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Banche ed extraprofitti. Ecco perché occorre fare chiarezza

È un giochino noto da tempo. La banca centrale aumenta i tassi per contrastare l’inflazione e le banche cosa fanno? Aumentano subito i tassi sui prestiti ma non aumentano i tassi sui depositi oppure ne ritardano l’aumento. Così le banche danneggiano i risparmiatori-depositanti mentre aumentano il margine di interesse (differenza fra interessi attivi e interessi passivi) conseguendo maggiori profitti senza alcun sforzo e merito (il discorso vale anche nel caso di una diminuzione dei tassi; le banche riducono subito i tassi sui depositi mantenendo inalterati il più possibile quelli sui presiti).

Cercando di frenare queste condotte, nel 2006 il “decreto Bersani”, nel contesto di una serie di misure per incentivare la concorrenza, ha stabilito che: “Le variazioni dei tassi di interesse conseguenti a decisioni di politica monetaria riguardano contestualmente sia i tassi debitori sia i tassi creditori e si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente”. La norma, recepita nel Testo Unico Bancario, non risulta però essere stata applicata. È prevalsa infatti un’interpretazione restrittiva (favorevole alle banche) secondo cui le variazioni simmetriche e contestuali dei tassi riguarderebbero i tassi attivi e passivi di singoli conti e non i tassi passivi dei depositi della generalità della clientela. Tuttavia, si deve riconoscere che una misura impositiva sui tassi confligge con i principi della concorrenza; in un’economia di mercato, come la nostra, deve essere la concorrenza a indurre le banche ad adeguare i tassi.

Il giochino si è ripetuto nel 2023 ma con un’innovazione. Le banche – le maggiori, non tutte per la verità – hanno giustificato la forte impennata dei profitti sostenendo che i conti correnti non possono prevedere tassi a favore dei clienti sui loro saldi creditori perché questi conti sono “servizi”. Le relative giacenze non vanno pertanto remunerate. Di conseguenza, aumentando i tassi attivi e non anche quelli passivi (ricordiamo che tra il 2022 e il 2023 la Bce ha fatto dieci aumenti consecutivi dei tassi ufficiali), le banche hanno beneficiato, senza particolari meriti, di superprofitti o extraprofitti, come sono stati chiamati, a danno dei depositanti-risparmiatori.

Il governo italiano ha deciso che fosse un atto dovuto ripristinare un criterio di equità imponendo alle banche una extra tassazione sui maggiori “margini di interesse” cresciuti in modo anomalo, con la previsione di destinare tali introiti a fini sociali. Questa tassa, c.d. sugli extra profitti, in seguito alle critiche di incostituzionalità e alle osservazioni della Bce, è stata però ampiamente modificata e sostanzialmente depotenziata. Le banche, in luogo di versarla all’erario, sono state autorizzate a imputarne l’importo, pari a due volte e mezzo, al proprio capitale al fine del rafforzamento patrimoniale.

Le banche e la narrazione opportunistica

Che le banche vogliano far passare il principio della non remunerazione dei depositi in conto corrente, sostenendo che sono servizi, è una strategia che si spiega – e non è un dettaglio – con il peso che i conti correnti hanno nella raccolta dei fondi delle banche. Su un totale dei depositi bancari di circa 2.000 miliardi di euro ben oltre il 70% riguarda i depositi in conto corrente, quindi la maggior parte della raccolta con cui le banche fanno i prestiti. Si tratta di una massa stabile nel tempo, grazie alle compensazioni contabili; se non remunerata, è una vera e propria manna per le banche.

In realtà, le banche hanno sempre remunerato i depositi in conto corrente, accordando tassi di interesse anche molto alti e usandoli come arma competitiva nelle strategie di espansione e acquisizione di nuova clientela. Non si è mai detto da parte di amministratori bancari che i conti correnti non debbano essere remunerati perché sono servizi e anche la migliore dottrina non nega che sui saldi creditori dei conti correnti la clientela possa ricevere un interesse.

Infatti l’impegno della banca ad eseguire prestazioni per conto del depositante non fa venire meno il fatto che la clientela mantenga depositate giacenze medie anche rilevanti per la gestione dei propri pagamenti o per motivi precauzionali. La banca concede agli intestatari dei conti correnti ampie facoltà in merito non solo ai prelevamenti a vista ma anche alla possibilità di usare tali conti per le operazioni più varie di accredito e addebito. Ma tutti questi “servizi” il cliente li paga con apposite commissioni. A negare poi la remunerazione di questi conti non rileva la circostanza che la loro durata formale sarebbe nulla dato che i prelevamenti sono a vista; in realtà la loro massa si stabilizza presso ogni banca che ne impiega le giacenze permanenti in modo fruttifero a proprio vantaggio. Del resto i depositi a tempo, che sono remunerati, possono essere prelevati prima della scadenza con il costo di uno sconto a carico del depositante. Anzi si dimostra che la massa dei depositi a tempo (che sono una quota minoritaria) è meno stabile di quella dei conti correnti.

Quanto alla condotta dei clienti, si tenga presente che disporre di un conto corrente bancario è oggi sempre più una necessità per le persone sia per l’accredito dello stipendio, sia per pagare le utenze, sia per una serie di pagamenti che si è obbligati a fare in modo digitale. Pertanto, non remunerare le giacenze dei conti correnti (e il problema si pone anche per le imprese), applicando per di più ad essi spese e commissioni, significa approfittare di uno stato di necessità della clientela che subisce di fatto condizioni vessatorie. E ciò si aggrava quando questa condotta è generale, la concorrenza è assente o poco attiva.

Ed è su questo ultimo aspetto che dovrebbe essere posta l’attenzione anche da parte del governo, su come cioè funziona il mercato dei servizi bancari, sulla tutela del mercato e della concorrenza. Questo è il vero punto debole della questione. In un mercato che è diventato oligopolistico risulta più facile limitare il costo della raccolta e incrementare i margini quando si consolidano condotte collettive-imitative adducendo che i conti correnti sono un servizio.

Conti correnti sempre remunerati

I banchieri dovrebbero ricordare che i saldi creditori dei conti correnti, sia quelli i cui titolari sono le imprese sia quelli intestati alle persone, sono sempre stati remunerati sebbene con tassi di norma inferiori a quelli dei depositi delle altre categorie (con preavviso e a tempo). Del resto, si è sempre anche condiviso che la corresponsione di un tasso di interesse assume crescente importanza per il depositante in relazione all’importo della giacenza media che non mantiene come investimento ma a scopi precauzionali.

Le banche non hanno mai fatto pressioni sulla clientela a ridurre le giacenze su conti correnti a favore delle altre categorie come i depositi a tempo/vincolati. Questi comportano infatti tassi più alti e le banche cercano di massimizzare lo sviluppo dimensionale della raccolta limitandone il costo. Addirittura i tassi sui conti correnti sono stati oggetto di negoziazione anche grazie alle “convenzioni aziendali”. Si tratta di accordi tra la banca e i dipendenti di un’azienda o di un ente che prevedono l’offerta da parte della banca di condizioni agevolate per l’accensione di un conto corrente e per l’utilizzo di altri servizi.

Il tasso di interesse offerto sulle somme depositate è sempre stato tra i maggiori fattori competitivi e le banche si sono trovate ad applicare ai conti correnti remunerazioni anche particolarmente alte. Come nelle fasi congiunturali negli anni 1976-92 quando la Banca d’Italia fissò il tasso ufficiale di sconto a ben due cifre (con una punta massima del 19% nel 1981) per contrastare l’inflazione. I tassi sui prestiti aumentarono a tali livelli facendo lievitare i tassi sui depositi e conti correnti.  

Con l’entrata nell’euro, i tassi sui prestiti e sulla raccolta delle banche italiane si sono adeguati alle decisioni della Bce. Per lungo tempo la politica monetaria europea è stata espansiva con tassi bassi e un forte aumento della liquidità. In seguito alla crisi dei mutui subprime (2007-2008), alla crisi finanziaria internazionale e a quella successiva dei titoli sovrani (2011), la Bce ha abbassato ulteriormente i tassi di riferimento fino ad arrivare allo 0,05%. Nel settembre 2014 apparve per la prima volta un tasso negativo (- 0,10%) sui depositi overnight. La comparsa di tassi negativi portava le banche ad azzerare la remunerazione dei conti correnti della clientela senza però applicare tassi negativi ai correnti e ai depositi in genere. Per lungo tempo quindi i depositi hanno ricevuto una remunerazione quasi nulla avendo la banca centrale portato i tassi ufficiali vicino alla zero e sotto lo zero. Una situazione straordinaria che ha penalizzato soprattutto il risparmio e i risparmiatori.

Banche, extraprofitti e concorrenza

Lo scenario è recentemente cambiato; nel biennio 2022-23, con l’obiettivo di ridurre l’inflazione, la Bce aumentava progressivamente i tassi. Le banche come hanno reagito? Come sempre in modo opportunistico. Hanno prima cercato di sfruttare l’inerzia della clientela-depositante, poi hanno pensato bene di innovare il solito “giochino”. Facendo leva sul fatto che la clientela si è abituata a non ricevere più interessi sui conti correnti (distratta, poco informata anche perché non si reca più come un tempo agli sportelli), i top manager dei maggiori gruppi bancari si sono affettati a giustificare gli extraprofitti (dovuti all’aumento dei tassi sui prestiti e non sui depositi), sostenendo che i conti correnti “non vanno remunerati perché sono un servizio”.

Per quanto detto, si tratta di una narrazione di comodo. L’obiettivo è quello di continuare a conservare una cospicua raccolta dal pubblico a costo finanziario nullo, continuando così a macinare “extraprofitti”. C’è anche chi difende le banche dicendo che non sono necessariamente interessate a raccogliere i depositi dal pubblico, ma si dimentica che esse possono impiegare la liquidità eccedente in operazioni a brevissimo termine (prestiti e depositi overnight), in depositi interbancari o presso addirittura la stessa Bce che li remunera attualmente al 4%. Un vero affare se i conti correnti effettivamente non vengono remunerati.

Invece di puntare il dito sui superprofitti, il governo non si è interrogato su come funziona il sistema bancario italiano dal punto di vista della concorrenza. Come mai i grandi gruppi bancari, e la generalità delle banche, hanno immediatamente alzato i tassi sui prestiti alle famiglie e imprese, mentre hanno potuto mantenere sui conti correnti tassi di interesse da zero a zero virgola? Perché non sospettare di una “condotta di sistema” anti-competitiva. E poi, dal lato dei prestiti ci sono banche che hanno attenuato gli aumenti dei tassi favorendo le imprese in difficoltà con orientamenti divergenti?

C’è anche chi parla di clienti che fanno scelte sbagliate per ignoranza finanziaria mantenendo il proprio risparmio nei conti correnti a vista a remunerazione zero. Ma non ci si chiede quale sia stato finora il ruolo dei consulenti finanziari presso gli sportelli nell’indurre i clienti a scelte per essi più convenienti. Così i clienti che non protestano, non vanno a reclamare l’adeguamento dei tassi, restano penalizzati. Il mercato non è trasparente e i risparmiatori-depositanti subiscono impotenti le condizioni imposte dalle banche. I primi cinque gruppi bancari controllano oltre il 60% delle risorse finanziarie. In un mercato che è diventato più concentrato l’antitrust deve essere più attivo sul fronte della verifica e del contrasto delle condotte anti-competitive. E il governo, invece di tassare gli extraprofitti (con il risultato come ricordato di un flop), deve guardare al corretto funzionamento del mercato dei servizi bancari rimuovendo le cause che lo ostacolano e prevedendo opportune sanzioni nei confronti di chi non rispetta le regole. Ricordiamo che l’ultima indagine conoscitiva da parte dell’Antitrust sulla formazione dei prezzi dei servizi bancari risale al 2006. E dopo, tutto regolare?

Fantasia nel marketing ma anche responsabilità sociale

Non remunerando i conti correnti, gran parte dei clienti cercherà altre soluzioni (si pensi anche all’avvento della moneta digitale europea) costringendo le banche a subire un aumento del costo della raccolta per evitare di essere disintermediate. Le maggiori minacce vengono dalle banche di nuova generazione – banche online – che puntano allo sviluppo dimensionale con l’arma del prezzo; le grandi banche pensano di potersi difendere anche senza agire grazie alla loro maggiore solidità che considerano un vantaggio competitivo; ma è difficile pensare che ciò sia sufficiente.

In realtà le banche dovrebbero tenere conto degli scopi a cui mirano i depositanti-risparmiatori predisponendo soluzioni coerenti. Esse possono offrire conti correnti remunerati grazie a formule contrattuali che prevedono ad esempio la remunerazione delle giacenze medie superiori ad un certo importo, oppure il passaggio di parte di tali giacenze su altri conti di deposito e di investimento. Si tratta di contratti sperimentati in passato; negli anni Novanta i conti correnti con “formule miste” ebbero grande successo. Il cliente definiva un limite minimo ed un limite massimo di giacenza; gli importi che superavano il limite massimo venivano investiti in Bot, come nel “Multi Conto famiglia”, o in azioni, come nel conto “Copernico” della Banca Popolare di Milano, tanto per fare degli esempi dimostratisi a quel tempo rivoluzionari. Qualora tali conti andassero al di sotto del minimo, i titoli venivano disinvestititi. Si pensi anche ai “depositi- abitazione” che consentivano al depositante di ottenere un mutuo a tasso agevolato raggiunta una certa giacenza. Queste formule sono state però in gran parte abbandonate. Sembra che le banche, guardando al proprio esclusivo interesse, si sono dimenticate non solo del “valore del cliente” ma anche del “valore per il cliente”. Ma vi è anche un calo di fantasia del marketing bancario dovuto al consolidarsi di un contesto scarsamente competitivo quale conseguenza dell’aumento del grado di concentrazione.

Una cosa è certa: la vicenda degli “extraprofitti” è esplicativa di condotte che tradiscono le affermazioni dei top manager sul loro effettivo orientamento ai principi della responsabilità sociale di cui sono a parole assertori. E qui si evidenzia il permanere di una cultura manageriale che si dimostra molto fragile ed opportunista perché cedevole a perseguire prima di tutto il proprio interesse. Gli extraprofitti vanno a vantaggio degli azionisti ma comportano anche maggiori benefit, incentivi e remunerazioni per lo stesso management. Se la concorrenza viene meno dovrebbe funzionare almeno la responsabilità sociale.

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