Sicurezza

AssetProtection. Perché il cashless in Italia ancora non funziona

di Alberto Buzzoli, Socio ANSSAIF – Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria |

I paesi del Nord Europa ci insegnano che il proibizionismo non è la strada maestra per fa decollare i pagamenti virtuali

La rubrica AssetProtection, ovvero Riflessioni su sicurezza e terrorismo, a cura di Anthony Cecil Wright, presidente Anssaif (Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria). Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

L’argomento è caldo in questi giorni e si apprende dai media che Danimarca e Svezia sono oramai pronte ad abbandonare le carte vecchie banconote in favore di strumenti di pagamento elettronici. Al contrario in Italia, il Governo intraprende una strada difficile da inquadrare nel contesto di sviluppo dell’economia digitale, aumentando il limite dei pagamenti in contanti da mille a tremila euro. Proprio l’esperienza del Nord Europa ci insegna che il proibizionismo non è certo la chiave per l’applicazione di un modello differente: infatti se formalmente i pagamenti in contanti non sono mai stati limitati in questi paesi, in modo sostanziale il cashless è diventato realtà.

Ma guardando con un po’ più d’attenzione entro i confini nazionali, è doveroso chiedersi quali siano i fattori che da una parte attraggono verso il portafogli digitale ma che dall’altra producono una resistenza ancor più forte all’abbandono delle banconote. Dato di fatto è che alcune attività commerciali sono ancora sprovviste di POS, mentre i gestori di altre, nonostante ne dispongano, storcono il naso di fronte all’acquisto con bancomat e carte di credito per piccoli importi. Non parliamo poi della reazione dei professionisti all’obbligo di accettare pagamenti elettronici di importi superiori ai 30 euro (D.Lgs 179/12).

Pregio ed insieme difetto principe dei pagamenti elettronici è certamente la tracciabilità delle operazioni. E non bisogna pensare solamente alla questione del nero, ma anche, in ambito di privacy, all’elevata profilazione delle abitudini di acquisto che potrebbe scaturire da un sistema tutto digitale. C’è poi da prendere in considerazione la questione del costo degli strumenti di pagamento. Mentre nel modello orientato alla carta, il costo di produzione del denaro è a carico dello Stato, nel modello digitale il costo viene ripartito tra venditori e acquirenti. I primi sono soggetti al pagamento di un canone fisso annuo – seppur in forte diminuzione, quando non del tutto eliminato dai services provider – e di una quota percentuale di servizio relazionata all’importo del pagamento. Gli acquirenti invece si devono dotare di carte di pagamento ancora soggette ad una quota di servizio annua: sono ancora veramente poche le soluzioni gratuite proposte.

Infine il tema della sicurezza attanaglia tutte parti coinvolte, per l’effettiva vulnerabilità di alcuni sistemi, per la carenza di consapevolezza degli utenti, della quale ancora non si capisce bene quali siano le istituzioni responsabili, ma anche per una porzione di informazione, a volte un po’ sensazionalistica, che grida all’hacker attack, senza riuscire a contestualizzare la notizia.

In questo ambito restano poi ancora da definire la posizione ed il ruolo delle compagnie assicurative, che per il momento sono coinvolte in modo veramente marginale nel meccanismo di cessione, almeno parziale, del rischio. Lungi da me la volontà di risultare semplicistico sull’importante questione della sicurezza, ma se è questo l’elemento che frena la diffusione degli strumenti elettronici di pagamento, allora l’uomo della preistoria non sarebbe dovuto uscire dalle caverne per non confrontarsi con gli innumerevoli rischi dell’ambiente esterno.

Nell’evoluzione storica della nostra nazione ci siamo forse abituati a pensare e discutere troppo senza poi concludere quasi nulla, oppure sussistono alcuni elementi di valutazione di cui nessuno vuole parlare? Uno degli elementi poco considerati è per esempio il timore diffuso di non poter controllare le spese, in parte per le implicazioni psicologiche correlate all’utilizzo degli strumenti di pagamento elettronici, in parte per le effettive difficoltà tecniche di accesso ai portali di home banking: intendo rammentare che le percentuali di diffusione delle connessioni a internet nel nostro paese ancora non si approssima minimamente ad una soglia apprezzabile.

Se la tecnologia senza fili già propone interessanti evoluzioni, grazie alla diffusione dei sensori NFC, che permettono di effettuare pagamenti avvicinando lo smartphone al POS, e nuovi modelli di scambio del contante elettronico ipotizzano transazioni one to one (da un utente all’altro) senza passare per l’istituto di credito – anche se in senso telematico -, la resistenza al cambiamento è ancora forte. E forse non è questo il caso di tentare di interpretare ciò che sta accadendo solamente con i numeri.