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Corsa alle “terre rare” negli abissi, Trump sfida la Cina sui fondali del Pacifico

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Con un ordine esecutivo che accelera l’estrazione in acque profonde, gli Stati Uniti puntano alla Clarion-Clipperton Zone dell'Oceano Pacifico, ricca di noduli polimetallici.

Dopo gli accordi con Ucraina e Congo per garantirsi l’accesso alle terre rare, Donald Trump punta ora alle profondità oceaniche. Il suo ultimo ordine esecutivo è un chiaro segnale delle ambizioni “subacquee” dell’ex presidente, decise a spostare il baricentro della competizione globale per le materie prime.

La posta in gioco nei fondali del Pacifico

La storica contesa tra Stati Uniti e Cina sul controllo delle terre rare potrebbe trovare una nuova arena negli abissi marini. Trump ha messo gli occhi sulla Clarion-Clipperton Zone (CCZ), una vasta area tra Hawaii e Messico, dove si concentra una delle più ricche riserve sottomarine di noduli polimetallici. Questi aggregati rocciosi, carichi di cobalto, nichel e terre rare, sono fondamentali per la produzione di tecnologie avanzate e dispositivi elettronici. Secondo le stime, il fondo della CCZ custodisce oltre 500 miliardi di tonnellate di materiali strategici.

Un ordine esecutivo per accelerare la corsa

Con un ordine firmato a fine aprile, Trump ha avviato un’accelerazione decisa verso l’estrazione in acque profonde. L’obiettivo è evidente: spezzare il monopolio cinese sulle materie prime critiche. Tra i primi beneficiari c’è The Metals Company, con sede a Vancouver, che da tempo mira a ottenere licenze operative nella zona. Le azioni dell’azienda sono quasi raddoppiate nel giro di un mese.

Mentre il resto del mondo – Cina in testa – si accaparra le ultime risorse terrestri, Washington tenta un colpo audace: aprire un “fronte marino” per garantirsi l’approvvigionamento di materiali vitali per la difesa e la transizione energetica. Un piano B ambizioso, e in parte disperato.

Una filiera ancora troppo fragile

Nonostante le immense risorse a disposizione, gli Stati Uniti restano vulnerabili. Mancano strutture capaci di raffinare autonomamente le terre rare pesanti, rendendo il Paese fortemente dipendente dalla filiera cinese. Il Center for Strategic and International Studies (CSIS) avverte: le recenti restrizioni all’export imposte da Pechino – che coinvolgono elementi strategici come samario, gadolinio e terbio – potrebbero avere effetti devastanti per l’industria americana.

Il Pentagono ha stanziato oltre 439 milioni di dollari per creare impianti di trattamento interni entro il 2027. Ma, nel breve termine, la domanda rischia comunque di non essere soddisfatta.

Il nodo legale: acque internazionali, diritti incerti

Tuttavia, il piano statunitense si scontra con ostacoli legali di non poco conto. La Clarion-Clipperton Zone ricade sotto l’autorità dell’International Seabed Authority (ISA), istituita dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Gli Stati Uniti, però, non hanno mai ratificato l’UNCLOS, rendendo la loro posizione in quelle acque quantomeno ambigua.

Alcune aziende americane sostengono che, non avendo aderito al trattato, gli USA possano agire autonomamente o attraverso partnership private. Una posizione che rischia di violare le norme internazionali e di alimentare tensioni diplomatiche. L’ISA ha ribadito che nessuno può operare nelle acque internazionali senza sottostare al proprio regolamento.

Nel frattempo, l’incertezza normativa frena gli investimenti. Molti progetti sono sospesi o relegati alla fase esplorativa, in attesa che Washington chiarisca la propria posizione.

L’ambiente paga il prezzo dell’ambizione

Ma i problemi non finiscono qui. L’estrazione in acque profonde solleva preoccupazioni ambientali enormi. La CCZ è uno degli ecosistemi meno esplorati del pianeta, e gli scienziati temono che l’attività industriale possa compromettere habitat fragili e ancora sconosciuti.

Le organizzazioni ambientaliste lanciano l’allarme: dispersione di sedimenti, rilascio di sostanze tossiche, inquinamento acustico. I rischi sono profondi, come l’ambiente che li ospita. Sempre più esperti chiedono una moratoria globale, almeno finché gli impatti ecologici non saranno pienamente compresi.

Diversi Paesi hanno già avanzato richieste formali per sospendere l’avvio delle operazioni nei fondali, temendo che una corsa prematura comprometta decenni di politiche per la tutela degli oceani.

Il Pacifico, nuovo teatro della competizione strategica

Nonostante tutto, il valore strategico del fondo oceanico è sempre più evidente. La Cina detiene già diverse licenze di esplorazione nella CCZ e ha investito massicciamente nella ricerca oceanica. Il recente lancio di un laboratorio sottomarino nel Mar Cinese Meridionale testimonia la portata delle sue ambizioni.

Per gli Stati Uniti, il Pacifico diventa così una nuova frontiera geopolitica: non solo riserva di risorse, ma campo di battaglia nella competizione globale per il dominio tecnologico ed energetico. Resta da capire se Washington riuscirà a colmare il divario o se resterà impantanata tra vincoli ambientali, limiti industriali e incertezze giuridiche.

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