L'opinione

Avevamo la Luna

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Una riflessione sul bisogno attuale di una strategia europea autonoma, capace di valorizzare conoscenze storiche e tecnologie emergenti, anche e soprattutto, con riferimento al ruolo che Italia ed Europa hanno avuto nella corsa allo Spazio e nello sviluppo tecnologico tra anni ’50 e ’60.

Se due indizi fanno una prova, tre richiami fanno una bocciatura.
Mario Draghi, già presidente della Banca Centrale Europea e simbolo della solidarietà tra le diverse condizioni dei Paesi membri con il celebre “Whatever it takes”, per la terza volta – l’ultima proprio l’altro giorno al Politecnico di Milano – ha richiamato con forza i vertici dell’Unione Europea a svegliarsi sul fronte dell’intelligenza artificiale.
Il suo monito è chiaro: mentre Stati Uniti e Cina corrono, producendo conoscenza e tecnologia, l’Europa continua a dormire.

In particolare, osserva Draghi, dobbiamo convincere i giovani che anche in Europa si possa fare innovazione, con regole flessibili e adeguate, capaci di adattarsi a un contesto in cui gli algoritmi cambiano più volte nell’arco della stessa giornata.
Serve una politica industriale, non il generico ritornello del “più mercato”: Stati Uniti e Cina vincono proprio grazie a una strategia di sistema — anzi, sarebbe più corretto dire, grazie a una strategia dello Stato.

Qualche anno fa Mariana Mazzucato, con il suo libro Lo Stato Innovatore, ci spiegò quale ruolo avesse avuto nello sviluppo della Silicon Valley lo stato americano concertando investimenti nella ricerca di base, organizzando una domanda di tecnologie avanzate, e ottimizzando la relazione fra ricerca, università e aziende.

Sono questioni che Draghi conosce bene e che da tempo prova a indicare ai vertici europei. Non bisogna rassegnarsi al dominio dei monopoli, avverte, ma occorre superare i limiti dell’attuale mercato con una pressione congiunta di Istituzioni e società: solo così si potranno ridurre le distanze, attenuare l’impatto — che rischia di essere devastante — dell’intelligenza artificiale sul lavoro, e costruire un modello continentale di creatività industriale.
Ma perché, allora, tutto questo ancora non esiste in Europa?

Sarebbe interessante recuperare memoria e ricostruire l’origine di questo buco nero che sta zavorrando lo sviluppo del vecchio continente.

Dovremmo tornare agli anni 50, quando proprio in Europa, accanto alla IBM americana sorgevano grandi realtà informatiche come la Bull francese e la Olivetti Italiana, che aveva in incubazione il progetto del primo personal computer, la mitica Programma 101.

Poi, con i primi successi sovietici nello spazio — lo Sputnik nel 1957 e, soprattutto, il sensazionale volo di Gagarin nel 1961 — arrivò la risposta americana. Nel maggio di quello stesso anno, Kennedy pronunciò un celebre discorso in cui chiamava a una mobilitazione dell’intero Occidente per superare l’URSS nella corsa alla Luna (si veda Avevamo la Luna, M. Mezza, Donzelli).

In breve tempo tutto il comparto tecnologico occidentale si allineò alla nascente NASA. Nel 1964 l’Olivetti, quattro anni dopo la morte di Adriano, fu costretta a cedere la propria divisione informatica alla General Electric, nell’indifferenza generale.
I democristiani erano concentrati sul piano per la casa nel Mezzogiorno; i comunisti consideravano le ambizioni politiche del gruppo di Ivrea come un potenziale concorrente; i socialisti, con Antonio Giolitti, tentarono di nazionalizzare quel patrimonio industriale, ma furono bloccati dal capo della Fiat, Vittorio Valletta.

Fu lui, tramite il suo consulente Bruno Visentini — che, in un caso esemplare di conflitto d’interessi, era al tempo stesso avvocato della Fiat e presidente dell’IRI in quota repubblicana — a recapitare al governo un messaggio che non lasciava spazio a repliche: “L’informatica non è per noi.”

Da quel momento, le ambizioni tecnologiche italiane vennero progressivamente smantellate. Si trovò il modo di neutralizzare il CNEN, l’ente che aveva realizzato la prima centrale elettronucleare d’Europa, attraverso una pretestuosa campagna anticorruzione contro il suo presidente, Felice Ippolito: un’operazione orchestrata — udite udite — dai socialdemocratici vicini all’allora capo dello Stato, Saragat, per accuse tanto fragili quanto grottesche, tra cui un rimborso indebito e un taxi preso a Cortina.

Anche l’Agenzia Spaziale guidata dal comandante Luigi Broglio — l’unica in Europa ad aver già messo in orbita quattro satelliti — venne improvvisamente chiusa.

Così, pochi anni dopo, venne smantellato anche il primo laboratorio di genetica applicata del professor Buzzati-Traverso; e, infine, fu bloccata — tra contorsioni e rivalità dei cacicchi politici dell’epoca — l’espansione dell’industria della plastica, che avevamo contribuito a inventare grazie al Nobel di Giulio Natta nel 1963.

Insomma, davvero avevamo la Luna, come Italia e come Europa. E in pochi anni, nel silenzio generale di quei giganti politici che oggi rimpiangiamo — da Fanfani a Moro, da Togliatti ad Amendola, da Nenni a La Malfa — tutti scelsero di voltarsi dall’altra parte.

Non meglio andava in Francia, con un De Gaulle che proprio non capiva queste frontiere scientifiche o in Germania, alle prese con i problemi della convivenza con il blocco sovietico. Nascevano imprese innovative, ma gli Stati non sostenevano una strategia che non poteva basarsi solo sul mercato. Anzi, le politiche industriali concorsero a fare terra bruciata incentivando con grandi risorse investimenti americani che usavano i capitali europei per acquisire e chiudere le aziende competitive.

In un notissimo saggio dell’epoca, La sfida americana, il direttore del settimanale francese L’Express, J.-J. Servan-Schreiber, scriveva che “gli europei pagavano gli americani perché loro ci comprassero”, denunciando la desertificazione della nascente industria informatica — numérique, in francese.

Da questo cratere senza vita si arriva alle convulsioni del passaggio di secolo. Anche qui emerge uno “Sputnik” che spinge gli Stati Uniti a militarizzare l’intero comparto tecnologico occidentale: l’11 settembre 2001.

Lo racconta con disarmante sincerità Peter Thiel nel suo saggio del 2004, Il momento straussiano, in cui definisce la nuova missione della Silicon Valley: il combattimento ideologico.

La libertà, scrive il fondatore di PayPal e di Palantir — l’azienda leader nelle tecnologie predittive a uso militare — è innanzitutto sicurezza, e la sicurezza è garantita dalla tecnologia, che deve poter orientare anche la politica, senza escludere, se necessario, la leva della forza.

È questa la matrice di un complesso tecnologico che si è mosso con coerenza lungo il crinale della confisca dei dati, per assicurare agli apparati militari statunitensi una visione completa e preventiva di ciò che accade — e sta per accadere — nel mondo.

Non a caso i vertici delle principali aziende tecnologiche — Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Apple — non solo si precipitarono alla cerimonia di insediamento del presidente Trump, ma alcuni di loro arrivarono persino a giurare come ufficiali delle forze armate a stelle e strisce.

Della Cina non parliamo per l’evidenza dei fatti: il capo della commissione di programmazione digitale è direttamente il presidente della repubblica cinese, nonché segretario generale del partito comunista Ji Xi Ping.

Farsi largo in questa compagnia non è affatto semplice, né indolore. Bisogna rischiare, e accettare di farsi anche male, suggerisce Draghi: occorre mettere in campo gli ultimi scampoli di ambizione, autonomia e indipendenza che ancora possediamo, e — ed è questo il passaggio più difficile — concertare una strategia europea capace di individuare modelli e spazi di sviluppo non imitativi.

Già Adriano Olivetti, fin dagli inizi della sua avventura informatica nella prima metà degli anni ’50, intuiva la posta in gioco: “l’informatica è un fenomeno che decentra sul singolo individuo una potenza di calcolo capace di modellare comportamenti e decisioni”.

Questa è la chiave per una politica industriale plurale, dotata di un suo motore interno: semplificare l’accesso alle fasi di addestramento e personalizzazione dei sistemi, che saranno sempre più orientati ai singoli utenti.

La politica e le istituzioni devono creare il contesto per questa fase, definendo — come insiste Draghi — un quadro legislativo flessibile, anzi liquido, in grado di agganciare rapidamente le frontiere dell’innovazione, adattando principi e valori all’evoluzione dei sistemi. E devono sostenere un lavoro “artigiano” di applicazione creativa che indirizzi la straordinaria potenza di calcolo già disponibile in Europa — e in particolare in Italia — verso i nostri grandi giacimenti di linguaggi storici: testi, opere artistiche, reperti archeologici. Sono materiali preziosi per trasferire senso alle macchine.

Come diceva un grande manager americano dell’informatica, “in ogni produzione industriale arriva il momento in cui la potenza di massa deve trasformarsi in eleganza individuale — ed è lì che arrivano gli europei, guidati dagli italiani”.

Whatever it takes.


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