Il dibattito

BreakingDigital. Sempre una risata seppellirà le Fake (e i suoi analisti)

di Michele Mezza, (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) - mediasenzamediatori.org |

Trovo davvero eccentrica la replica alla mie considerazioni del professor Quattrociocchi sia nel tono che nel merito. Ecco perché.

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) –mediasenzamediatori.org. Autore di ‘Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google’. Direttore di Pollicina Academy, centro di ricerca sugli effetti del mobile (www.pollicinacademy.it) Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Come sospettavo il mondo Fake è davvero destabilizzante.

Immergendosi si rischia di convincere pesino   professori ordinari solo nelle argomentazioni di poter pontificare sull’argomento.

Trovo infatti davvero eccentrica la replica alla mie considerazioni del professor Quattrociocchi sia nel tono che nel merito. Nel tono perché vedo una scomposta reazione che non ha nulla di accademico. Nel merito per alcuni eccentrici tentativi di prendere ad ostaggio citazioni e fenomeni in maniera alquanto improbabile.

Come è facilmente riscontrabile leggendo i testi in sequenza, nella mia replica alle tesi del professor Quattrociocchi, che quantunque si consideri uno scienziato, a conferma che il decentramento del sapere sulla spinta della rete ha conosciuto frontiere davvero inarrivabili altrimenti, deve serenamente rassegnarsi al contraddittorio, soprattutto quando si trova a giocare in trasferta, non avevo adombrato critiche stilistiche o rilievi di scienza. Anzi, spinto dall’entusiasmo nello scoprire quante cose belle si fanno nella provincia italiana, avevo azzardato anche dei riconoscimento per gli sforzi quantitativi del suo gruppo di ricerca.

Mentre il professore di Lucca non trova di meglio, per dare forza ad arzigogolate misture di surrealisti e di cruciverba, di adombrare scarti di eleganza o carenza di conoscenza da parte mia.

Il tutto infarcito da affermazioni solenni quale il fatto che a Lucca si sarebbe scoperto in maniera “incontrovertibile e netta che il modo in cui si consumano le informazioni è dominato dal pregiudizio di conferma”. Roba da rimanere a bocca aperta.

Nella Silicon Valley staranno riclassificando tutti gli algoritmi editoriali, e giunge notizia che la Columbia University abbia sospeso i suoi corsi in giornalismo per accertamenti sul caso.

Battute a parte, che mi sono imposte dalla cornice fake di tutta la discussione, mi limito ad osservare che quella che i ricercatori delle grandi città chiamano Bias identitaria, è un fenomeno che risale a Eschilo, che nel suo Agamennone ci dice come il vento delle premonizioni si adatta al carattere dei ascoltatori. Da allora, in attesa che venisse la rivelazione da Lucca, ci si è arrabattati cercando di instaurare sempre un legame fra il messaggio e l’utente che si combinavano per affinità.

Pergamene, libri, gazzette, radio e TV sono un catalogo di identità che si sventagliano sul mercato e si combinano con le scelte dei lettori che pensano ovviamente di comprare il proprio giornale o ascoltare il proprio TG perché è la verità.

Solo chi non ricorda, e non si documenta, il clima nelle città italiane degli anni ’70, quando esibire un modo di vestire poteva significare una bastonatura o addirittura una gambizzazione può oggi stralunarsi per insopportabili ma pur sempre ingiurie scritte.

La differenza oggi sta nelle nostre relazioni sociali, è che sono l’origine e non la conseguenza della rete.

Un fenomeno molecolare che ha devastato il mercato dell’informazione a tutte le latitudini e longitudini con un’omogeneità che non ha paragoni con altri fenomeni globali, è il fatto, cerco di rendere meno oscuro il mio pensiero per chiunque: rispetto al tradizionale sistema mediatico in cui una fonte lontana e autorevole distribuiva il suo sapere, oggi proprio le percentuali citate dalla ricerca, indicano che gli individui cercano sui social fonti vicine e confidenziali con cui intrattenere una conversazione. Non è difficile comprendere la differenza.

Basta frenare il proprio “pregiudizio di conferma”.

In questo proprio si dimostra la rete non sia un media e non basta il fatto che la gente si informa attraverso la rete per dimostrare che lo sia: il bar del paese, o il vicolo nel sud, all’inizio del secolo scorso erano media? No erano una community.

Il prete del paese o la sezione di partito erano media? Sì, erano fonte autorevole e verticale che distribuiva, non condivideva. Per questo ritengo che non siano disciplinabili le conversazioni, ma siano certificabili: gli esseri umani parlano fra loro, i bot eseguono missioni.

Come Trump sa fin troppo bene.

Sono sicuro che con un secondo passaggio la cosa risulti comprensibile proprio a tutti.

Così come dovrebbe essere comprensibile che io non ho mai parlato di normare gli algoritmi nei social, ma di rendere trasparenti e integrabili questi dispositivi medianti azioni negoziali.

Su una cosa sono indiscutibilmente d’accordo la cultura dell’umiltà. Più uno spruzzo di ironia altrimenti, per parafrasare Yurval Harari l’intelligenza oltre che affrancarsi dalla consapevolezza  rischia disperdere anche il senso del ridicolo.

Per approfondire: