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BreakingDigital. La verità in rete? Non regaliamola all’algoritmo

di Michele Mezza, (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) - mediasenzamediatori.org |

La verità oggi è un processo di continuare rettifica, integrazione, correzione, che avviene sul mercato delle opinioni globali. L’onere della bufala spetta inesorabilmente agli utenti.

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) –mediasenzamediatori.org. Autore di ‘Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google’. Direttore di Pollicina Academy, centro di ricerca sugli effetti del mobile (www.pollicinacademy.it) Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Baristi e postini in grande agitazione!

Gira voce infatti che in varie città europee si stia discutendo una legge che attribuisce agli esercenti di locali pubblici e ai distributori di corrispondenza la responsabilità su quanto viene detto nei colloqui e nelle relazioni interpersonali all’interno di quegli ambiti.

Se una coppia litiga in un bar, uno dei due potrebbe, a norma di questa legge, ricorrere al giudice, e denunciare il barista per non aver sorvegliato la discussione e moderato le intemperanze e eventuali bugie dette dall’altro coniuge nella conversazione, lo stesso potrebbe accadere nelle relazioni a mezzo posta a carico dei distributori.

Ovviamente questa notizia non è, ancora, vera, e dunque, se l’accreditassi come tale non comparirebbe in questa pagina, perché verrebbe stralciata dal distributore, nel nostro caso dal direttore della testata che ci ospita.

Ma il nostro direttore è una figura professionale non solo abilitata, ma anche costretta dalla legge nell’esercizio della sua attività professionale e della sua responsabilità pubblica, ad organizzare il prodotto che distribuisce secondo criteri deontologici di affidabilità, buona fede, trasparenza.

Così non è per Facebook Google.

I due Service Provider della rete, in realtà, svolgono funzioni molto simili ai baristi e ai postini piuttosto che al direttore responsabile di una testata, e trovo davvero singolare che presi dal gorgo che sta travolgendo ogni schema professionale nel campo dell’informazione a causa dell’abbondanza alluvionale di contenuti, di fronte a fenomeni che non ci piacciono e che inoltre non riusciamo nemmeno a spiegare, ci si possa rifugiare reclamando una missione salvifica da parte proprio dei baristi e dei postini.

Già nel lontano 1965, Ernest Hemingway ammoniva i suoi lettori contro il rischio dei falsi che venivano stampati dicendo che “ognuno dovrebbe ormai avere dentro di sé un meccanismo per rivelare le bufale”.

Forse inconsapevolmente, ma il grande scrittore americano aveva centrato quella che oggi è l’insostenibile leggerezza della rete, ovvero che l’onere di certificare, verificare, e accreditare la qualità di quanto viene postato, e dunque implicitamente l’attendibilità dei suoi contenuti, spetta inesorabilmente agli utenti.

Questo è il motore di quel processo che pomposamente viene definito disintermediazione professionale.

E’ il virus che sta mietendo vittime tra tutte le figure intermedie che nel secolo scorso hanno dominato la scena culturale sociale, dai giornalisti ai professori e ora persino ai medici e soprattutto, clamorosamente, ai politici e agli amministratori.

Questo processo però non è a somma zero. Come ci spiega Jaron Lanier, nel suo saggio “La dignità ai tempi di Internet”, i vecchi mediatori non sono stati aboliti ma sostituiti da nuovi soggetti che si sono impossessati del centro della scena, economica, culturale, sociale, ed ora anche politica: sono proprio i service provider, meglio ancora, pochi grandi monopolisti delle nostre relazioni digitali.

Sono loro – parliamo appunto di Facebook, Google, Twitter, Amazon – che stanno formattando la gerarchia delle nostre relazioni, del flusso delle nostre emozioni, dei fini delle nostre opinioni…

Gli strumenti per questa gigantesca azione di illusione culturale, dove l’apparente gratuità diventa il grande pretesto per il monopolio, sono gli algoritmi, ossia quella forma in cui si è concretizzata la potenza di calcolo che permette a queste entità, ai service provider, attraverso la loro funzione di intermediazione delle connessioni e degli accessi, di orientare e pilotare la stessa fase di formazione delle nostre opinioni e dei nostri desideri.

Ebbene, vi pare logico affidare alla Banda Bassotti le chiavi dei forzieri della Banca d’Italia?

Vi pare logico che un’intera cultura professionale, qual è mondo del giornalismo, invece di comprendere e decifrare i nuovi processi sociali che mutano il rapporto fra trasmettitore e ricevente nel ciclo della notizia, di fronte al dilagare del brusio incontrollato incontrollabile, si limiti a reclamare un maggior potere prescrittivo da parte dei nuovi mediatori sociali?

Oppure che istituzioni, internazionali o nazionali, come l’Unione Europea, e gli Stati Uniti, o la Francia e L’Italia, si accodino ad un senso comune che chieda al monopolista di esercitare nella maniera più completa e totale il suo potere di controllo sulla rete?

Questo è un nodo fondamentale per il futuro del mondo digitale soprattutto alla luce dei nuovi protagonismi politici che appaiono sulla scena sulla scia di fenomeni qual è il trumpismo e il populismo globale.

Il rischio infatti è di consegnare a queste forze regressive il primato della politica, più ancora, la centralità della democrazia, nell’organizzazione e gestione delle relazioni sociali.

Esattamente nello stesso modo in cui si verificarono altri spettacolari processi di estensione degli accessi al senso comune della capacità di interferire con l’opinione pubblica, come avvenne con la scrittura, con la circolazione dei manoscritti, con la stampa, con l’editoria Popolare, e infine con i media elettronici, bisogna dare forma e certezza a nuovi modelli comportamentali, dove non è più il centro, un centro, qualunque esso sia, a poter decidere e determinare ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Solo il continuo negoziato quotidiano fra utenti e produttori di contenuti può essere il motore della rete.

La verità oggi è un processo di continuare rettifica, integrazione, correzione, che avviene sul mercato delle opinioni globali.

Sarebbe davvero triste il giorno in cui dovessimo pensare che un presidente degli Stati Uniti, inizialmente privo di credibilità e di attendibilità politica, possa essere stato eletto nella democrazia della comunicazione più avanzata del mondo solo perché qualcuno ha pilotato meglio le sue menzogne, in maniera indisturbata, senza contraddittorio, in solipsistiche corsie digitali dove milioni di americani venivano indottrinati all’insaputa del mondo.

Gli algoritmi di Facebook e Google sono meno rassicuranti delle panzane di Trump. Sicuramente sono meno trasparenti, sono meno pubblici, sono meno esposti alla critica sociale. Non regaliamo al nuovo inquilino della Casa Bianca anche la bandiera della nostra libertà.