Il caso

AssetProtection. Sicurezza in azienda: la sindrome da Grande Fratello

di Alberto Buzzoli, Socio ANSSAIF – Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria |

I controlli correlati alla sicurezza vengono troppo spesso percepiti come un potenziale strumento per cogliere in fallo e colpire singoli individui

La rubrica AssetProtection, ovvero Riflessioni su sicurezza e terrorismo, a cura di Anthony Cecil Wright, presidente Anssaif (Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria). Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

In questa rubrica nel corso dell’anno abbiamo cercato di ricostruire il complesso puzzle della sicurezza. E collocando tassello dopo tassello, dovrebbe oramai essere chiaro che le componenti principali dell’immagine che si è venuta a configurare riguardano gli aspetti umani piuttosto che quelli correlati alla tecnologia. Più nel dettaglio, l’occhio dovrebbe cadere dove il colore è più acceso: sulla consapevolezza delle persone.

Questa, a sua volta, deve poi essere declinata in ulteriori sfumature in grado di rappresentarla nella sua totalità: studiare il contesto, comprenderne i rischi, saperne valutare gli impatti, determinare delle soluzioni adeguate per contenerli, conoscendo le operazioni da compiere, anche in modo preventivo, dopo averle sperimentate praticamente attraverso simulazioni ed esercitazioni.

Abbiamo anche discusso molto sulla questione della resistenza delle persone: le stesse che dovrebbero sostenere la sicurezza, spesso boicottano in modo incosciente l’intero processo rigettandone alcuni principi fondamentali.

Risulta certamente interessante la sindrome da Grande Fratello, ovvero il timore particolarmente diffuso, secondo il quale le attività ed i controlli correlati alla sicurezza vengano complessivamente percepiti come un potenziale strumento utile, non tanto per evidenziare le aree di miglioramento di un’organizzazione, bensì per cogliere in fallo e colpire singoli individui.

Sembra quindi prevalere un’esigenza di privacy, tra l’altro in alcuni casi difficilmente compatibile con un contesto professionale, persino al di sopra della perdita del posto di lavoro. Già, perché non ci stancheremo mai di ricordarlo, un incidente della sicurezza può comportare un danno economico diretto o indiretto (in termini di reputazione) più elevato rispetto alle risorse (economiche) disponibili.

Tra l’altro la giurisprudenza ha di fatto delineato alcune tendenze, avvalorando l’urgenza dell’uno o dell’altro ambito (privacy individuale e controlli), ma certamente è ancora prematuro ritenere che la linea di confine sia chiara. Anche le relative sentenze emesse, in alcuni casi, hanno prodotto moti altalenanti che rendono il piano di lavoro decisamente instabile.

Premettendo che i principi sui quali si articola la vigente normativa sulla privacy sono certamente fondamentali, se le persone lavorano in buona fede ed in modo diligente, seguendo pedissequamente le istruzioni impartite, perché hanno l’esigenza di proteggere in modo così energico le operazioni che compiono in ambito professionale?

Non sarebbe forse motivo di vanto quello di condividere con trasparenza il proprio operato, garantendo così all’organizzazione la possibilità di risultare veramente efficace anche sui temi connessi alla sicurezza? Perché non percepiscono il meccanismo di controllo come una tutela individuale e collettiva piuttosto che come un’arma da cui difendersi?

Il secondo tema sul quale è necessario riflettere in modo ancor più approfondito riguarda invece il pericolo della decodifica aberrante. Quando si entra nel campo della linguistica, un assunto di fondamentale importanza da chiarire è la differenza che intercorre tra significante e significato.

Persino la stessa parola può essere interpretata da due persone differenti in modo profondamente diverso, in base alle moltissime variabili in gioco (di natura psicologica, sociologica, culturale, ecc.). Sappiamo anche che molti settori professionali hanno creato veri e propri linguaggi proprietari spesso incomprensibile all’esterno.

Non ci sarebbe quindi da stupirsi se lo stesso termine sicurezza per un addetto acquisisse un determinato valore mentre, in assenza degli opportuni chiarimenti, per un dipendente che si occupa di altro, acquisisse ben altro significato. Diciamo anche che alcune professioni vengono ritenute altamente specialistiche, mentre altre riguardano attività giudicate alla “portata di tutti”.

Questo, ad esempio, accade nell’ambito della comunicazione. Ed è proprio un peccato perché quando ci si concentra, anche allocando le risorse economiche, per lo sviluppo ed il potenziamento della sicurezza, si tende a credere che la comunicazione interna, ai vari livelli aziendali, sia il passaggio forse più semplice, quello che merita meno investimenti. Ed invece ecco che viene innescato uno dei meccanismi di disinvestimento più pericolosi: l’aberrazione. Perché non concentrarsi quindi su un numero inferiore di regole e controlli, aumentando la posta sulla loro diffusione attraverso un’efficace campagna di comunicazione interna?

C’è veramente da augurarsi che diventi una pratica diffusa, perché sentir parlare di ingenti capitali investiti per realizzare sistemi anche sofisticati e poi dover notare le espressioni stralunate di persone che non ne comprendono il senso, non è proprio un bello spettacolo.