per inviare agli abbonati, via filo, informazione e intrattenimento. Un sistema definito come “telefonia circolare” con strutture telefoniche[2].

I primi esperimenti avvengono in Francia negli anni Ottanta dell’Ottocento, ma il servizio più noto è quello di Budapest negli anni Novanta, anche se stiamo sempre parlando di un servizio di nicchia.

Nel 1910 viene lanciato anche in Italia con l’”Araldo telefonico”, introdotto dall’ingegnere romano Luigi Ranieri su modello ungherese e riadattato su misura per abbonati romani.

I numeri sono modesti, con “ordini delle comunicazioni” (antenati dei palinsesti) che gli utenti ricevevano per posta: si trattava di una serie di contenuti telefonici quali segnale orario, notiziari, spettacoli teatrali, pubblicità, corsi di lingue, eccetera.

L’attività non sarà esente da vicissitudini giudiziarie dovute alla decisione dell’ingegnere Ranieri di non corrispondere al Ministero delle Poste e Telegrafi il corrispettivo dell’attivazione una “normale” rete telefonica.

La vertenza approderà in tribunale nel 1917, ma il giudice deciderà di non procedere contro Ranieri stabilendo che l’oggetto del contendere non fosse servizio telefonico, in termini stretti, ma qualcosa d’altro che lo stesso magistrato non seppe bene definire e che chiamò “giornale parlato”.

Il servizio riapre dopo la guerra, diffondendosi a Milano e a Bologna e poi passando dalla telefonia alla radiofonia: i Ranieri cominciarono infatti a trasmettere i propri programmi sulle onde, divenendo a tutti gli effetti una delle prime radio in Italia.

Verso la formazione dell’Unione Radiofonica Italiana (URI) nel 1924

Nel 1923 è chiaro che lo Stato avrebbe inquadrato la radio nella cornice di una concessione e pertanto Ranieri inizia a rastrellare capitali con l’intenzione di essere della partita con la sua “Radio Araldo”. E “Radio Araldo” effettivamente riuscirà a comparire durante tutta la trattativa fino all’ultimo, quando tuttavia, nell’impossibilità di attuare l’ultimo e decisivo aumento di capitale, si vedrà scavalcata da “Radiofono” e “Sirac”, che daranno vita all’’Unione Radiofonica Italiana (URI). Ranieri sfortunatamente si era legato all’onorevole Aldo Finzi, caduto in disgrazia proprio in quei giorni a causa del suo coinvolgimento nel delitto Matteotti, e al ministro delle Poste Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, al quale subentrerà però proprio nel momento decisivo Costanzo Ciano, vicinissimo a Guglielmo Marconi e ai suoi interessi finanziari.

Ciano decide di adottare per l’Italia il modello BBC, lasciando spazio ai costruttori di apparati radiofonici e i costruttori di reti. Un modello che vedeva concorrere in entrambe le società (BBC e URI) addirittura gli stessi investitori anglo-americani, tra i quali la Marconi Company, la Western Electric e la RCA.

Mancavano tuttavia ancora i contenuti, o meglio qualcuno che sapesse crearli e gestirli: in questo ambito, solo “Radio Araldo” aveva acquisito un’esperienza e rimase a lungo detentrice dei diritti di riproduzione dei concerti di alcune orchestre romane che non furono ceduti all’URI all’indomani della sua costituzione. “Radio Araldo” non smetterà oltretutto di trasmettere, lo stesso direttore d’orchestra Arturo Toscanini preferirà per lungo tempo trasmettere i suoi concerti via filo (dunque con la società di Ranieri) e non via etere con l’URI, ritenendo migliore la qualità delle trasmissioni via filo. Per tali servizi vengono inventati gli apparecchi stereofonici, di fatto delle cuffie da applicare su entrambi le orecchie per ascoltare in stereofonia con una qualità del suono migliore.

Tornando ancora alla questione del parallelismo fra URI e BBC si deve ricordare che l’URI volle tuttavia finanziarsi, a differenza della BBC che si serviva solo del canone, anche con la pubblicità, introducendo pertanto un sistema misto tipico del modello italiano negli anni a seguire e che si inseriva in un dibattito in quegli stessi anni relativo alle modalità per far profitti con la radiodiffusione. Considerando che nella proprietà delle due emittenti rientravano compagnie di produzione di apparecchi, uno dei modi per fare profitti era conseguentemente anche quello di vendere apparecchi, oltre a far corrispondere un canone e vendere spazi pubblicitari.

Il Fascismo e la radio: una breve riflessione

Almeno per tutti gli anni Venti del Novecento, Benito Mussolini non percepisce la valenza del mezzo radiofonico. La sua attenzione, anche in termini di controllo, verterà sulla carta stampata e sul cinema (che sarà definita “l’arma più forte” per attuare la sua propaganda). E per certi versi si potrebbe sostenere che in effetti il mezzo radiofonico non abbia avuto grande diffusione in Italia neppure negli anni Trenta, quando la politica fascista cambiò, assumendo invece un ruolo diverso e diffondendosi con maggiore decisione solo durante il secondo conflitto mondiale e negli anni immediatamente successivi. È però probabile che si tenda a sottostimare il peso specifico della radio prima della caduta del regime perché si crede che al milione di abbonamenti nel 1940 debbano per forza di cose corrispondere un milione di ascoltatori all’incirca su un paese di poco più di 44 milioni di abitanti.

Molto di questo ascolto, però, non era individuale ma collettivo (così come avveniva in Unione Sovietica in quegli anni), talvolta in locali da ballo o comunque in luoghi di svago.

Oltretutto l’Italia di quell’epoca era ancora in gran parte analfabeta e la radio parlava specialmente a chi non sapeva leggere un giornale o un manifesto. Non dobbiamo comunque dimenticare che la popolazione italiana dell’epoca era in gran parte rurale e la variabile della presenza o meno dell’elettricità nelle varie località di campagna poteva in effetti essere un freno all’uso del mezzo radiofonico.


[1] Gabriele Balbi, Le origini del telefono in Italia. Politica, economia, tecnologia, società, Milano, Bruno Mondadori, 2011, 226 pp.

[2] Gabriele Balbi, La radio prima della radio. L’Araldo telefonico e l’invenzione del broadcasting in Italia, introduzione di Peppino Ortoleva, Milano, Bulzoni, 2010, 238 p.

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