Mercato media: l’Italia in affannoso ritardo. Bonaccia in attesa delle prossime mosse del legislatore?

di di Andrea Marzulli (Responsabile Area Studi Strategici e di Mercato IEM – Fondazione Rosselli) |

In libreria il X Rapporto IEM (Fondazione Rosselli) sull’industria della comunicazione.

Italia


Andrea Marzulli

A partire da questa edizione (la decima), disponibile da oggi in libreria, il Rapporto IEM sull’industria della comunicazione in Italia affianca all’analisi del mercato dei diversi media nel nostro Paese un raffronto con i principali mercati esteri. La comparazione arricchisce senza dubbio l’analisi del mercato domestico, permette di cogliere le tendenze degli altri Paesi e offre una visione senz’altro più nitida di quali siano in particolare i punti di forza e le criticità dell’industria italiana della comunicazione e dei media.

Certo, come per altri settori, e per l’andamento dell’economia in generale, il confronto è a tratti impietoso per il nostro Paese, tanto che durante la presentazione dei risultati, avvenuta a Roma lo scorso dicembre nell’ambito del V summit sull’industria della comunicazione, il Ministro delle Comunicazioni, che iniziava il suo intervento immediatamente dopo l’esposizione delle principali risultanze dell’analisi di benchmark, ha sentito l’esigenza di premettere “Beh, non va tutto poi così male…”.

Essere un grande Paese, in costante e affannoso ritardo sugli altri grandi Paesi, fa sì che il confronto sia spesso penalizzante, anche oltre misura. Se la comparazione fosse con i Paesi balcanici o dell’Europa orientale, ci sarebbero maggiori motivi di ottimismo (tranne, sicuramente, che per la crescita tendenziale, che lì è ben maggiore…) ma è con i propri pari che l’industria italiana deve confrontarsi per rimanere competitiva.

Il mercato dei media, da questo punto di vista, è oltremodo particolare. Tra il 1997 e il 2005 la spesa delle famiglie in “Istruzione, tempo libero e cultura” (voce sotto la quale sono appostate la maggior parte delle tipologie di spesa dei consumatori in prodotti culturali e media) è passata dal 6,8 al 5,6% del budget familiare (fonte: Istat). Che è come dire che in tempi di vacche magre, una voce di spesa come l’intrattenimento è la prima a rimetterci, quando altre necessità incombono (la voce “abitazione, combustibili ed energia”, ad esempio, è passata nello stesso periodo dal 26,6 al 30,7%…). Durante questo lasso di tempo in Francia, invece, la stessa voce, ossia “loisirs et culture” è passata dall’8,8 al 9,3% della spesa delle famiglie (abitazione e energia incidono per “solo” il 24,7%…). Eclatante il caso del Regno Unito, dove i “leisure services” sono passati dall’11,2 al 13,2%… (e le spese per abitazione ed energia non superano il 19%). Dati migliori all’estero, quindi, e un trend clamorosamente opposto.

E’ evidente, quindi, come un freno strutturale alla crescita dei diversi media sia la capacità di assorbimento della domanda, il cui budget – come ciascuno rileva nella sua esperienza quotidiana – è distratto da bisogni ben più irrinunciabili. Avendo il gusto del paradosso, si potrebbe affermare che il caro-affitti e i mutui per la casa sono i principali avversari dell’acquisto di prodotti culturali. Negli altri due Paesi considerati, invece, sembra che la “società dell’intrattenimento” abbia dispiegato le sue potenzialità, soddisfatto a minori costi i bisogni primari e lasciato disponibili adeguate risorse per il tempo libero. Il tutto (va sottolineato) grazie a un Pil pro-capite più alto di alcune migliaia di euro all’anno.

Questo è quindi il contesto nel quale va ad inserirsi la comparazione internazionale. Ma, se i limiti di spazio del volume obbligano a circoscrivere la selezione dei Paesi di riferimento, si è però cercato di scegliere indicatori significativi per la descrizione dei fenomeni più rilevanti nell’agenda del mercato dei media. Faremo qui di seguito alcuni esempi.

Nel mercato televisivo, in primo luogo, uno degli argomenti più dibattuti è stato quello dello share della Pay TV, successivamente alla pubblicazione dei dati disaggregati, che ovviamente sottende quello dell’efficacia pubblicitaria dei piccoli canali a pagamento e il rapporto con gli inserzionisti. Abbiamo quindi deciso di verificare quest’efficacia attraverso il ben noto Power Ratio (coefficiente che mette in relazione lo share del mercato della pubblicità televisiva con l’audience share, e indica la capacità di far fruttare pubblicitariamente i propri ascolti) per Italia, Francia e Regno Unito (due paesi dove la Pay TV è ben più avanti, in termini di penetrazione e ascolti), rilevando non solo come la visione della Pay TV si consolidi a tassi di penetrazione maggiori (in Italia, cioè, gli ascolti sono ancora molto bassi in proporzione al numero di abbonati, rispetto agli altri due Paesi) ma come l’efficacia pubblicitaria della Pay TV italiana sia ben lontana da quella francese o britannica. Nel nostro Paese, infatti, il Power Ratio della Pay TV si colloca intorno a quota 0,6. Ossia, la quota di mercato pubblicitario (4,1%) corrisponde a circa il 60% della quota degli ascolti (6,9%, dati 2006). In Regno Unito e Francia, il coefficiente sale a quota 0,8 e 0,9, facendo della pay un medium pubblicitario di tutto rispetto, non solo in termini quantitativi, ma soprattutto reputazionali dal punto di vista degli inserzionisti televisivi. Dati che suggeriscono come, nel medio termine, anche in Italia il peso pubblicitario della pay sembra destinato a consolidarsi, ben più di oggi.

Altro mercato audiovisivo di crescente importanza e rilevante peso economico: l’home-video. In questo caso, il raffronto evidenzia non solo le ridotte dimensioni del mercato italiano rispetto a Regno Unito, Francia e Germania (meno di 1 miliardo a fronte di, rispettivamente, 4 miliardi, 1,7 e 1,6) ma anche come il decremento del mercato sia arrivato in Italia con un anno di ritardo, anche in virtù del nostro ritardo sulle nuove tecnologie e sulla diffusione del file-sharing, che ha avuto un grosso impatto su tale decremento. Impatto che ha riguardato, soprattutto, il segmento del noleggio. In Italia, il noleggio risultava avere, fino al 2005, la più alta incidenza sul totale del mercato video fra i grandi Paesi europei, con oltre il 33%. Dovuta principalmente alla bassa capacità di spesa mediale degli italiani e, in parte, al basso indice di frequentazione delle sale cinematografiche (senza tralasciare la pirateria). Con il decremento del 2006, il noleggio ha visto ridursi (al 29%) questa quota, avvicinandosi alle percentuali che si rilevano generalmente negli altri Paesi (tra il 15 e il 20%). E anche se questa tendenza influirà purtroppo negativamente sull’esercizio delle videoteche, è lecito attendersi ulteriori riduzioni, specie quando crescerà l’offerta del noleggio di audiovisivi on line, senza supporto fisico.

Le buone notizie per ultime. Nel mercato cinematografico, che negli anni in Italia ha mostrato un andamento particolarmente altalenante, la frequenza media per abitante rimane particolarmente bassa (1,8 volte l’anno, ben inferiore a Francia, Spagna e Regno Unito e superiore solo alla Germania). Ma la forza del prodotto domestico (l’incidenza dei film italiani sugli incassi totali), seppur inferiore ai dati del 1997, ha sfiorato il 25% nel 2006. Questa percentuale è inferiore a quella francese (dove il prodotto nazionale è tradizionalmente molto sostenuto e forte: il 45%) e a quella tedesca (il 2006 è stato un anno particolarmente brillante per il cinema tedesco) ma è stata la migliore dal 1999 ad oggi. I primi dati relativi al 2007, inoltre, vedono il cinema italiano oltre il 30% sul mercato interno, riducendo il divario nel raffronto con il cinema transalpino, che in patria è sceso sotto il 40%. Per un mercato dato per morto più volte, e dove si è gridato spesso al rilancio per cenni di vitalità ben minori di questo, è senz’altro un segnale positivo, specie se durerà questo ritrovato contatto con il pubblico giovane, il maggior frequentatore delle sale.

Come risulta molto spesso dal rapporto IEM, infatti, sono i media che hanno nei giovani una componente essenziale dei propri utilizzatori (i videogiochi, il mobile content, senza escludere la Pay TV) a mostrare i migliori tassi di crescita. Ma a consuntivo 2006 sono stati ben pochi i comparti a crescere ad un tasso superiore a quello dell’inflazione. Si continua a percepire un senso di bonaccia, specchio dell’andamento complessivo del Paese, in attesa delle prossime mosse del legislatore.

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