Fusioni e acquisizioni hi-tech: superata la soglia dei 100 mld di euro, ma l’Europa impari a fare i conti con i fallimenti

di Alessandra Talarico |

Europa


Internet

Il valore delle fusioni e acquisizioni nel settore tecnologico europeo ha superato nel 2006 la soglia dei 100 miliardi di euro, il livello più alto mai raggiunto dai tempi del boom delle dot-com nel 2000.

 

Secondo i dati di PriceWaterhouseCoopers, il valore delle fusioni e acquisizioni è stato notevolmente accresciuto da 18 mega transazioni con un valore di oltre 1 miliardi di euro. Su tutte spicca la fusione da circa 8,6 miliardi di euro tra la francese Alcatel e la statunitense Lucent Technologies.

 

Nel 2005, gli accordi top level erano stati 14.

Anche gli investitori private equity hanno fatto la loro parte nel 2006 per incrementare il valore delle fusioni e acquisizioni nel settore tecnologico: il secondo maggiore accordo dello scorso anno è stata infatti l’acquisizione di Philips Semiconductor per 7,4 miliardi di euro da parte del fondo Kohlberg Kravis Roberts.

 

Le società di venture capital, secondo i dati di First Capital, hanno speso nel solo settore internet 219 milioni di euro: numeri ancora marginali rispetto al totale degli investimenti in capitale di rischio – circa 32 miliardi di dollari – ma comunque un segno che la crescita del settore è notevole.

 

Da evidenziare, inoltre, l’accelerazione delle attività nei mercati emergenti come l’India. Il volume degli accordi tra l’Europa e l’Asia, ad esempio, è cresciuto lo scorso anno del 167% con accordi conclusi a vantaggio di entrambe le parti. L’acquisizione da 113 milioni di euro della britannica Azure Solutions da parte dell’indiana Subex Systems è un chiaro esempio di come le aziende del subcontinente stiano diventando seri pretendenti delle aziende hi-tech europee.

 

Nonostante l’aumento di accordi top level, il mid-market è stato nel 2006 un importante driver delle fusioni in campo tecnologico. Circa il 94% degli accordi conclusi nel 2006 è stato valutato tra 10 e 500 milioni di euro.

 

Anche se i titoloni dei giornali, ha spiegato PWC, sono stati dominati dagli accordi tra le web company – uno su tutti, l’acquisizione di YouTube da parte di Google – la vera forza trainante restano le compagnie ‘tradizionali’: Oracle e IBM hanno investito in totale per 8 acquisizioni 8,7 miliardi di euro, contro 1,4 miliardi di Google e eBay.

 

Queste transazioni, tuttavia, sono servite a sollevare interesse verso i siti che sfruttano i contenuti generati dagli utenti, conosciute anche come compagnie web 2.0, che sono tra l’altro molto più economiche rispetto ad altri business tradizionali.

 

“E’ molto difficile costituire una compagnia specializzata in semiconduttori o in software per l’impresa – ha spiegato Barry Malone di Benchmark Capital Europe – bisogna investire almeno 50 milioni di dollari prima di sapere se si hanno prodotti che funzionano”.

Con le web company, invece, già dopo “3 o 4 milioni di dollari si può capire se funziona”, ha aggiunto Malone.

 

Come risultato, ha concluso, molte compagnie di venture capital europee stanno usando la strategia dello “spray and pray“, investendo somme piccole in dozzine di compagnie nella speranza che almeno due o tre funzionino.

 

L’Europa – ha spiegato invece un altro analista – è piena di talento creativo, ma spesso si limita a imitare i prodotti di start up americane che hanno avuto successo, come nel caso di StudiVZ, recentemente acquisita dal gruppo tedesco Holtzbrinck, criticata per essere semplicemente la versione tedesca del celebre sito di social networking Facebook.

 

Sono molte tuttavia, le società americane di venture capital che guardano all’Europa con sempre maggiore interesse, rendendo il mercato molto affollato. Tra queste Sequoia Capital, Highland Capital Partners, Blackstone e Vantage Point.

 

Per quanto riguarda il rischio di una nuova bolla speculativa, come avvenne nel 2000, gli analisti rassicurano che le condizioni di base sono essenzialmente differenti da sei anni fa, quando il settore dava l’idea di un gigante dai piedi d’argilla.

 

Rispetto ad allora, infatti, le introduzioni in Borsa sono state molto meno frequenti e l’indice Nasdaq viaggia intorno ai 2,450 punti, ben lontano dai record fittizi registrati sei anni fa.

 

Ora, inoltre, il pubblico è consapevole di quanto sta accadendo e partecipa attivamente alla crescita del settore, confermando un interesse per il web che supera di gran lunga quello per la Tv o i giornali, che a loro volta sono scesi a patto con il medium occupando ampi spazi con servizi complementari a quelli tradizionali.

 

I prodotti e i servizi destinati agli utenti finali si moltiplicano, con società che hanno fatto della flessibilità una parola d’ordine, giungendo a realizzare modelli di business profittevoli e stabili, tanto che alcune imprese non hanno neanche bisogno di investitori.

 

Nel 2000, infine, si facevano proiezioni circa un possibile cambiamento di atteggiamento del pubblico, le quali stimavano, ad esempio, che “un sito che ha 10 utenti oggi, ne avrà 1.000 il mese prossimo”, spiega Fred Destin di Atlas Venture.

Ora, aggiunge, il pubblico c’è e si fanno proiezioni su come monetizzare questo successo. “Possiamo ancora sbagliare – aggiunge – ma di un 20-30%, non del 100% come allora”.

Per quanto riguarda in particolare l’Europa – conclude – bisogna cambiare atteggiamento e imparare a convivere con le sconfitte.

“Alcune compagnie falliscono. Quando succede negli Usa, la gente dice: ‘va bene, ci abbiamo provato, ricominceremo daccapo’. Ma in Europa si tende a ricordare molto di più un fallimento che un enorme successo”.

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