Partita chiusa all’AgCom. Le ragioni di un equivoco strumentale sul ruolo della Rete: ora necessario riflettere sui perché

di di Raffaele Barberio |

Altro che New York Times, sarebbe meglio fermarsi e ragionare a freddo su quanto è accaduto, per individuare i driver attraverso cui affermare nuovi metodi da parte delle istituzioni e nuovi atteggiamenti da parte della Rete.

Italia


Raffaele Barberio

Partita chiusa sull’AgCom, dopo settimane al fulmicotone.

Intanto è finita per i candidati. Una partita lunga, troppo lunga per alcuni di essi (che hanno cominciato a prepararla un anno fa), intensa per altri (che l’hanno concentrata in poche settimane), routiniera per qualcuno (che ha mandato il proprio curriculum come se dovesse partecipare ad un concorsone del Ministero), inaspettata almeno per uno, che si è visto inserito nella lista chiusa dei papabili nelle ultime 24 ore.

Ora abbiamo un nuovo consiglio AgCom che opererà nei prossimi 7 anni, anni che cambieranno la scena delle comunicazioni elettroniche.

Il metodo di scelta dei commissari è stato affidato ai partiti, come da prassi.

L’elemento imprevisto è stato, però, quello di un dibattito crescente nelle ultime quattro settimane e che si è sviluppato su internet con le modalità tipiche della rete: microfono a tutti, discussioni aperte e a volte accese, iniziative organizzate.

Un moto crescente che ha dato una gran bella botta all’oligarchia dei partiti già suonata dalla sventola di Grillo e del suo movimento.

Partiti disorientati, in cerca di verginità prima che scatti la nuova campagna elettorale, che hanno risposto per bocca dei leader in vario modo.

Ci sono poi stati parlamentari (quasi tutti appartenenti a formazioni molto minoritarie) che all’interno del Parlamento hanno cavalcato la linea della critica ai partiti e alle loro scelte verticistiche, richiamando il valore della competenza e della trasparenza.

Erano in 80 a scrivere al Presidente Gianfranco Fini per richiedere il rispetto di queste prerogative, quindi in 34 a fare dichiarazione di voto sanculotta a favore del presunto candidato della rete Stefano Quintarelli alla carica di Presidente dell’AgCom.

Ma a votarlo al momento della conta in aula erano solo in 15.

Dal canto loro i segretari di partito, che prima hanno cercato un accordo stretto (2 PDL e 2 PD, con presidente scelto da Mario Monti) poi allargato per negoziare l’intero pacchetto delle varie nomine in corso (AgCom, Rai, Garante privacy), hanno dovuto fare ritorno all’accordo stretto originario, per portare a casa il massimo risultato possibile (qualunque nome, tanto più se indicato da partiti minori – UDC o Lega Nord – per essere eletto doveva poter contare sulla maggioranza PD-PDL.

Fino al 1° giugno.

Ed era un profilo di AgCom di buona qualità.

Poi la pressione lobbistica di chi era rimasto fuori dalla short list ha generato i mostri dell’ultima ora e anche l’UDC, per non essere pizzicata dal suo elettorato come incapace di difendere le proprie posizioni (in politica, e non solo, farsi rispettare è fondamentale) ha ritenuto di dover esprimere un moto d’orgoglio reclamando il proprio rappresentante.

Nel frattempo si è registrato il caso inedito di un segretario di partito come Antonio Di Pietro che ha dichiarato ufficialmente il proprio sostegno parlamentare all’autocandidato Quintarelli. Quest’ultimo, da canto suo, ha parlato a più riprese di una sua candidatura sostenuta da alcuni partiti del Terzo polo. Aggiungendo di aver capito di non avere alcuna chance da questo schieramento quando ha sentito dire a Pierferdinando Casini  “…che non si fa dettare la linea da Internet…“.

Altro che candidato della Rete.

E qui sorge uno dei tormentoni dell’intera vicenda.

Il tutto parte il 13 maggio scorso con un articolo di Massimo Sideri sul Corriere della Sera che lancia quella di Quintarelli come una candidatura “reclamata a gran voce dal web che si mobilita”.

In effetti, il titolo era un po’ galeotto.

Non era ancora accaduto nulla, ma l’uscita dell’articolo al mattino fu seguita, poche ore dopo, dall’apertura delle danze, prima su Twitter, quindi a fine mattinata da Facebook, infine alle 14,30 di quella stessa domenica con il lancio della sottoscrizione di appoggio al nome di Quintarelli sul sito Firmiamo.it (un sistema di raccolta firme forte di newsletter interne indirizzate ad oltre 1.400.000, che sono state utilizzate per promuovere la candidatura di Quintarelli in rete).

Ma anche qui qualche ombra rimane: vengono raccolte oltre 11.000 firme in circa 24 ore e nelle quattro settimane successive appena un altro migliaio di firme.

Singolare. Tanto più se si considera che in occasione della raccolta di firme per l’appello in favore di Agenda Digitale era stato raccolto un numero di firme, pur sempre minoritario, ma almeno doppio.

A quel punto è partita l’operazione sul Candidato della Rete, con una campagna di comunicazione splendida, ben organizzata, che ha mobilitato dalla grande testata nazionale al piccolo quotidiano di provincia.

Insomma si è creato il caso. Peraltro con caratteristiche da manuale. Un personaggio ignoto ai più, se si esclude la cerchia ristretta di alcuni ambienti internet, che viene reclamato da moltissime persone: un marziano che tutti possono cavalcare o usare per scompaginare le carte.

Esattamente quello che è successo.

Ciò che ha colpito molto è stata la convinzione totale da parte dei sostenitori di Quintarelli dell’ineluttabilità della sua nomina.

Una forza straordinaria di convinzione sulla scelta divina del candidato.

Una virtuale Marcia su Roma, di un manipolo di casti retaioli unti dal Signore.

A beatificare la scelta, su tutto, la definizione di candidato della Rete: definizione inutilmente contestabile, non pesabile in alcun modo, ma certamente usabile immediatamente e pronta per essere sbandierata a mo’ di clava.

Sulla vicenda i sostenitori di Quintarelli sono stati così bravi da coinvolgere addirittura il New York Times, con un articolo a firma di Eric Pfanner. Si tratta di un giornalista specializzato in Media policy, che per diletto scrive anche di vini e che proprio un mese prima era stato a Negrar in provincia di Verona, luogo di nascita dei Quintarelli, per scrivere una serie di articoli sull’Amarone del Valpolicella stilando un ranking dei produttori che marcava al primo posto Giuseppe Quintarelli (“…guru del Valpolicella…”, ma in Italia sono tutti guru?)

Il fenomeno di questa candidatura è stato, in sostanza, molto interessante per l’architettura del sistema organizzativo e della campagna di comunicazione, ma quanto ai contenuti è stato un vero e proprio disastro.

Il concetto stesso di “Candidato della Rete” si è rivelato il punto più pericoloso, perché la rete non può candidare nessuno.  

La rete è come una strada su cui transitano alti, bassi, grassi, magri, pedoni, automobilisti, camionisti, cristiani e protestanti, opinioni differenti, punti di vista contrapposti.

La visione puerile di un candidato della rete contrapposto al regime di palazzo (che, sia chiaro, non ci piace per ragioni opposte) crea una condizione di piazza virtuale neoperonista, fatta di urla virtuali in cui si mescolano, con effetto marmellata, tutti i possibili distinguo, tutti i dettagli delle singole opinioni, in nome di un postulato che non ammette opinioni discordanti e che considera la tua volontà come ampiamente rappresentata dal loro candidato.

Addirittura anche Luca De Biase ha sostenuto come la posta in ballo fosse la stabilità della democrazia.

Roba da paese sudamericano.

Insomma una modalità che espone al rischio di fondamentalismo digitale che non lascia spazio al confronto.

Le radici del fondamentalismo sono proprio qui, nelle letture di ogni fenomeno che vedono solo il bianco e il nero, i buoni e i cattivi, i cow-boy e gli indiani, i pirati e gli ammiragli della Corona.

Ci sono invece opinioni differenziate e ruoli spesso distinti che devono prevedere e lasciar spazio a precisi distinguo, lasciando chiunque nella condizione di esser libero di prendere o scartare il buono o il cattivo che sta in ciascuna posizione.

Per quanto ci riguarda, non abbiamo accettato questo metodo e abbiamo fatto di tutto per evitare che si affermasse un principio del genere.

Un metodo e un principio che fa solo danno alla rete, squalificandone ogni istanza e relegando il web a qualcosa di urlante e prevaricante.

Per queste ragioni abbiamo avanzato a metà maggio i termini, a nostro modo di vedere, della questione, formalizzandoli qualche giorno dopo in una precisa proposta (“Nomine AgCom: Operazione Trasparenza, Competenza, Distanza dalla politica. Ora o mai più“).

Ora il consiglio AgCom è stato nominato.

A noi non piace il modo con cui si è proceduto alle nomine, ma sono tante le cose che non vanno in questo Paese che dobbiamo cambiare al più presto possibile se vogliamo diventare competitivi.

L’epilogo?

Qualcuno vuol fare causa per invalidare le nomine AgCom.

Ma le cause al TAR, in vicende come questa, sono roba da Guelfi e Ghibellini. Una realtà del passato, un’Italia dei campanili che mal si adatta alla reattività, alla velocità e alla concretezza dei tempi in cui viviamo.

E poi non portano a nulla.

Sono atteggiamenti pre-politici.

Molto simili alle liti da riunione di condominio.

Se si guarda alle settimane passate, sembra che lo scontro sia tra un fronte di politici ormai zombie e fuori dal mondo, da un lato, e una Rete pura e dura dall’altra (che esiste solo nella testa di una sparuta minoranza che sembra voler sempre parlare a nome di tutti).

C’è, va ribadito, chi non si riconosce né negli uni, né negli altri.

C’è, infatti, una terza sponda, che è quella della Rete reale, con le sue complessità e le sue articolazioni, che rappresenta perfettamente il mondo reale nel mondo delle istituzioni, delle imprese, delle famiglie, ma che aggiunge velocità di comunicazione, efficienza dei servizi e, nel tempo libero, condivisione immediata con tutti.

Io appartengo a questa Rete, assieme a milioni di persone. E ne sono ben lieto.

Ora guardiamo avanti!