Lettera aperta al Presidente Renzi. Agenda Digitale e sovranità: l’Italia non sia l’anello debole della UE

di di Raffaele Barberio |

Al premier chiediamo di definire una strategia che abbia a cuore la sovranità nazionale, la sicurezza dei cittadini, lo sviluppo dell’economia in chiave definitivamente digitale, ovvero in chiave di 'economia digitale del nostro Paese'.

Italia


Raffaele Barberio

Caro Presidente Renzi,

il suo arrivo nel Palazzo ha dato una scossa salutare alle istituzioni e alla politica.

L’azione di ringiovanimento delle facce da lei promossa non ha precedenti per intensità e qualità e sta rimuovendo i campioni dell’immobilismo che hanno penalizzato il Paese per decenni.

La velocità delle sue decisioni spiazza burocrati e apparati della Pubblica Amministrazione che hanno fatto della lentezza una strategia vincente.

Il tutto in un contesto segnato dal suo successo elettorale che rende più forti le sue proposte e gli obiettivi conseguenti. Un successo elettorale che ha anche proiettato in Europa un ruolo inedito dell’Italia come interlocutore di rilievo, capace di condizionare le scelte strategiche della UE nella prossima legislatura europea. Infine, grazie ad una di quelle coincidenze che aiutano solo gli audaci, tutto ciò coincide con l’avvio del semestre di Presidenza italiana della UE che decorrerà il primo luglio prossimo.

Partiamo quindi dall’Europa.

 

 

Le radici dell’Agenda Digitale

 

Nel giugno 2010 la Commissione Europea lancia la Digital Agenda.

È un piano senza precedenti promosso, come è noto, per ridare competitività all’Europa e rilanciare gli investimenti innovativi nella UE, fissando obiettivi cadenzati sino al 2020.

Tutti i Paesi, compreso il nostro, si allineano, ma a differenza di altri qui da noi è successo poco o nulla in questi quattro anni.

O meglio, quel poco che è accaduto sta prendendo la forma di progetti verticali privi di una strategia di sistema-Paese.

Perché?
Per tante ragioni, ma anche perché abbiamo commesso errori di valutazione.

In passato abbiamo pensato che la molla della modernizzazione digitale consistesse nel parco installato dei computer, poi siamo passati per la polemica infinita delle poche connessioni e della debolezza della rete (abbiamo invece copertura adeguata e lo scarso uso è semmai dovuto alla mancanza dei servizi della PA), quindi abbiamo seguito l’interrogativo amletico sull’uovo e la gallina, sulla preminenza dei servizi o della rete, un dubbio che non ci ha portato da nessuna parte. Insomma una grande melina a “centrocampo”, che non ha mai portato la palla in zona gol.

 

 

Il ruolo dell’AgID

 

Se guardiamo alla governance dell’Agenda digitale italiana, tutto è partito con l’accorpamento di alcuni enti del settore in un’unica Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), che è stata costituita nel giugno 2012 con l’unificazione di quattro strutture in una. Ad essa è seguita a ottobre 2012 la nomina di Agostino Ragosa a direttore. Poi sono subentrati vari accadimenti: dallo spostamento di competenze sul digitale dal tavolo interministeriale (5 ministeri coinvolti) alla Presidenza del Consiglio, alla nomina a giugno 2013 di Francesco Caio a Commissario di governo per l’Agenda digitale per soli nove mesi.

Nel frattempo hanno iniziato a prendere corpo almeno tre progetti già avviati, peraltro, negli anni precedenti: a) Identità digitale, b) Anagrafe digitale e c) Fatturazione elettronica (quest’ultimo parte ufficialmente domani).

 

 

AgID: progetti senza una strategia di sistema

 

Quelli avviati sono progetti importanti, ma nello stesso tempo carenti, perché a vincere è stato ancora una volta un approccio fondato su soluzioni verticali chiuse in singole applicazioni.

La modernizzazione digitale non può essere la somma algebrica di singole operazioni, quand’anche singolarmente di successo (come ci auguriamo che siano).

Occorrono strategie nazionali, che guardino ai servizi essenziali della PA e che, vorremmo aggiungere, peschino anche tra quanto non espressamente richiamato dalla Digital Agenda europea, ma che è ormai patrimonio delle operazioni quotidiane: dal cloud e i datacenter all’internet delle cose, fino alla stampa 3D e all’impetuoso affermarsi dei droni.

Ma, per il momento, centriamo la nostra attenzione sulla PA, perché rappresenta la madre di tutte le battaglie.

Fintantoché la PA non accetterà i pagamenti online dei cittadini, rendendoli obbligatori come unica forma di riscossione, difficilmente si determinerà quel processo inarrestabile di modernizzazione digitale di cui il Paese ha bisogno e che l’Europa ci chiede in nome del comune destino che lega i suoi 28 Stati membri.

 

 

Dove sono le resistenze?

 

È vero che vi sono resistenze da parte dei cittadini e che pesa l’analfabetismo digitale, come qualcuno ha osservato?

Ma se questo Paese è stato capace di traghettare 60 milioni di italiani dalla TV analogica alla TV digitale, con  uno switch-off così possente da far evocare l’apertura del Mar Rosso di Mosè, non è possibile pensare che vi siano problemi di resistenze della pubblica opinione o di analfabetismo digitale. Quando si è voluto, le soluzioni si sono trovate. Né vale la solita tiritera della mancanza della rete. L’infrastruttura nel Paese c’è. La copertura c’è. E agli ostinati gufi occorre ricordare che vi è in parallelo la soluzione del broadband per famiglie e PA con ampiezze di banda ragguardevoli e già disponibile in tutta Italia, comprese le vallate alpine e i rifugi in quota. Insomma il digital divide è superato e non può essere più invocato come un tappo che impedisce la trasformazione digitale.

Ecco perché in tanti (imprese e cittadini) reclamano una strategia digitale del sistema-Paese.

Ed è questo che si aspettano dalla politica.

 

 

Che fine faranno i nostri dati?

 

L’Identità digitale o l’Anagrafe digitale, per citare due dei tre progetti di cui tutti parlano, sono senza dubbio obiettivi di grande valore.

Ma quando avremo digitalizzato tutte le identità dei nostri cittadini ed avremo un’anagrafe unica digitale, questi dati saranno protetti adeguatamente?

Quando avremo realizzato l’Anagrafe digitale degli italiani con una centralizzazione dei dati, questi dati saranno posti su cloud nazionali o esteri?

O saranno dati in pasto a multinazionali che li useranno per tutti gli scopi possibili: dallo sfruttamento commerciale al controllo da parte di agenzie di Stati esteri (NSA docet)?

E i datacenter che ospiteranno i dati dei cittadini italiani saranno monitorati dallo Stato, con convenzioni che obbligano società italiane ed estere, che operano in Italia con strutture poste sul territorio nazionale, o saranno affidate a società estere (con impianti in Paesi lontani), alcune delle quali hanno ben dimostrato come fare per eludere qualsivoglia vincolo di legge (a partire dagli obblighi fiscali) che le rende di fatto non perseguibili?

In Germania, ad esempio, i bandi pubblici possono essere pubblicati solo su siti web della PA tedesca e questi devono essere ospitati per legge su cloud nazionali. Infine nessun documento di gara può essere pubblicato su piattaforme condivise, pena la decadenza. Una strategia, quella tedesca, che nel proteggere i dati nazionali ha portato ad un incremento di aggiudicazione di gare pubbliche a favore di imprese tedesche.

Il che fa sorgere ovviamente più di un dubbio.

 

 

L’AgID prigioniera del Comma 22

 

Ma il punto centrale è anche un altro.

L’Italia digitale ha fatto poco e le “dimissioni” di Agostino Ragosa rischiano di rappresentare una sorta di Comma 22 della pubblica amministrazione digitale.

Come dire: “…sino ad ora AgID è stata messa nella condizione di non poter operare e dal momento che non ha operato il suo direttore deve prendere atto della propria insufficienza e dimettersi“.

Dall’ottobre 2012 l’AgID è rimasta ingessata sia con il Governo Mario Monti che con quello di Enrico Letta, e lo stesso Ragosa è stato posto nella impossibilità di agire: prima problemi di governance, frammentata tra più ministeri, poi i ripetuti rilievi della Corte dei Conti, quindi l’arrivo del Commissario Francesco Caio e il suo repentino abbandono dopo soli 9 mesi, e per finire il sacrificio di Ragosa, che rimane in carica per l’ordinaria amministrazione.

Ora tutti in attesa dell’emanazione del bando per il nuovo direttore dell’Agenzia, cui seguirà la selezione tra i contendenti che si presenteranno. Nella migliore delle ipotesi passeranno altri 3-4 mesi, il che vuol dire che saremo a oltre due anni dalla costituzione dell’AgID, senza che sia accaduto granché.

 

 

La partita dei Fondi UE

 

Nel frattempo, saremo in pieno semestre di Presidenza italiana della UE. Un’occasione utile, se ben sfruttata, ma che, in questo contesto, potrebbe anche generare poco nel settore del digitale.

Se poi allunghiamo la vista ai finanziamenti europei troviamo una posta in gioco rilevante nelle dotazioni della programmazione europea 2014-2020.

Si tratta di risorse ingenti, parte significativa delle quali andrà a progetti ICT e IT.

Un fiume di denaro che è oggetto da mesi di una negoziazione tra coloro che vogliono dirottarne il grosso sui tavoli decisionali di Roma e coloro che premono per una frammentazione territoriale delle competenze che dia piena autonomia alle Regioni.

Un fiume di denaro che non lascia insensibile la politica e che a livello locale può rappresentare un discreto volano di finanziamento del sistema dei partiti e dei centri di potere clientelare locali, di cui tutti o quasi hanno bisogno.

Un fiume di denaro appetibile, infine, se si considera che l’informatica, come si sa, si maneggia meglio della sabbia e del cemento delle grandi opere, crea meno scalpore dello Stretto di Messina e può accontentare tutti in base alle distribuzioni di potere locale.

 

 

I nemici del digitale

 

Da tempo andiamo dicendo che il ritardo dell’Italia digitale non è determinato dalla scarsa sensibilità della politica, che è troppo analogica e che non ha compreso i poteri taumaturgici della rete.

Non è vero, non vi è alcun problema di evangelizzazione. E non occorre convincere alcuno.

La politica, in senso lato, ha ben capito la capacità dirompente della Rete e della sua economia.

Il problema è semmai che la politica, dietro sollecitazioni esterne, ha deciso di segnare con un immobilismo senza pari ogni azione in favore della modernizzazione digitale.

E allora vi è un nemico del digitale? Un grande drago che si oppone ad ogni modernizzazione?

No. Non c’è un solo nemico.

I nemici del digitale sono tanti, esterni ed interni al palazzo. Ne citiamo solo alcuni.

Il primo nemico esterno al Palazzo sono gli stessi dipendenti della PA.

Temono il nuovo, perché li pone in una condizione di perdita di controllo sulle procedure che li ha resi sempre forti rispetto agli avvicendamenti periodici della politica: come dire “…i politici cambiano, io sono invece sempre qua e da qua tutti devono passare“. Una regola che vale nelle Regioni come nei Ministeri.

Il secondo nemico esterno è la criminalità organizzata che trae molte delle risorse di cui si nutre proprio dal sistema degli appalti pubblici.

È quindi ben lungi dal sostenere una penetrazione nel digitale i cui effetti devono essere quelli della ottimizzazione della spesa e del miglioramento di qualità dei servizi preesistenti.

 

 

Il nemico più grande: il ruolo delle multinazionali

 

Vi è poi un nemico interno al Palazzo che non si vede e non si acchiappa.

È un nemico infido che si nutre della mancanza di strategie nazionali, le strategie necessarie a rafforzare e sviluppare l’economia del Paese e a proteggere la sua sovranità nazionale, a partire dalla tutela dei dati dei suoi cittadini.

È un nemico prende la forma di quelle società che continuano a fare affari straordinari in assenza di politiche e strategie nazionali sull’Italia digitale.

E perché sono gli unici a continuare a fare grandi affari?

Perché le PA centrali e locali devono comunque acquistare servizi, i Comuni hanno bisogno di porre i propri dati in cloud che assicurino risparmi in linea con la Spending Review. Insomma mi riferisco alle grandi multinazionali che grazie ai vuoti decisionali indicati, raccolgono così tante commesse, firmano così tanti accordi con le associazioni dei Comuni e con i singoli ministeri, da rendere impossibile un punto di ritorno ovvero di salvaguardia dei nostri dati quando avremo (sperabilmente) una strategia nazionale integrata dell’Italia digitale.

Sono esse responsabili di ciò?

No, la colpa è solo nostra. In più, questi soggetti non sono nemici del digitale, ci mancherebbe, anzi ne sono paladini e alfieri al punto tale che chiunque si metta in opposizione ad essi rischia di essere additato come un oppositore dell’innovazione.

Sostengono le startup, sponsorizzano tutte le iniziative in materia promosse da tutti i ministeri, intervengono in convegni importanti a fronte di una assenza crescente delle nostre società nazionali, governano le associazioni di settore in seno a Confindustria (che come è noto dovrebbe essere l’associazione degli imprenditori italiani). E così può spesso capitare che all’estero le società italiane dell’industria digitale siano rappresentate dal CEO di una società americana, che risponde quindi ad un cruscotto decisionale totalmente avulso dalle strategie nazionali italiane e, al contrario, coniugato alla perfezione alle strategie globali dell’amministrazione americana in tema di economia digitale, che come è noto riesce ad interpretare le esigenze della sua Industry.

 

 

Di quale economia digitale parliamo?

 

Insomma quando si parla di economia digitale, bisogna dichiarare di quale economia digitale vogliamo parlare, perché quella italiana va coniugata con gli interessi europei e non con la strategia americana che punta all’affermazione della sola economia digitale americana sul resto dei mercati.

Verrebbe, per la verità, voglia di affermare che ciò di cui parliamo accade solo in Italia, perché in altri Paesi come la Francia, la Spagna o la Germania non è considerato ammissibile consegnare lo sviluppo digitale del Paese a interessi di altri Paesi.

Ma, si sa, la storia italiana nelle relazioni internazionali si è spesso avvitata sulle norme lasche che hanno consentito ad altri Paesi di fare qui quello che altrove non sarebbe loro consentito.

Del resto la scelta sull’Italia non guarda solo al nostro Paese.

L’Italia avrà pure una certa consistenza di mercato, ma risulta essere (è il caso di ricordarlo) poca cosa. Quella di cui parliamo è, invece, una scelta che punta all’Italia come anello debole dell’Europa per condizionare nei prossimi 2-3 anni gli interi impianti regolatori della UE a protezione delle imprese e dei consumatori europei.

E così, dove non si può in altro modo, ci pensa la lobby.

 

 

Prima il programma e poi i nomi

 

Caro Presidente Renzi non vorremmo che questo accadesse.

Non vorremmo che l’Italia si trasformasse in un Cavallo di Troia usato per colpire al cuore l’Europa.

Nelle ultime ore, sull’onda dell’eccezionale risultato registrato alle elezioni europee dal PD, lei ha reclamato un nuovo ruolo dell’Italia e, a chi ha timidamente indicato in Enrico Letta un nome spendibile, ha risposto che non si parte dai nomi, ma dai programmi, dalle cose da fare: nomina sunt consequentia rerum.

Per queste stesse ragioni sarebbe molto utile applicare lo stesso metodo al processo di modernizzazione digitale del Paese.

Il problema non è o meno liberarsi di Ragosa, per assicurare discontinuità. Al contrario, è necessario stabilire ciò che vi è da fare, e lì che si registreranno le vere discontinuità.

Però attenzione, perché se gli obiettivi sono quelli del Piano Nazionale Banda Larga temo che la mira sia fuori bersaglio.

Inutile raggranellare realizzazioni di spezzoni di rete a fibra ottica (Modello A), senza una strategia.

Inutile prevedere contributi ad operatori privati per la realizzazione della rete (Modello B): sarebbe un modo per alterare il mercato in contrasto con le norme UE ed in presenza di un’AgCom il cui operato (decisioni sui prezzi definite a posteriori) allontana qualsiasi interesse degli investitori internazionali ad investire in Italia.

Inutile incentivare la domanda con contributi all’acquisto di terminali tecnologici (Modello C): siamo un Paese con quasi 20 milioni di persone dotate di smartphone nella tasca della giacca o in borsetta (sarebbe un favore ai venditori di hardware, anche qui, quasi tutti americani).

Per queste ragioni le chiediamo di definire una strategia nazionale italiana (su cloud, datacenter, protezione dei dati dei cittadini italiani, per citare alcune delle priorità), che abbia a cuore la sovranità nazionale, la sicurezza dei cittadini e della nazione, lo sviluppo dell’economia nazionale in chiave definitivamente digitale, ovvero in chiave di “economia digitale del nostro Paese” sulla strada del Single Market europeo.

 

 

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