La debole rivoluzione digitale: il vecchio e logoro modello televisivo sta bloccando le nuove tecniche, ostacolando la digital opportunity

di di Vincenzo Vita (Docente di Scienze della Comunicazione e giornalismo - Università di Sassari) |

Italia


Vincenzo Vita

   

Il “digitale” è il linguaggio del nuovo secolo e prevedibilmente attraverserà lunghi pezzi del nuovo millennio ma rischia di essere sprecato, per tanti motivi. Tra questi, il fatto di essere impropriamente coniugato al ciclo involutivo della televisione generalista.

L’errore principale sta nell’aver coniugato con colpevole pressappochismo il “digitale” con la televisione, chiedendo alla signora dei media, ripiegata pigramente nei suoi riti e nei suoi apparati analogici – opulenti e passivi – di ripudiare se stessa. L’errore è profondo e senza correggerlo non si può sperare in una ripresa della “rivoluzione”. I tradizionali broadcaster hanno fatto fortuna con uno schema produttivo molto redditizio, ma assolutamente statico, costruendo palinsesti per la pubblicità e considerando i fruitori una platea da vendere agli inserzionisti.

 

La nascita di nuovi modelli o di nuovi formati si è progressivamente arenata e la stessa ricerca di strumenti per il consumo più adatti non ha fatto un vero salto. Così, è evidente che il consumatore ha poco interesse a cambiare l’apparato di ricezione se i programmi si assomigliano e la qualità migliore delle immagini e del suono non è evidente, perché lo schermo piatto del futuro digitale è tuttora troppo costoso.

Pensare e far pensare che il digitale sia un affare limitato alla vecchia televisione è l’errore originario, cui non si può rispondere con un’offerta a prezzi politici del decodificatore del segnale (set top box) o con la riconversione free di una TV programmata per divenire nei suoi punti “alti” solo a pagamento.

 

E’ chiaro che il digitale deve essere free, per poter assumere l’aspetto di mutamento dei linguaggi del sistema, ed è altrettanto evidente che servono politiche pubbliche adeguate per la transizione verso la nuova stagione. Ma il cambiamento deve essere innanzitutto sociale e culturale. Riguarda, al fondo, l’economia politica del sistema.

Esiste in Italia una legge (la n. 66/2001) che dava traguardi – il 2006 – e indicazioni piuttosto precise per la fase di passaggio. La legge (fu la prima in Europa) è completata dal successivo regolamento emanato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Ora il processo è stato frenato dal governo e il termine rinviato al 2008. Le previsioni normative esigevano un impegno serrato con le industrie del settore per costruire le premesse della televisione digitale, che non vi è stato. Al contrario, il digitale sembra essere diventato o lo strumento per aumentare artificiosamente il numero delle reti nazionali (per far quadrare i conti delle regole antitrust per la “rete” eccedente i limiti previsti, Retequattro) o un mero aumento di bouquet di programmi per le società più grandi, Rai e Mediaset.

 

Il digitale è diventato, così, un’operazione estetica, senza costrutto produttivo e industriale, senza un’azione culturale tesa a scoprire talenti e protagonisti di una stagione potenzialmente bella e inedita. E’ diventato ancor più la condizione per rendere eterna la concentrazione.

Il vecchio e logoro modello televisivo sta bloccando, dunque, per difendere i propri privilegi, le nuove tecniche. E’ un altro caso, clamoroso, di conflitto di interessi, visto che il beneficiario è un sistema di cui magna pars è il Presidente del Consiglio.

Ecco, allora, che la prospettiva va rovesciata, staccando il “digitale” dalla televisione. Ed ecco che abrogare la legge 112 (la cosiddetta legge Gasparri), ampliando il pluralismo delle idee e delle tecniche, è indispensabile.

Il digitale è il linguaggio della convergenza tra i diversi media e non si risolve esaurendone il potenziale nella televisione. Anche quest’ultima ne utilizzerà gli effetti, ma questi vanno ricercati soprattutto altrove.

 

Insomma, il digitale se non è un modello televisivo, ancor meno lo è del vecchio broadcasting. E’ il modello della società dell’informazione e della conoscenza e solo così, nel transito tra media, funzioni pubbliche, amministrazioni ritrova l’essenza rivoluzionaria.

Il digitale serve per dialogare con la rete della pubblica amministrazione, per entrare in rete, per navigare con il computer e con la stessa rinnovata televisione (e con la radio) nell’universo di Internet.

Il televisore, l’antico e prezioso elettrodomestico dei nostri salotti, va liberato dalla ritualità della televisione generalista (news, contenitori, film, varietà) per immetterlo come terminale nel flusso del nuovo sistema, dialogando con il PC e sostituendolo in talune pratiche più semplici.

 

Il digitale è il luogo fertile dell’eGovernment e si svilupperà davvero se sarà una delle fondamenta della nuova governance, se sarà un tramite tra potere e conoscenza, globale e locale, forma e contenuto della democrazia digitale.

Il digitale è l’esperanto del nuovo cambiamento, legittimando così il segno rivoluzionario che gli è stato attribuito. La convergenza tra i diversi media è in atto e tale tendenza, che conferisce i connotati di base alla società dell’informazione e della conoscenza, avviene parlando di digitale, vale a dire con i numeri e non più (via via) con i meccanismi della fisica. E’ una rivoluzione tecnica, dunque. Non è ancora una rivoluzione sociale.

Il linguaggio digitale è senza tempo, è il dominio della simultaneità, ed è senza spazio, visto che centro e periferia poco hanno a che fare (apparentemente) con la rete. Aumenta , però, la frattura tra chi ha e chi non ha, chi sa e chi non sa.

 

Il digital divide separa il nuovo Nord e il nuovo Sud del mondo. Su oltre 400 milioni di utenti, l’Africa contribuisce con tre milioni di utenti, l’America latina con sedici. New York da solo ha più Internet users di tutto il continente africano e Manhattan dispone di un numero di telefoni maggiore dell’intera Africa nera.

Contro il digital divide va affermata la digital opportunity: la democrazia digitale. Il digitale può tornare ad essere una rivoluzione e, come tutte le rivoluzioni, ha bisogno di un’utopia (la democrazia diretta) e di un protagonista forte in una nuova figura di intellettuale, quello cresciuto nell’ambiente della”rete, con il cervello già interconnesso nel network multimediale.

La scienza è a un passaggio cruciale. E il digitale è un’occasione straordinaria. Le tecniche hanno successo se esprimono la società e interpretano i suoi sogni. Il digitale, rovesciando le cose, è forse il sogno di una comunicazione democratica, nel senso quasi etimologico del termine.

Siamo nella fase forse più delicata della costituzione dei nuovi statuti conoscitivi. Tutto ciò è avvolto dal linguaggio digitale, che vivrà se sarà in grado di assumere la funzione di nuovo alfabeto.

 

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