Riforme

Democrazia Futura. Dal premierato a un “Piano Mattei” per l’Italia

di Celestino Spada, vice-direttore della rivista Economia della cultura |

Celestino Spada sulla proposta di premierato della maggioranza al Governo e il confronto con il tentativo nel 2016 di “Riforma Costituzionale Renzi-Boschi”.

Celestino Spada
Celestino Spada

Dopo l’intervento autorevole del professor Pasquino, Celestino Spada torna sulla proposta di riforma istituzionale centrata sul premierato: ” Con il premierato proposto dalla Meloni, il bicameralismo […] resterebbe in vigore, soggetto alla decretazione d’urgenza e alla ricorrente “blindatura” della stessa maggioranza attorno alle proposte di legge governative. Mentre con la “autonomia differenziata” in progetto per le Regioni – la rivendicazione identitaria della Lega di Matteo Salvini – verrebbero a profilarsi nuovi ruoli e poteri istituzionali divisivi, non solo in potenza, dell’Unità nazionale, capaci (come si vogliono) di condizionare l’attività di governo e il perseguimento di politiche, appunto, nazionali. Un guaio serio, che la proposta di premierato della premier ha, si dice, l’obiettivo primario di contenere, anzi, di evitare”. E a Spada di aggiungere in un Post scriptum: “Molte cose in questi mesi spingono a pensare che per una parte della classe dirigente oggi al governo, i problemi dello Stato, della democrazia e della società italiana potrebbero risolversi meglio (e comunque) in termini di “comando”.
La proposta di premierato avanzata dopo un anno di esperienza a Palazzo Chigi, con i suoi caratteri specifici, si colloca in questo contesto”.

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A poco più di un anno da quando l’onorevole Giorgia Meloni è la nostra Presidente del Consiglio, chi avesse letto a suo tempo, nel 2021, il volume Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee (edito da Rizzoli), sarebbe tentato di dire che la parola più da considerare, nel titolo, sarebbe stata anche allora la prima. Quello che sembrava il punto di riferimento di una narrazione autobiografica, e la testimonianza del percorso di formazione e di affermazione politica di una donna italiana di tutto rispetto (e, come lei ha il vezzo di ricordare, underdog quanto meno rispetto ai suoi compagni di cordata), da qualche settimana ci viene proposto dalla premier Giorgia Meloni come la chiave per interpretare la sua proposta di riforma istituzionale centrata sul cosiddetto premierato. Può sembrare una forzatura polemica considerare questa vicenda in termini di ego, ma non sono pochi gli elementi che inducono a questo, a cominciare dal fatto che far subito presente, venisse meno la maggioranza e fosse contrario il Parlamento e i partiti in esso e fuori, che “sarà il popolo a decidere” sulla sua proposta, mette in primo piano la sua persona nel rapporto con il “popolo” – una “vecchia solfa”, direbbe Alberto Arbasino, altro che “Fratelli d’Italia”!  

È anche ozioso ricordare che nessuno dei problemi istituzionali che ci si propone di risolvere è nuovo. Appena sette anni fa, nel 2016, gli italiani sono stati chiamati a sancire con un referendum, appunto “istituzionale”, una legge di riforma che era appena stata approvata dal Parlamento, mirata (anche) agli obbiettivi oggi indicati come indispensabili, e l’onorevole Giorgia Meloni non lo sostenne per niente, anzi, insieme ai suoi “fratelli”, fu tra i front runner dell’opposizione d’opinione e politica a quel cambiamento. Che fu impedito dall’esito del referendum.

Che cosa è cambiato nel frattempo?

L’unica cosa di rilievo – a parte il tempo che si è perso e gli ulteriori danni che ne son venuti all’Italia – sembra effettivamente il fatto che oggi l’onorevole Meloni è la nostra Presidente del Consiglio. La quale, sostenuta dalla sua maggioranza parlamentare, e con i due vice-premier da lei scelti, avverte sulla sua persona il supplemento di fatica e di impegno istituzionale che accompagna i ruoli di governo nel nostro Paese, e in particolare quello di Primo Ministro. Per questo si è rivolta ai frequentatori e al “popolo dei social” con uno spot di 6’36” illustrando agli italiani la necessità imperativa, per cambiare, di approvare la sua proposta, sia o meno favorevole il Parlamento e in caso contrario, e comunque, con un referendum.

Messa così, Giorgia Meloni resta evidentemente nel solco della “personalizzazione” della politica avviata da Silvio Berlusconi con la cosiddetta Seconda Repubblica e “si allarga” (come si dice a Roma), annunciando che facendo come dice lei saremo nella “Terza Repubblica” – un viaggio breve, consentito dal fatto che le persone ci sono, anzi: una già c’è, ed è a Palazzo Chigi. Un viaggio che è in effetti una scorciatoia stante il venir meno, appena segnalato dal professor Gianfranco Pasquino su questa rivista[1], delle

“regole di garanzia in materia: primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti/votanti; secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al(la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi”.

Mentre il fatto che venga esclusa la regola per la quale

“ovunque, laddove il titolare della più alta carica viene eletto dai cittadini, in assenza di una maggioranza assoluta, è prevista la procedura del ballottaggio attraverso il quale il candidato vittorioso risulterà eletto dalla maggioranza assoluta dei votanti”, evidenzia la volontà della proponente di “scongiurare la formazione di schieramenti contrari di tipo occasionale, opportunistico, eterogenei, puramente negativi”.

Rispetto al passato recente, non si potrebbe immaginare nulla di più lontano dalla “Riforma costituzionale Renzi-Boschi”, come la targa Wikipedia, presentandola a chi cerca sul web. Nessun rifermento alla Commissione Bozzi e alle sue storiche conclusioni (1985), nessuno alle varie commissioni Bicamerali che fino al 1998 ne hanno riproposto in Parlamento, insieme alla validità, “la necessità e l’urgenza” di darvi seguito, nessuno ai “saggi” incaricati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di mettere a punto un progetto concreto e nessuno, ovviamente, al corrispondente disegno di legge presentato nell’aprile 2015 al Senato dal governo presieduto da Matteo Renzi.

La proposta Meloni opera, da questo punto di vista, una drastica “riduzione della complessità”: non ci sono precedenti, la sua è una novità di cui il “popolo” (per lo meno quello televisivo e dei social) non era, non è, a conoscenza – e che è venuto il momento sappia. Cosa cui provvede, non un Sinedrio di noiosi o i loro eredi più o meno in carica, ma lei stessa mostrando nello spot la parete con i ritratti dei Presidenti del Consiglio della Repubblica Italiana, che in un’anticamera di Palazzo Chigi ricorda a tutti le relative date e durate in carica. Un contributo di “vissuto” personale oggi, adesso, in una materia che altrimenti resterebbe lontana dal sentire e dalla comprensione degli spettatori, del popolo.

Quello della durata media dei governi italiani è un tema cha accompagna la presidenza dell’onorevole Meloni fin da quando ne ricevette l’incarico dal Presidente Mattarella. Curiosamente, quel fatto fu subito evocato dai media italiani più documentati e autorevoli, e ripresa in quei giorni dall’Economist[2]. Una sorprendente novità, anche mediale.

Chi scrive deve confessare che, mentre guardava la premier illustrare nello spot agli italiani la parete, diciamo, dei suoi pari “sconfitti” (tranne Silvio Berlusconi un cui governo – ha ricordato – durò per tutta una legislatura), ha pensato a quella singolare corsa a guardare l’orologio delle statistiche quando un anno fa, nel 2022, per la prima volta in Italia, con Giorgia Meloni, una donna assumeva quel ruolo.

Epperò, ipotizzare che quel tipo di “cronaca”, che non solo la riguarda personalmente ma è così recente, possa avere un tale rilievo nelle scelte politiche, in questo caso “strategiche”, della premier Meloni, significa in qualche modo ridurre all’immediato e personale passato e al suo attuale presente la sua considerazione dei problemi che condizionano, se non addirittura ostacolano, la “governabilità” del nostro Paese. Un’attenzione, quella al recente passato da parte della premier, che troverebbe ancora una conferma nell’esclusione, nella sua proposta di referendum, delle condizioni che hanno consentito “l’ammucchiata” trionfante delle opposizioni e del loro seguito popolare contro la legge di riforma costituzionale (ancora oggi sul web targata “Renzi-Boschi”, come dagli avversari nella campagna referendaria). Questa volta non ci sarebbero sorprese.   

Il confronto con il tentativo nel 2016 di “Riforma Costituzionale Renzi-Boschi”

In ogni caso, il confronto fra la proposta di premierato della premier e le scelte fatte dal più recente tentativo di riforma nella stessa materia non può certo limitarsi a questi aspetti. È utile richiamarne i principali.

Nel 2016 il Parlamento, insieme al rafforzamento del ruolo del Primo Ministro e del Governo fra le istituzioni della Repubblica, decise di:

  1. porre fine al bicameralismo, fonte di disfunzioni e irrazionalità nel processo decisionale anch’esse non secondarie e ben note,  
  2. assegnare un nuovo ruolo all’unica Camera di rappresentanza politica nazionale e
  3. assicurare una nuova presenza delle autonomie locali, in primo luogo delle Regioni, al centro delle istituzioni della Repubblica “una e indivisibile”, con la creazione di un nuovo organo costituzionale.

Con il premierato proposto dalla Meloni, il bicameralismo – nel frattempo umiliata la rappresentanza parlamentare da una legge (approvata anche da Fratelli d’Italia) e da un referendum che non ha nascosto la sua valenza punitiva dei “politici” (della politica) – resterebbe in vigore, soggetto alla decretazione d’urgenza e alla ricorrente “blindatura” della stessa maggioranza attorno alle proposte di legge governative. Mentre con la “autonomia differenziata” in progetto per le Regioni – la rivendicazione identitaria della Lega di Matteo Salvini – verrebbero a profilarsi nuovi ruoli e poteri istituzionali divisivi, non solo in potenza, dell’Unità nazionale, capaci (come si vogliono) di condizionare l’attività di governo e il perseguimento di politiche, appunto, nazionali. Un guaio serio, che la proposta di premierato della premier ha, si dice, l’obbiettivo primario di contenere, anzi, di evitare.

Quindi, ci sarebbe – c’è – anche un risvolto “tattico” della proposta della premier, a connotare ulteriormente quanto caratterizza nella dimensione del “presente” il protagonismo politico dell’onorevole Meloni.

Nello spot della premier al “popolo del web” non c’è traccia di questo aspetto del futuro prossimo venturo delle nostre istituzioni. Ed è un peccato non solo perché, se e quando si parla al popolo, bisogna dire “tutto”, ma perché quanto sta per avviarsi nel Senato della Repubblica rischia di non essere capito da nessuno, non solo sui social. La decisione di “incardinare” (come si dice) al Senato la discussione sulla proposta di premierato pone le condizioni di una vicenda istituzionale non semplice da seguire e da capire, dal momento che proprio in Senato sta per iniziare quella sulla “autonomia differenziata”.

Saranno, evidentemente, scintille e “scontri”, soprattutto fra i protagonisti governativi, saranno messe in secondo piano sui media le posizioni e le scelte dei parlamentari e degli altri partiti in Parlamento, saranno possibili e auspicabili mediazioni e integrazioni fra il rafforzamento del ruolo del governo e i nuovi poteri rivendicati da(i Presidenti de)lle Regioni. E non sono da escludere, evidentemente, le mediazioni e gli scambi, data la corsa parallela dei due iter (magari, sui media, nei termini di “un punto per Meloni” e “un punto per Salvini”) come non è neppure da escludere che essi confluiscano e ne risulti una sola legge di riforma costituzionale approvata in prima lettura al Senato – un esito quanto meno di razionalità in un contesto e in una vicenda finora caratterizzata dall’agitar di bandiere e ora, come vediamo, dagli appelli al “popolo”.

In ogni caso – e non sarebbe un fatto secondario – la proposta di riforma costituzionale verrebbe ad avere in comune con quella approvata dal Parlamento nel 2016, e bocciata dal successivo referendum, il fatto che il ruolo e i poteri nuovi del premier e quelli integrati nell’“autonomia differenziata” delle Regioni sarebbero definiti in un unico percorso legislativo (o, per lo meno, nello stesso Palazzo Madama, anche, se non soprattutto, dagli stessi azionisti della maggioranza parlamentare). Salvo, rispetto a quella del 2016, il mantenimento delle disfunzioni e irrazionalità del bicameralismo, l’irrisione di fatto per il carattere rappresentativo e il ruolo decisionale delle Camere (e del relativo voto popolare) e un potenziamento del ruolo delle Regioni non dentro la cornice delle istituzioni nazionali, ma “rispetto ad esse”, “nei loro confronti” – di fatto, un assunto e una prospettiva duale.

Come sarà comunicata dai media questa “complessità”? Quanto e quale spazio avrà nella loro offerta informativa e nel confronto delle opinioni il merito della discussione in Parlamento e delle scelte che saranno fatte?

In un contesto di comunicazione mediale e di opinione pubblica segnata e strutturata dal dualismo noi/loro – da trent’anni in Tv “O di qua! O di là!” – che riduce il confronto pubblico alle “dichiarazioni” per le news e ai protagonismi del personale politico massimo e minimo nei più vari contenitori televisivi, con le loro scelte, se non la loro identità politica, ridotte a “posizionamenti”, “alleanze”, “rotture”, “contiguità”, “opposizioni” – spicca la dimensione spaziale del conflitto di opinione fra “noi” e “loro” nell’“arena politica”. Mentre, a cadenza settimanale, il “borsino elettorale” risultante dai sondaggi continuerà a proporre, in Tv e sulla stampa, alla meditazione quotidiana dei leader e dei loro interlocutori politici e mediali, il tema e l’obbiettivo di variare almeno di uno 0, in più le loro quotazioni. E mentre incombono (anche) sulla nostra vita pubblica le elezioni europee del. giugno 2024 – sette/otto mesi di “immediato futuro”.

Non è quindi da escludere che, dopo mesi e mesi di scontri e di contrattazioni magari senza costrutto, di contrasti poco o male seguiti e compresi nei motivi e negli obbiettivi, e di esiti, comunque, sicuramente e sempre controversi, la proposta di premierato e la determinazione di andare al voto referendario su di essa possano apparire come una benvenuta, se non auspicata, “riduzione della complessità”. E un possibile ricorso e una decisione di inammissibilità del referendum da parte della Corte Costituzionale non modificherebbero questo fatto.

Post scriptum.  (Fra parentesi: non ha detto nulla, evidentemente, a una parte degli italiani il fatto che, quando decise di combattere al fianco dell’alleato nazista prima che la guerra finisse, il 10 giugno del 1940, Mussolini, oltreché dittatore e primo ministro, aveva da anni l’interim di cinque o sei dicasteri, a cominciare da quello della Guerra. Ciò che non impedì all’esercito italiano di verificare subito, in Grecia e in Albania, il suo stato di preparazione, dalle scarpe all’abbigliamento, all’armamento, con gli esiti noti.)

Presto sapremo come andrà a finire, che sorte avrà, la proposta di premierato.

Quello che invece è già chiaro, da quando il centrodestra è uscito vincitore dalle urne del settembre 2022 e l’onorevole Meloni è premier a Palazzo Chigi, è che il nostro Paese sta perdendo una occasione unica per imprimere un deciso cambiamento nelle condizioni di vita delle persone, nelle città come nelle campagne, delle imprese e dei servizi di una delle regioni più grandi e importanti (diciamolo pure) d’Italia: la Sicilia.

Come si sa, ancora nel luglio scorso, è bastato un cortocircuito e l’incendio che ne è seguito in un locale dell’aeroporto di Catania-Fontanarossa, a bloccare non solo a lungo il traffico aereo, ma per giorni e settimane a mettere in crisi tutto il sistema di comunicazioni interne all’Isola e i suoi collegamenti nazionali ed esteri, con danni di tutti i tipi alla salute e agli interessi di cittadini e di imprese. Sono tornati alla ribalta della cronaca i problemi della viabilità regionale anche dentro e attorno alle città, le ricorrenti, se non croniche, interruzioni delle strade e delle ferrovie ordinarie, sono stati resi pubblici nuovi capitoli della costruzione “in corso” anche da decenni di nuove strade o superstrade o autostrade – per tutte: la Noto-Gela-Agrigento che, con le sue vicende, non ha ancora trovato il suo Camilleri (chi scrive è, di famiglia, di quelle parti e segue ardentemente la cosa). Nessuno può dire ancora oggi quando la Sicilia uscirà da questo “stato di emergenza” latente, pronto a dettare la sua legge ai singoli e alla collettività alla minima circostanza.

Ebbene il centro-destra, i suoi rappresentati e i suoi esponenti politici sono da decenni i più votati e i più rappresentativi, nell’Assemblea Regionale come a livello nazionale: dallo “storico” 61 a 0 nelle elezioni senatoriali del 2001 – sono 22 anni – non c’è stata partita, né ruoli e reali possibilità di influenza, di governo e di amministrazione per rappresentanti di altri orientamenti politici. Lo Statuto Speciale della Regione Sicilia non dovrebbe essere neppure un ostacolo a un’efficace e perseverante azione pubblica, tanto che, per alcuni suoi aspetti, costituisce un modello per i sostenitori della “autonomia differenziata” delle Regioni.

Come mai, con il centrodestra al governo della Nazione, non c’è stata ancora una svolta decisa nello status quo siciliano? Come mai l’impulso innovatore del governo Meloni – che ha il merito di aver riproposto, almeno a parole, la “crescita” economica e sociale del Paese fra le priorità della sua iniziativa politica e amministrativa – tarda a dispiegarsi in Sicilia, pur non essendoci ostacoli da parte di nessun alleato di governo, ai vari livelli, e di nessun oppositore politico, da tempo poco rilevante, nella politica e nella amministrazione della regione? Fra l’altro, impegnato com’è il nostro governo a creare le condizioni e a realizzare una specifica iniziativa italiana ed europea verso l’Africa (il cosiddetto Piano Mattei), dare impulso e realizzare un deciso cambiamento nelle infrastrutture e nei servizi della Sicilia varrebbe a “portarsi avanti” anche su questo fronte. La direzione è quella.


[1] Gianfranco Pasquino, “Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti indebolendo i contrappesi istituzionali. Da contrastare tramite un referendum oppositivo”, Democrazia Futura, III (11), luglio – settembre 2023, pp. 943-944.

[2] V. Celestino Spada, “L’avvento di Giorgia Meloni al governo d’Italia. Qualche nota a bilancio dell’ultimo trentennio”, Democrazia Futura, II (8), ottobre-dicembre 2022, pp. 1133-1140.