NewTv: ovunqueTv. La Tv everywhere e on demand. Davanti alla crisi, cambiano i modelli di business e le abitudini degli utenti  

di di Andrea Materia |

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Fancast

§§§ Nei prossimi giorni circa 5000 utenti del gigante americano Comcast – un goccia d’acqua nell’oceano dei 24 milioni di sottoscrittori dei servizi di TV via cavo forniti dall’operatore e dei 15 milioni iscritti ai molteplici pacchetti di connettività Internet – si metamorfizzeranno in abbonati-zero di TV Everywhere. Ovvero, avranno accesso in larga banda alla programmazione dei canali top del bouquet pay TV gestito da Comcast, incluse alcune delle realtà finora più riottose a mettere online puntate complete dei loro show. Comcast spera di espandere l’operazione su scala nazionale entro Natale.

 

In estrema sintesi, il concetto è: chi è abbonato negli States alla TV a pagamento [che da noi è in primis via satellite e digitale terrestre; lì è principalmente via cavo con un po’ di satellite], potrà seguire le sue emittenti anche sul web, quindi “Ovunque” (Everywhere), e on-demand. Senza costi aggiuntivi. Chi non è abbonato alla pay TV, beh, avrà le sue ottime ragioni, ma non partecipa gratis al banchetto su web; se vuole, dovrà pagare il download dei singoli episodi in stile iTunes. O molto più probabilmente cercherà altre alternative di intrattenimento.

 

A far la parte del leone sotto il versante contenutistico Time Warner, dentro con i canali TNT e TBS (ovvero vagonate di polizieschi e medical drama), a testimoniare la fiducia incrollabile nel progetto espressa a più riprese dal CEO Jeff Bewkes. Della partita anche AETN (History Channel e un paio di milardi di documentari), Scripps Networks (quelli di Food Network), la CBS e Rainbow Networks (cinema d’autore classico e contemporaneo, fiore all’occhiello il Sundance Channel).

 

L’enfasi sulle premiere e sulla presenza di canali che finora non offrivano la propria programmazione in streaming non è solo propaganda, è una delle scommesse chiave. Per accattivarsi i portafogli degli americani e convincerli a tenersi stretto l’abbonamento a Comcast, non basta offrire on-demand gli archivi, servono serie TV ancora inedite sui monitor dei pc (un tempo si diceva sul teleschermo…). In sostanza tornare alle origini della pay TV – contenuti di grido in esclusiva e in anteprima rispetto all’offerta in chiaro – e trapiantarlo dai vecchi palinsesti lineari nel nuovo ecosistema mediatico del “sempre disponibile on-demand”. Sempre disponibile attraverso TV Everywhere, si intende.

 

Non è una missione semplice. Sebbene Comcast possa vantare già 10.000 show in VOD via cavo da traghettare automaticamente su questo mastodontico VOD via broadband (e rispetto agli esordi nel 2002 è un’enormità: all’epoca partirono con appena 750 ore complessive di VOD) non è “tutto”. Non è neppure lontanamente “tutto”. Mancano all’appello innumerevoli film e telefilm e speciali e documentari e programmi sportivi, esclusi in virtù di antichi contratti a lungo termine per la cui scadenza naturale bisognerà attendere parecchio.

 

Time Warner’s Chairman Jeff Bewkes talks about the TV Everywhere initiative

La seconda scommessa, di natura squisitamente tecnologica e tuttavia fondamentale alla riuscita di TV Ovunque, è sopravvivere indenni ai software di autenticazione. Ora, qui si parla di un giardino chiuso: chi non paga non entra, chi paga deve dimostrarlo digitando login e password. Anche Netflix funziona così. Può sembrare antipatico nell’era del guardo gratis, ma a ben vedere è una delle più logiche soluzioni per monetizzare la NewTV e quadrare il cerchio. Un servizio adeguato agli standard 2.0 per gli abbonati = dollari digitali di valore equivalente ai vecchi dollari analogici in tasca alla galassia di corporate che finanzia la nostra quotidiana fame di entertainment.

 

Delegare agli ISP il compito di esattori e tesorieri dell’industria non è l’unica soluzione, così come le piattaforme di pay TV non sono mai state l’unica forma di fruizione dell’audiovideo neppure ai tempi della OldTV (o vogliamo negare l’esistenza primigenia dei network generalisti supportati solo dalla pubblicità?), ma è una soluzione che doveva prima o poi passare dalla teoria alla pratica. Con TV Everywhere si testa il concetto in grande stile. E per tanare i “portoghesi”, l’unica soluzione è crittare alla perfezione i codici d’ingresso.

 

Più facile in teoria che nella pratica. Infatti all’inizio per accedere a TV Everywhere si dovrà passare da Comcast.net o dalla sua emanazione social networkosa Fancast.com; questo però non consente di inglobare, per dirne una, i contenuti dei partner di TV Everywhere syndicati su YouTube o su Hulu, che fino a prova contraria sono le destinazioni predilette da ogni internauta americano videofilo.

 

Ai due punti interrogativi principali (programmazione attraente a sufficienza e autenticazione) vanno poi aggiunti i nodi tuttora irrisolti dell’iniziativa. Ad esempio l’estensione al mobile 3G del servizio, che per il momento è solo una speranza sulla carta; con buona pace dei tifosi in vacanza o in viaggio o in ogni caso fuori casa che sognano di non perdersi neanche un istante dei loro playoff preferiti.

 

Escluso pure il simulstreaming, ovvero la trasmissione online di fiction ed eventi in contemporanea con quella TV. Presumo non riguardi i canali sportivi, che vivono di diretta, ma sia un limite – giustificato dalla paura di consumare troppa banda – tagliato su misura per i seriali drammatici e le sitcom. L’abbonato di TV Everywhere potrà guardare sul web le puntate andate in onda sulla OldTV solo a distanza di alcune ore, in taluni casi alcuni giorni. Non è una prospettiva piacevole, e non conquisterà abbonati.

 

E infine, la pubblicità. Hulu piace anche perchè è sgombro di spot. Questo avviene, ne abbiamo parlato di recente, più per costrizione che per volontà, ma è innegabile sia un motivo di fascino. Su TV Everywhere invece sembra che verrà replicata la stessa identica quantità di inserzioni della tradizionale messa in onda. Quanti altri punti-simpatia togliamo?

 

§§§ Da quelle premium a quelle gratuite, la disfida delle piattaforme sembra essere diventata il tema caldo dell’estate. Nel subuniverso del free, gli ultimi giorni hanno segnato la ritirata strategica di Joost dal settore (il videoportale che voleva aggredire YouTube ma non ha mai superato i 2.5 milioni di visitatori unici al mese ha silurato l’amministratore delegato, licenziato circa 80 dei 100 dipendenti, fondamentalmente volatilizzato 45 milioni di dollari di venture capital incassato nel 2007 dai creatori di Skype e altri investitori di grido, e ora spera di riconvertirsi in service per attività di “white label”, ovvero appalti per grandi aziende interessate a distribuire video sul web), mentre l’altrettanto ben finanziato Veoh si è neppure troppo discretamente messo in vendita al miglior offerente. Anche qui a rimetterci un gruppetto di ricconi americani, quindi non c’è da versarci sopra troppe lacrime. Si tratta dell’ex-boss Disney Michael Eisner e della Goldman Sachs, che in Veoh hanno depositato dal 2005 a oggi più o meno 70 milioni di dollari. Ora vorrebbero recuperarli; non a caso la base d’asta per Veoh pare partirà proprio da 70 milioni di bigliettoni verdi. Tra i potenziali acquirenti si mormora di Yahoo e Time Warner, entrambi ancora assenti dal panorama dello streaming. Arduo discernere il vero dal fumo.

 

A differenza di Joost, Veoh ha saputo fidelizzare nel tempo un pubblico considerevole, sebbene con ogni probabilità inferiore ai 25 milioni di spettatori al mese autocertificati. E tuttavia alcuni blogger USA riportano perdite di 6 milioni di dollari nel 2008, in discreta misura legati alla causa legale intentata due anni fa da Universal Music Group per violazione di copyright ( la stessa Universal Music Group che è pappa e ciccia con Google, tanto da aver concepito insieme l’imminente YouTube dei videoclip VEVO). Gli introiti pubblicitari sarebbero in crescita, ma evidentemente non abbastanza.

 

Morale della favola: più si va avanti, più si crea il vuoto intorno al duopolio YouTube/Hulu, rispettivi simboli dei due alternativi e insieme complementari modelli base di business della NewTV. Non c’è molto da ricamarci sopra, è così che sono andate le cose. GoogleTube ha saputo gestire in maniera formidabile il time-to-market e il suo iniziale vantaggio competitivo per imporsi quale standard de facto del video sharing gratuito, Hulu ha i contenuti forti. Ci sarà sempre spazio per decine, centinaia, migliaia di competitori minori dedicati alle infinite nicchie di interesse, ma diventa impresa miracolosa lanciarsi all’assalto della platea di massa ghermita da YouTube e Hulu.

 

Si intende, quanto sopra vale per il mondo anglosassone. L’Europa è ancora una partita tutta da giocare. In teoria. Forse. Beh, leggete sotto…

 

§§§ C’è la conferma ufficiale di Variety, e non esiste nulla a Hollywood più istituzionale di Variety: Hulu sbarca in Gran Bretagna a Settembre. Permettetemi di vantarmi. L’avevo annunciato più di un mese fa, e preconizzato come logico sviluppo addirittura a Febbraio, nel primo articolo di NewTV. Ora scusatemi, devo andare a preparare un po’ di pozioni magiche per il mio settimanale raduno degli sciamani mediatici…

   

 

Coming up next in NewTV: una settimana senza news su Hulu…

 

NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.