Frequenze Tv: revocare il beauty contest? Un gravissimo errore

di di Vincenzo Zeno-Zencovich (Ordinario di Diritto Comparato - Università di Roma Tre) |

Occorre invece chiedere un adeguato contributo economico. Ma non utilizzare le aste come modo occulto di tassare l’innovazione tecnologica.

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Vincenzo Zeno-Zencovich

Da più parti il neo-ministro per lo Sviluppo economico viene invitato a revocare la gara con la quale si stanno assegnando le autorizzazioni per lo svolgimento della televisione digitale terrestre (il c.d. beauty contest).  E’ opportuno avvertirlo che si tratterebbe di un gravissimo errore sotto due profili:

 

1. Palese illegittimità: La gara è già in corso; numerose imprese – fra cui due quotate in borsa – vi stanno partecipando. Esse sono titolari di una situazione giuridica qualificata: la revoca del bando arrecherebbe loro un grave danno (investimenti pianificati, acquisizione di programmi, assunzioni) di cui inevitabilmente chiederebbero il risarcimento allo Stato. Ma vi è molto di più: il beauty contest, non solo poggia su precisi atti di legge (e quindi il Parlamento dovrebbe abrogarli) ma soprattutto è costruito sua una delibera dell’AGCOM concordata, fin nei minimi dettagli, conla Commissione Europea. Sarebbe illegittimo che il Ministero ponga nel nulla un atto dell’Autorità, ma a dir poco strano che un governo “europeo”, come suo primo significativo atto, getti nel cestino quel che ci è stato chiesto di fare, e rapidamente, a Bruxelles.

 

2. Quale “sviluppo economico”?: Si afferma che lo Stato starebbe “regalando” un bene pubblico come le frequenze, in netto contrasto con la recente asta per le frequenze sulla banda 800 MHz che ha portato in cassa quasi 4 miliardi di euro.  Premesso che in tutti i paesi europei le frequenze per il digitale terrestre sono state assegnate direttamente agli operatori esistenti oppure tramite beauty contest, il vizio di fondo sta nell’idea – totalmente anti-scientifica e metafisica – di considerare le frequenze come un “bene” al pari del suolo, o dell’acqua. Le frequenze non esistono in natura. Sono solo la misura della propagazione di segnali nell’etere. Una frequenza non è un “bene pubblico” più di quanto lo sia la rotta aerea Roma-Milano, oppure la licenza della farmacia di Belmonte di Sotto. In realtà quel che lo Stato “vende” non è una “frequenza” ma il diritto di svolgere una attività economica con determinate modalità tecniche che impongono ed assicurano la non interferenza con e da altre imprese. Se davvero le frequenze fossero un “bene pubblico” si dovrebbe cominciare a fare cassa con tutti noi che le usiamo per aprire il cancello o la macchina a distanza; per arrivare a chi le usa per trasmissioni satellitari.

 

Tutto gratis, dunque? Ovviamente no.

Occorre chiedere un adeguato contributo economico. Ma non utilizzare le aste – come avviene in Europa – come modo occulto di tassare pesantemente le imprese di un settore, sottraendo loro ingenti risorse le quali potrebbero essere invece investite in innovazione e qualità dei servizi.

 

Si può fare molto nel campo delle frequenze: in primo luogo liberandole dai “frequency-squatters” che ne fanno un uso totalmente inefficiente. Recuperando bande inutilizzate attualmente attribuite a (non)usi militari. Promuovendo le nuove tecnologie wireless. Progressivamente uniformando i contributi amministrativi. Introducendo  la piena neutralità tecnologica e dei servizi. Ma non considerando le imprese del settore come pecore da tosare a zero in prossimità di un duro inverno finanziario.

Si confida che il dott. Passera  sappia cogliere il senso del sostantivo del suo Ministero: Sviluppo (e non depressione) economico.