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Ci vestiamo con il petrolio e non lo sappiamo. Il sondaggio negli USA

Vestirsi col petrolio

Il poliestere è ormai da tempo il materiale di base da cui produrre tutti o quasi i vestiti che vengono venduti nella stragrande maggioranza dei negozi di abbigliamento e accessori. Secondo un recente studio Bloomberg, il mercato mondiale delle fibre tessili ottenute a partire da poliestere dovrebbe crescere di un altro 5% entro il 2032, per un valore di 174,7 miliardi di dollari.

Il poliestere si ottiene direttamente dalla filatura della plastica PET, a sua volta derivata dal petrolio.

Sostanzialmente, le persone si vestono di petrolio a loro insaputa. Secondo un sondaggio condotto da Wakefield Research, per conto dell’azienda biotecnologica Protein Evolution, su circa 1.000 consumatori americani, il 70% degli intervistati ha ammesso di non avere la minima idea di come siano fatti i vestiti che comprano e indossano, tanto meno che la materia prima sia praticamente la plastica.

Si ricicla solo l’1% degli abiti usati

La cosa incredibile, che lascia molto interdetti, è che hanno anche risposto di essere molto informati sul modo corretto di ridurre la produzione giornaliera di rifiuti di plastica. Evidentemente un segnale forte di quanto le nostre convinzioni siano relative a ciò che conosciamo

Il 93% di loro ha sovrastimato di parecchio la percentuale di vestiti buttati via recuperati e riciclati. La realtà è infatti molto triste sotto questo aspetto: il tasso di riciclo non supera il 15% del totale (dati del 2018) e in gran parte finiscono nel circuito del downcycling, cioè del riciclo/riutilizzo per finalità di valore inferiore rispetto a quelle del primo ciclo di vita del prodotto. Ad esempio, per produrre materiali isolanti in edilizia.

Secondo il Rapporto New Textiles Economy 2017 della ellen MacArthur Foundation, solo l’1% dei rifiuti tessili torna alla produzione di nuovi capi di abbigliamento. Un vero e proprio dramma collettivo, perché significa che gran parte dei vestiti che buttiamo via ogni anno finiscono nel mucchio dell’indifferenziato come rifiuti di plastica, quindi negli inceneritori o in discarica.

Secondo un altro studio della Changing Markets Foundation, circa un terzo di tutti gli abiti usati che dal ricco Occidente è inviato nei Paesi in via di sviluppo finisce dritto in discariche abusive, con grave rischio per la salute ambientale e quindi umana.

La situazione in Italia

Ogni kg di abiti usati raccolto e riciclato si risparmia consumo di acqua e di energia elettrica e si evitano nuove emissioni di CO2. Secondo il Conau, se in Italia si riuscisse a passare dalle attuali 80 tonnellate di abiti raccolti alle 240, si risparmierebbero 36 milioni di euro sullo smaltimento di rifiuti.

Sempre in Europa si riescono a recuperare circa 7 chili di abiti usati, ma la media italiana è molto più bassa, circa 1,3: l’obiettivo è aumentare il tasso di raccolta, arrivare almeno a 5.

L’Europa è corsa ai ripari e dal 2025 sarà obbligatorio per legge istituire in ogni Comune la raccolta differenziata della frazione tessile dei rifiuti urbani a seguito della normativa comunitaria in materia di economia circolare.

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