Concorrenza

Causeries. TrumpAge: Antitrust e mercato, Europa e Usa sempre più distanti?

di Stefano Mannoni |

L’amministrazione Trump con ogni probabilità renderà il solco in materia di concorrenza che divide le due sponde dell’Atlantico ancora più profondo e imporrà alle autorità europee scelte dolorose.

Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Quando Ted Roosevelt fu nominato alla Casa Bianca, le previsioni erano che un repubblicano non avrebbe fatto grande uso delle norme antitrust. Accadde invece il contrario.

Quando Obama fu eletto, le aspettative per un antitrust vigoroso erano alte, ma sono state sistematicamente deluse.

La questione non è di poco conto perché già oggi le distanze tra antitrust americano ed europeo sono notevoli (D. J GIFFORD, R. T. KURDLE, The Atlantic Divide in Antitrust, Chicago University Press, 2015).

Il problema nasce dal fatto che la rivoluzione di Chicago che ha portato a ridimensionare l’azione dell’antitrust negli anni Settanta in nome dell’efficienza non ha fatto adepti in Europa salvo per il tentativo, fallito, della Commissione Europea di puntare sulla condanna degli effetti dei comportamenti e non sulla forma.

Il punto è che la Corte di Giustizia, che in Europa ha l’ultima parola, è rimasta fedele alla lezione ordoliberale secondo la quale quello che conta è sì il benessere dei consumatori, ma ancora di più la struttura del mercato che deve essere animata da una vivace rivalità anche a costo di tenere in vita concorrenti non proprio efficienti.

La Corte Suprema USA nel caso Leegin si è spinta a ribaltare una giurisprudenza vecchia di 70 anni che condannava i prezzi minimi verticali ed ha affermato che quando un prezzo è regolato da un’autorità non vi è luogo a margin squeeze.

La Corte europea ha fatto l’opposto.

Non solo gli accordi sui prezzi minimi verticali sono colpiti, ma anche se una autorità ha regolato il prezzo all’ingrosso questo non impedisce l’impresa dominante, in nome alla sua speciale responsabilità, ad alzare i prezzi al dettaglio, se questo è necessario per evitare un margin squeeze.

Il paradigma ordoliberale che fa ancora adepti in Europa subordina l’efficienza alla struttura del mercato un po’ come avveniva negli anni Sessanta negli USA, quando a dominare era il paradigma della scuola di Harvard secondo il quale la sequenza struttura-condotta-performance doveva guidare le autorità.

A ciò si deve aggiungere che la Corte europea non riconosce la Rule of reason che impone alle autorità americane di ponderare l’utilità dell’azione con i benefici che potrebbe ricavarne il mercato da un aumento del prodotto e da una diminuzione dei prezzi.

Nonostante gli sforzi della Commissione, che ha tentato di ribaltare l’approccio formalistico della Corte europea con un approccio basato sugli effetti, i risultati sono stati magri.

Si deve poi aggiungere che la Corte europea ha espresso chiaro e tondo che qualsiasi azione che riproponga la divisione del mercato unico lungo le linee dei confini nazionali è intrattabile: è destinata a una condanna sicura.

Si aggiunga infine che le azioni antitrust sono negli USA per la grande maggioranza condotte da privati davanti a giudici comuni, al contrario di quanto avviene in Europa.

Se forse un punto di contatto può rilevarsi tra le due sponde è sulle fusioni, ma si tratta di ben poca cosa a dispetto delle differenze.

È allora curioso che la Commissione minimizzi le differenze ed insista sul concetto di omogeneità.

È difficile fare previsioni, ma l’istinto mi suggerisce che l’amministrazione Trump renderà il solco ancora più profondo e imporrà alle autorità europee scelte dolorose, se un minimo di comune sentire vorrà essere preservato tra Washington e Bruxelles.