Opera o prodotto? La valorizzazione e la diffusione del cinema tra arte e industria

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di Paolo Ciuccarelli (Politecnico di Milano)

Italia


Paolo Ciuccarelli

Da ormai 10 anni al Politecnico di Milano ci occupiamo del progetto degli artefatti comunicativi compreso l’audiovisivo, anche se non specificatamente cinematografico. Lo facciamo in modo sistematico attraverso la formazione, a partire dall’attivazione – 10 anni fa – della Facoltà del Design, all’interno della quale sono stati poi attivati Corsi di Laurea di primo e secondo livello in Design della Comunicazione, un master di primo livello in Movie Design, due dottorati nei quali ci si occupa anche di design della comunicazione. Dal 2000 esiste inoltre un dipartimento di Industrial Design, Arti Comunicazione e Moda (INDACO), attraverso il quale si fa ricerca – supportata da laboratori sperimentali – sui temi della comunicazione in generale e della produzione audiovisiva.

 

Il motivo per cui abbiamo avviato la ricerca Presente e Futuro dell’industria cinematografica tra Stato e mercato è che i cambiamenti che si prospettano – in questa come in altre filiere della produzione industriale di contenuti soprattutto di tipo culturale – lasciano intravedere l’esigenza di competenze nuove, sia sul prodotto cinematografico in sé (digitalizzazione, nuovi linguaggi, nuovi processi) sia sui prodotti della comunicazione che lo sostengono, lo integrano, lo completano, come prodotto industriale e come bene culturale, sia infine sulle modalità di distribuzione e fruizione. Vogliamo quindi capire se e come i profili che noi formiamo possono essere utili in questa fase di transizione e riorganizzazione della filiera, quali caratteristiche eventualmente dovremmo potenziare o implementare, quali possono essere le prospettive di ricerca.

 

Il primo elemento sul quale ci siamo fermati è il rapporto tra arte e industria, centrale tanto per il design, quanto per il cinema italiano.

E’ curioso come la nostra disciplina cerchi da sempre di prendere le distanze da un’idea di design come atto creativo, artistico, estemporaneo, per sostenere invece che, pur nutrendosi voracemente degli stimoli dell’arte, il design è capace di entrare nelle dinamiche industriali e giocare un ruolo attivo, di produrre valore per i clienti di quell’industria.

Il cinema viceversa sembra oggi molto impegnato nella difesa della sua natura artistica, anche con occasionali moti di contrapposizione nei confronti dell’industria. Pochi giorni fa il regista Raoul Ruiz riproponeva l’ormai diffuso slogan “il film non può essere trattato come un frigorifero o un’automobile“: è certo che l’industria del cinema sia un’industria particolare, ma come lo sono molte delle industrie più avanzate, quelle che non possono accontentarsi né di fare sola arte né di fare prodotti commerciali che non abbiano una valenza anche culturale. Noi non possiamo che considerarla una questione di pesi, di rapporti, e non di esclusive: nessun prodotto può fare a meno di trovare un suo specifico status culturale, più o meno pronunciato, mediando tra arte e industria.

 

Muovendo da questo punto di vista, abbiamo approfondito la conoscenza di quelli che sono di fatto i due attori principali del Cinema italiano – l’industria e lo Stato – ancora in cerca di un equilibrio: la prima accusata spesso di non tenere in debito conto lo status artistico del cinema, il suo ruolo culturale; lo Stato, viceversa, ripreso perché preoccupandosi del film come bene culturale non riuscirebbe a tenere nella giusta considerazione la sua natura di bene industriale.

Abbiamo analizzato l’operato di questi soggetti sia in termini quantitativi sia qualitativi, e con particolare attenzione all’azione dello Stato, in quanto soggetto naturalmente più sensibile alla dimensione culturale del prodotto cinematografico e immaginiamo anche al possibile ruolo della formazione.

 

Nel periodo 2001-2005 gli investimenti complessivi nel cinema sono stati pari a 1.288 milioni di euro, ai quali lo Stato ha partecipato per il 33%. E’ dunque soggetto rilevante, alcuni dicono necessario (in senso sia negativo sia positivo), in primo luogo in termini quantitativi.

Questi investimenti nel complesso hanno permesso la produzione di 582 film che hanno raggiunto 98 milioni di spettatori, 13,8 milioni dei quali (14,3%) portati in sala dai 243 film co-finanziati dallo Stato, anzi, dai 155 finanziati che sono riusciti a trovare una via d’uscita verso il pubblico.

In media, i film co-finanziati tra il 2001 e il 2005 portano in sala 94 mila spettatori, il 55% del valore medio calcolato sul totale dei film italiani e delle coproduzioni, pari a 171 mila spettatori.

I film sui quali interviene lo Stato hanno dunque una minore diffusione dei film italiani nel complesso, e quindi anche di quelli gestiti autonomamente dall’industria. E questa della diffusione per noi è sicuramente una delle chiavi di lettura più interessanti e anzi necessaria: è tra gli “obblighi” anche etici e morali del designer quello di far sì che il proprio progetto abbia la maggiore diffusione possibile, possibilmente anche a basso costo, come diceva Eames. Ci viene naturale immaginare quindi che a maggior ragione debba essere interesse specifico dello Stato, oltre che dell’industria cinematografica nel suo complesso, che l’opera, soprattutto quando sia stata riconosciuta di interesse culturale nazionale, abbia la maggiore diffusione possibile.

 

Così non è però, anche storicamente: i film, soprattutto quelli di interesse nazionale circolano poco. Considerando il periodo 1994-2005, che è anche il periodo di riferimento per la nostra ricerca, la maggior parte dei film di interesse culturale usciti raggiunge meno di 50.000 spettatori in sala; un quarto ne raccoglie tra 1.000 e 5.000. L’andamento del finanziamento e quello degli spettatori nello stesso periodo evidenzia che non esistono relazioni particolari tra l’aumento dell’entità del finanziamento e i risultati in termini di diffusione dell’opera di interesse culturale.

 

Abbiamo imparato presto, avendo privilegiato un approccio il più possibile sistemico all’analisi dell’industria cinematografica, che la sala non è l’unico e neanche il principale canale di diffusione del film, rappresentando, dicono diverse fonti, al massimo tra il 28 e il 30% del ritorno. Anche considerano gli altri canali però la diffusione delle opere più interessanti sotto il profilo culturale non cambia: nel periodo ottobre 2003-maggio 07 13 titoli italiani hanno trovato posto tra i primi 200 DVD venduti nel nostro Paese, dei quali 2 erano finanziati dallo Stato, uno per l’interesse culturale, l’altro come opera prima e seconda. Questo in un contesto in cui le vendite di DVD sono raddoppiate dal 2003 al 2004, superando i 12 milioni di pezzi.

Passando alla televisione – che, lasciando da parte altre possibili valutazioni, rappresenta il canale più produttivo in termini di diffusione quantitativa del prodotto cinematografico – la performance migliora ma è ancora limitata: dei 461 film finanziati per motivi di interesse culturale nel periodo 94-06 (altri 73 sono stati finanziati come opere prime e seconde), 140 sono passati in TV nel periodo 1998-2006, il 36,7 % del totale. Una quota analoga, ma nel periodo 2003-2006, è stata diffusa dai canali della televisione satellitare.

Anche considerando gli altri possibili canali di uscita dunque, la diffusione delle opere cinematografiche di interesse culturale rimane limitata.

 

Partendo dall’assunto del rapporto virtuoso tra arte e industria, non potevamo fermarci però agli aspetti quantitativi della diffusione nella valutazione dell’efficacia della filiera rispetto ai film finanziati. Abbiamo quindi verificato come si comportano i film italiani in generale e la selezione operata e finanziata dallo Stato nelle principali occasioni di riconoscimento e ufficializzazione della qualità dell’opera cinematografica: i festival nazionali e internazionali. Focalizzando l’attenzione in particolare su Venezia, Cannes e Berlino, abbiamo rilevato che nel periodo 2003-2007 i film italiani che hanno partecipato sono stati complessivamente 123, dei quali 29 sostenuti dallo Stato. Anche da questo punto di vista, l’industria da sola sembra far meglio di quanto non riesca a fare insieme allo Stato. In realtà si può leggere una strana simmetria, per cui gli attori forti e capaci sul piano industriale, quelli cioè che riescono a produrre buoni risultati in autonomia, sono anche quelli che ricevono la quota parte maggiore dei finanziamenti dello Stato; quando però agiscono in regime di co-finanziamento non riescono più a garantire i risultati che ottengono da soli.

 

Tornando alla diffusione delle opere cinematografiche, in particolare quelle di interesse culturale, e all’attenzione quindi per l’elemento tradizionalmente ultimo (solo in ordine cronologico) nella filiera, il cliente finale, abbiamo analizzato – fedeli all’approccio sistemico – il cambiamento del suo ruolo e le modalità attraverso le quali sta diventando parte attiva della filiera, sebbene ancora in forma limitata ed embrionale.

La prima forma di “attività”, ancorché in gran parte esercitata in forma illegale, è la partecipazione per così dire alla fase distributiva: un eufemismo per parlare della pirateria, speriamo in modo diverso. Lontani dal voler giustificare comportamenti illegali, non vorremmo però neanche chiudere gli occhi davanti a fenomeni che spesso contengono indicazioni utili.

Abbiamo fatto un piccolo esperimento, che, ahinoi, chiunque può replicare: dei 30 film finanziati dallo Stato nel 2005, tra ICN e opere prime e seconde, 28 sono disponibili e facilmente/velocemente raggiungibili attraverso sistemi di filesharing. Parliamo di film usciti al cinema, alcuni dei quali però con risultati assai modesti, ancorché migliori degli anni precedenti, stando alle ultime rilevazioni fatte circa un mese fa. Film che sono stati visti da poche migliaia di persone, e che però sono disponibili per il download: qualcuno si è preso la briga di “rippare” il DVD come si dice in gergo o di riprendere il film in sala e di metterlo in condivisione.

Ci viene il dubbio – a meno di scenari complottisti – che forse in certi casi l’utente finale, ormai dotato di strumenti per operare in certe fasi delle filiere digitali, faccia da sé quando non trova alternative praticabili: Blockbuster non ha in catalogo quegli stessi film, anche considerando l’intero territorio nazionale.

 

Un’altra area di azione praticata dagli utenti finali è quella della partecipazione collettiva nella produzione del contenuto, dallo script iniziale alla realizzazione dell’audiovisivo, con tutti i limiti che questo tipo di processi, quando affidati ad un collettivo esteso, possono avere.

In questo ambito i casi più interessanti sono quelli che cercano di far muovere sullo stesso piano, con la stessa logica, quella dell’Open Source, l’intera filiera, dall’idea iniziale al reperimento dei fondi, dalla produzione alla distribuzione. Non è certo semplice dire come possano essere implementate queste soluzioni nell’industria cinematografica nazionale, ma vale sicuramente la pena approfondirne la conoscenza.

 

Questo delle nuove possibili forme e delle nuove interfacce di costruzione, distribuzione e fruizione del prodotto cinematografico legate alla transizione in atto verso il digitale è sicuramente uno dei primi ambiti nei quali possono esprimersi le competenze di chi viene formato al design della comunicazione. Stante ciò che si dirà in seguito, mi pare in realtà che ci siano altrettante possibilità di contribuire anche sui fronti della promozione, del far conoscere, dello stabilire relazioni tra l’opera cinematografica e suoi fruitori, prima, dopo e durante la sua produzione, anche nella forma analogica. Il percorso della valorizzazione del bene industriale e soprattutto del bene culturale dovrebbe in ogni caso coprire tutta la filiera, che oggi in alcune fasi risulta evidentemente scoperta.