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Fast fashion bomba ecologica, esportiamo in Africa e Asia 1,7 milioni di tonnellate di abiti usati (un terzo finisce in discariche abusive)

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Nuovi dati sul lato oscuro della raccolta degli abiti usati. Pensiamo tutti che finiscano ‘donati’ al prossimo, ma in realtà sono ‘venduti’ in mercatini locali in Africa e Asia, e ciò che non è venduto finisce in discariche abusive. Più di un capo di abbigliamento usato su tre spedito in Kenya è una forma in rifiuto di plastica sotto mentite spoglie, con gravi ripercussioni sulla salute umana e ambientale.

Abiti donati, bomba ecologica

La quantità di abiti usati che finiscono nei circuiti internazionale dei vestiti donati è praticamente triplicata negli ultimi venti anni, passando da 550 mila tonnellate circa del 2000 a oltre 1,7 milioni di tonnellate del 2019.

Secondo una nuova ricerca pubblicata dall’EEA, l’Agenzia europea dell’ambiente, si esportano verso altri Paesi 3,8 kg di abiti usati a persona nell’Unione europea, che corrisponde al 25% circa del 15 kg di abiti acquistati mediamente ogni anno da ogni cittadino europeo.

Il 46% dei vestiti usati/donati finisce dritto in Africa, il 41% in Asia, il rimanente prende altre vie. Questi abiti però non vanno davvero a chi più ne ha bisogno, in linea di massima danno vita a dei mercati locali di abbigliamento a buon prezzo.

C’è però un problema, in Africa e Asia capi di abbigliamento come maglioni pesanti e abbigliamento per sport invernali non trovano utilizzo e spesso finiscono in discariche abusive a cielo aperto o sono riutilizzati in maniera impropria per farne stracci, imbottiture o rigirati in altri circuiti dell’usato, che arrivano a girare per mezzo mondo.

Secondo un altro studio della Changing Markets Foundation, circa un terzo di tutti gli abiti usati che dal ricco Occidente è inviato nei Paesi in via di sviluppo finisce dritto in discariche abusive, con grave rischio per la salute ambientale e quindi umana.

Il caso del Kenya: un abito donato su tre è un rifiuto in plastica sotto mentite spoglie

In Kenya, ad esempio, finiscono ogni anno circa 900 milioni di capi di abbigliamento usati attraverso il circuito europeo delle donazioni.

Si tratta spesso di vestiti sporchi, macchiati e rovinati in maniera irrecuperabile. Gran parte di questi sono poi realizzati a partire da fibre sintetiche, da poliestere e altri materiali derivati dall’industria del petrolio.

Più di un capo di abbigliamento usato su tre spedito in Kenya è una forma in rifiuto di plastica sotto mentite spoglie e un elemento centrale del processo di inquinamento del Paese”, si legge nello studio.

Inquinamento che minaccia la salute umana e ambientale

Il 30% di questi abiti finisce subito in discarica e spesso è dato alle fiamme (ma non sono rari i casi di combustione spontanea, dato il materiale altamente infiammabile, le alte temperature e le reazioni chimiche con il resto dei materiali conferiti in discarica).

I fumi tossici sprigionati sono un pericolo per la salute e le piogge non fanno altro che trascinare sempre più in basso nel terreno queste sostanze tossiche, che poi finiscono per inquinare le falde acquifere e i corsi d’acqua, vitali per le comunità che abitano questi luoghi.

Le microplastiche ormai si trovano in tutta la catena alimentare del Kenya (ma in realtà di tutto il mondo negli ultimi anni).

Altra conseguenza diretta di questo traffico internazionale è che tra il 20 e il 50% di tutti i vestiti donati non è di qualità sufficiente per essere venduto sul mercato locale dell’usato, con gravi ripercussioni sull’economia di comunità, perché abbassa i prezzi dei vestiti nuovi prodotti dagli artigiani sul territorio.

Basta ‘fast fashion’, serve un nuovo modello di consumo

I ricercatori puntano il dito contro la cosiddetta industria della fast fashion (abiti di bassa qualità venduti rapidamente a prezzi ridotti accessibili a tutti, che poi però vengono riassortiti altrettanto rapidamente), che soprattutto in Europa e Stati Uniti spinge i consumatori ad acquisti di abbigliamento usa e getta: vestiti fatti di materiali sintetici che sono utilizzati per poche volte prima di essere buttati via.

Fondamentale, per fermare questo circolo negativo alimentato dalla produzione di tessuti da materiale sintetico altamente tossico per l’ambiente e la salute umana, dal consumismo sfrenato e dall’accumulo di rifiuti tossici/tessili, è certamente un approccio dei consumatori più critico al mercato, una maggiore consapevolezza del problema da parte delle istituzioni e dell’industria tutta, con nuove leggi e modelli di produzione e consumo più sostenibili a livello ambientale e sociale.