Scorporo, segmentazione geografica e prezzi stabili sulla rete in rame: la ricetta per rilanciare le TLC in Italia

di di Dario Denni (promotore de L’Osservatorio della Rete) |

Telecom Italia non è più la gallina dalle uova d'oro su cui altri possono costruire il proprio business, mentre una vera concorrenza passa attraverso solo investimenti di tutti i player sul mercato della fibra.

Italia


Dario Denni

Telecom Italia ogni anno è obbligata a pubblicare un listino per dare agli altri operatori un accesso regolamentato alla propria rete in rame. Questo perché, da ex monopolista, Telecom Italia ha la proprietà della rete e vanta ancora una quota di mercato importante su base nazionale sebbene in alcune aree, prevalentemente nelle grandi città, questa dominanza non c’è, quantomeno non nelle percentuali correnti, le cui effettive entità andrebbero accertate da un’analisi di mercato dell’AgCom.

 

Nell’ambito di analisi di mercato, l’AgCom è chiamata a fissare i prezzi di accesso all’ingrosso a quella rete in rame che tutto il mondo sta via via abbandonando per passare alla fibra ottica. Tenere in piedi quella infrastruttura è infatti costoso e distrattivo rispetto al budget che ogni anno si dovrebbe investire per ammodernarla. In sostanza è un asset che guarda al passato, mentre il futuro poggia sulla fibra.

 

Tuttavia sono troppo pochi gli investimenti in rete di nuova generazione e una regolamentazione dovrebbe – tra le altre cose – tenere in considerazione anche gli aspetti di impatto macroeconomico.

Lo sanno bene gli operatori alternativi a Telecom Italia, che da anni dichiarano di voler costruire reti di nuova generazione (in fibra), ma nei fatti, più convenientemente, cercano di avvantaggiarsi instancabilmente dell’unbundling o bitstream, focalizzandosi sull’acquisto a prezzi vantaggiosi delle connessioni in rame da Telecom Italia, per rivenderlo ai propri clienti.

 

Se addirittura quei prezzi si abbassano, gli operatori alternativi troveranno sempre più conveniente continuare a comprare rame, piuttosto che costruire proprie reti in fibra. Ed ecco quindi che continuiamo ad avere guasti che pesano sull’ecosistema generale, litigi in Antitrust, ricorsi su ricorsi al TAR, sentenze del Consiglio di Stato, per non citare i vari e inconcludenti tavoli di concertazione sorti e cancellati negli ultimi anni. Sono tutte esternalità negative di una regolamentazione pensata per il rame, che non è a prova di futuro.

 

Vale la pena di ricordare che i principali operatori alternativi a Telecom Italia fanno tutti capo a proprietà estere: Fastweb è svizzera, Wind è russa, Vodafone è inglese e H3G, impegnata sul solo mobile, è cinese. Gli altri hanno quote talmente modeste, da risultare ininfluenti su certe determinazioni. E’ bene sottolinearlo non per discriminare alcuno, ma per far capire che dietro certe scelte, in tutto il mondo, giocano anche interessi nazionali molto forti. E specialmente ora, in un momento in cui molte determinazioni arrivano da Bruxelles, l’Italia potrebbe trovarsi a giocare un ruolo molto dimesso e remissivo di fronte ai grandi campioni nazionali che scendono in campo ben difesi dai governi europei più forti.

Ma ritorniamo agli investimenti. Anzitutto, andrebbe rivisto il sistema attuale per cui i mercati dell’accesso sono considerati in chiave nazionale. Per far questo non si possono ovviamente usare i dati dell’Osservatorio Between che danno Telecom Italia in condizione minoritaria, ad esempio solamente al 25% a Milano. Sono dati onorevoli e degni di rispetto, validissimi in termini indiziari. Ma è chiaro che  si rende necessaria un’analisi dell’AgCom per vedere se nelle zone più ricche ci siano già molti operatori in competizione oppure no. Quindi chiedere la segmentazione geografica a Milano e a Roma, tanto per cominciare, sarebbe opportuno per ridare fiato a Telecom Italia – non più costretta a cedere il suo rame a prezzi orientati al costo (cosa che non avviene quasi da nessuna parte in Europa). A maggior ragione in un momento in cui l’operatore storico si è impegnato in importanti investimenti in VDSL2, un rame accelerato dalla fibra, che comunque garantisce velocità elevatissime.

 

Una volta che si è stabilito che nei mercati ricchi, dove ci sono più operatori infrastrutturati, Telecom Italia non è costretta a dare accesso a prezzi orientati ai costi, a quel punto tutto l’apparato di prezzi messo in piedi legittimamente da AgCom sul rame, è destinato a crollare.

Con la recente delibera della scorsa settimana, l’Autorità ha abbassato i prezzi del bitstream (accesso a una frequenza sul doppino di rame) che porterà notevoli vantaggi agli operatori alternativi. Mentre Telecom Italia, incumbent con in mano l’infrastruttura di rete del paese, precipita mestamente in borsa, sottolineando il già pesante indebitamento, aggravato chiaramente da questi tagli decisi da AgCom.

 

Come si vede c’erano forse molte cose da fare prima e che non sono state fatte. La prima sarebbe stata attendere le determinazioni di Bruxelles, che a settembre, ovvero tra qualche settimana, darà le metodologie di quantificazione dei prezzi del rame. La seconda sarebbe stata aprire un’analisi dei mercati conseguente alla comunicazione di avvio di scorporo avviato da Telecom Italia (ma l’Autorità invece ha preferito un’irrituale preistruttoria, fortunatamente molto rapida).

 

Non c’è dubbio che in questa confusione, una delibera come quella votata da AgCom e con quei prezzi, va in netto contrasto con gli orientamenti di Bruxelles. Ci auguriamo che in futuro si tenga conto anche dell’interesse nazionale, in un settore così strategico, come accade in tutti gli altri paesi europei.

Del resto, Telecom Italia non è più la gallina dalle uova d’oro su cui altri possono costruire il proprio business, mentre una vera concorrenza passa attraverso solo investimenti di tutti i player sul mercato della fibra ben al di là degli annunci di facciata di queste settimane.