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Causeries. Giornalismo online? E’ un ritorno alle origini

di Stefano Mannoni |

Come nell’Inghilterra del Seicento, la rete fornisce al lettore notizie nude e crude, senza la mediazione ‘oligarchica’ della carta stampata.

#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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E’ da tempo che viene diagnosticato il melanconico declino del giornalismo quale lo abbiamo conosciuto. Da quando Internet ha fatto la sua comparsa, esso ha ridimensionato in modo drastico quel ruolo dell’editore come mediatore delle notizie tra la loro fonte e il pubblico. Questi, da canto suo, attinge liberamente i fatti ovunque li possa reperire, un esercizio questo divenuto assai facile: tra Google, Twitter, Facebook e altre fonti vi è solo l’imbarazzo della scelta.

Molti guardano con apprensione a questo sviluppo, lamentando la perdita di profondità nella formazione dell’opinione pubblica, lasciata a se stessa di fronte al magma dei fatti. E continuano ad aggrapparsi a quell’ormai salottiero esercizio chiamato “editoriale”, vestigia di una leadership irrimediabilmente perduta dagli intellettuali (o piuttosto da quel poco che ne rimane…).

Ebbene non è detto che questa diagnosi così pessimista sia così giustificata.

La ricostruzione storica suggerisce al riguardo una lettura diversa.

Internet rappresenterebbe non una rottura della tradizione, bensì piuttosto il ritorno all’antico, più precisamente alle origini.

Il saggio di Nicholas Brownlees, The Language of Periodical News in Seventeenth-Century England, Cambridge Scholars, 2014, suggerisce proprio questo.

Nell’arco di tempo che va dal 1627 al 1702, incubatrice del giornale moderno, la strategia di asseverazione di quella assoluta novità, che erano per l’appunto le news, ruota intorno a una valore centrale: la fattualità. L’editore si fa da parte, per porre il lettore di fronte alla notizia presentata con un disclaimer di assoluta onestà: “Mio caro, io te la riporto come mi è arrivata ma non te la garantisco; vedi tu se suona attendibile”.

Circondate dal disprezzo degli intellettuali e dalla diffidenza dell’establishment, per i quali la mercificazione di un sapere non mediato era tanto rozzo quanto pericoloso, queste news si conquistano l’attenzione dei lettori attraverso un protocollo di verifica elementare scandito da poche domande essenziali: “dove, quando, cosa e chi”.

Molto più raramente, si badi: “perché”.

L’oblio dell’editore non avrebbe potuto essere più drastico.

Poiché al lettore restava il compito di ricostruire la cronologia e di dare il senso: senza nessuno che gli guidasse la mano.

Nel bel mezzo della Guerra dei Trent’Anni (1618-1648) e delle guerre civili inglesi (1642-1689), il pubblico (protestante) si fa le ossa egregiamente confrontandosi con un magma piuttosto erratico di fatti che era chiamato a interpretare, senza il confronto di un commento prefabbricato. E la conferma sul campo di quello che ha sostenuto Jurgen Habermas in un classico, secondo il quale la sfera pubblico borghese si è consolidata proprio grazie a questo giornalismo privo di ambizioni editoriali: fattuale, cronachistico, ma proprio per questo assai pedagogico nel confronti di un lettore stimolato all’ attività e non addomesticato alla passività.

E quindi?

Chi critica la modalità con cui internet veicola le notizie dovrà porsi qualche domanda supplementare.

Non segna forse davvero l’affrancamento del lettore dalla servitù della poco rimpianta oligarchia della carta stampata?

Non impone al lettore lo sforzo di trasformarsi da soggetto passivo a fruitore attivo?

L’Inghilterra del Seicento offre all’età della rete il beneficio del dubbio.

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