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Chip, ecco le prime 10 fabbriche più grandi al mondo

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Fabbriche dei chip, la classifica globale

Da sola, la TSMC di Taiwan detiene una quota del 60% dei ricavi globali provenienti dal mercato dei chip. Un dato questo sufficiente ad attivare una lente di ingrandimento sull’estremo oriente, come principale regione fornitrice di questi prodotti, attraverso le grandi fonderie (le fabbriche di chip), così fondamentali per l’industria odierna e futura (da quella militare all’automotive, dalla domotica all’automazione industriale).

E infatti se al primo posto c’è la TSMC, con 16,73 miliardi di dollari di ricavi, nel primo trimestre 2023, altre sette posizioni tra le prime dieci fabbriche al mondo di chip sono tutte occupate da società asiatiche.

Su dati Trendforce elaborati da visualcapitalist.com, di seguito ecco le prime dieci più grandi fonderie di chip al mondo per ricavi, relativi al primo trimestre 2023:

  1. TSMC (Taiwan)  16,73 miliardi di dollari
  2. Samsung (Corea del Sud) 3,44 miliardi di dollari
  3. GlobalFoundries (Stati Uniti) 1,84 miliardi di dollari
  4. UMC (Taiwan) 1,78 miliardi di dollari
  5. SMIC (Cina) 1,46 miliardi di dollari
  6. HuaHong Group (Cina) 845 milioni di dollari
  7. Tower Semiconductor (Israele) 356 milioni di dollari
  8. PSMC (Taiwan) 332 milioni di dollari
  9. VIS (Taiwan) 269 milioni di dollari
  10. DB Hitek (Corea del Sud) 234 milioni di dollari

Dominio asiatico

La Samsung si produce i chip in casa per le sua amplia e diversificata industry (telefonia, tv, monitor, elettrodomestici, gadget elettronici, smart home) e copre una quota di quasi il 13% dei ricavi globali in questo settore.

Bene la Cina, con due aziende che si piazzano nei posti più alti, anche se a guardar bene è praticamente Taiwan a fare la classifica, mentre gli Stati Uniti piazzano una sola big al terzo posto.

Si capisce bene che la trasformazione digitale delle economie occidentali è al moment ancora molto dipendente dalle forniture asiatiche, in particolar modo taiwanesi e coreane, e allo stesso tempo molto esposte a qualsiasi perturbazione politica che possa alternare i ritmi di una supply chain ormai globale.

USA e UE all’inseguimento

Il Chips Act americano e l’analoga misura europea vanno proprio in una direzione segnata dalla ricerca di maggiore autonomia e competitività. Parola d’ordine: ridurre il più possibile la dipendenza dai provider asiatici e allo stesso tempo evitare di rimanere (per qualsiasi motivo) tagliati fuori dalle catene di approvvigionamento.

Stando ai dati, infatti, il 46% della capacità mondiale di produzione chip è legata a Taiwan, un 26% alla Cina e un 12% alla Corea del Sud. Solo un 6% dipende dalle fonderie americane e un 2% da quelle giapponesi.

In base alle strategie di Stati Uniti ed Unione europea, relative alla nascita di nuove fonderie nei rispettivi territori di competenza (Washington, ad esempio, vuole crescere ad una quota del 17% nei prossimi quattro anni soprattutto affidandosi ai suoi chipmaker più grandi: Nvidia, Apple, AMD, Broadcomm e Qualcomm), è possibile già oggi attendersi una riduzione della capacità di fonderia di chip di Taiwan e Corea del Sud, rispettivamente di un 41 e un 10% entro il 2027.

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