Patologie cibernetiche

Causeries. Psiche e Internet, ansia e solitudine si annidano online

di Stefano Mannoni |

Il tecnopessimismo è alla moda, più all’estero che in Italia dove internet ha assunto una valenza totemica. ‘Solitudine digitale’ di M. Spitzer non la manda a dire alle lobbies dell’hitech.

Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Il tecnopessimismo è alla moda, più all’estero che in Italia dove internet ha assunto una valenza totemica. E’ pertanto un’iniziativa meritoria che una casa editrice metta sul tavolo le crescenti apprensioni tra psiche e internet che germogliano un po’ in tutto il mondo.

Il riferimento è qui a M. Spitzer, Solitudine digitale, Corbaccio, 2015 che non la manda a dire sul lavorio delle lobbies dell’high tech per mettere la sordina sulle patologie cibernetiche.

Non è affatto vero, sostiene l’autore, che l’educazione dei giovani sia migliorata dal contatto con internet. Semmai è vero il contrario. Tanto per cominciare, studi empirici di psicologia dimostrano come il multitasking penalizzi l’attenzione.

La distrazione la fa da padrona soprattutto per il moltiplicarsi della distrazione soprattutto nell’uso degli smartphone. Non solo: l’utilizzo degli smartphone riduce alla propensione al pensiero lento, quello che supera la facile strada delle associazioni per investire la materia cerebrale nella riflessione.

L’insidia maggiore proviene però dal meccanismo di ricompensa del cervello. La solitudine dei videogiochi alimenta una solitudine che trova la propria ricompensa in un accresciuto uso dello strumento, amplificando i disturbi dell’attenzione.

Studi autorevoli dimostrano come il possesso della Playstation porti a uno scarso rendimento scolastico. L’internet gaming disorder è entrato a fare parte del lessico medico anche se la terapia non sembra facile da individuare.

Il sistema di ricompensa cerebrale premia grandemente l’uso di questi dispositivi che comportano una addiction crescente. L’esempio è quelli dei popcorn: più ne mangiamo più ci sentiamo appagati, benché il valore nutrizionale sia basso o addirittura negativo. Di Facebook si arriva a dire che la dipendenza da esso sia comparabile con la dipendenza da sostanze e alla dipendenza da gioco.

Quanto alla dipendenza da cellulari, questa è dimostrato che si accompagni ad ansia, sintomi depressivi e perdita di autostima. Dell’invadenza nelle nostre vite del cyberspazio non vi è molto da dire: “la privacy, dice l’autore è divenuto un bene di lusso”.

Se si considera che la riservatezza è stata introdotta nell’A.D. 1215 dal diritto canonico non si stenta a rimanere sconcertati della regressione che ha subito negli ultimi decenni. Se poi si ripiega sulla inondazione di notizie come palliativo degli altri inconvenienti ci si imbatte nello stress, che dipende dalla “perdita della situazione”, ossia la sensazione di non essere più padroni del nostro destino.

La sensazione di essere eterodiretti è devastante per l’auto considerazione. Se ci si illude poi che Facebook riduca le fobie sociali, si è destinati a rimanere delusi: ansia e solitudine aumentano, poiché l’empatia che regge i rapporti umani ne viene ridotta dalla virtualità.

Privare un individuo del telefonino significa moltiplicare l’ansia di “essere tagliati fuori”.  “I media – sentenzia l’autore – non sono adatti all’apprendimento sociale. Per questo c’è bisogno delle relazioni reali”.

Il pericolo si annida specialmente nell’apprendimento, dove il contatto con i genitori non può essere sostituito da quello con la macchina. Il punto è che il processo della comprensione e dell’apprendimento umano non è cambiato.

La sensorialità e il movimento non sono eliminabili.

La conclusione è particolarmente dura: E’ plausibile dunque che la promozione di un uso precoce dei media deve diventare un elemento sempre più importante nel processo educativo. No! “Le tecnologie digitali”, ammonisce l’autore, “con la limitazione della sensorialità e dei movimenti fisici che comportano, rappresentano un grave attacco all’infanzia da cui bisogna difendersi”.

Si rischia di trasformare l’attenzione in un “bene scarso”. Il libro prosegue con un’inquisitoria di una durezza senza pari. Ed è bene che sia così poiché l’enfasi sullo sviluppo della banda larga non può essere dissociato da quello sulla “buona scuola” che non equivale a riempire di schermi le aule scolastiche.