l'analisi

Trump-Biden, la grande democrazia americana nel caos dell’election day

di Fernando Bruno, giornalista e scrittore |

Da queste elezioni si capisce come l’immagine della grande democrazia americana sia stata devastata e sporcata dal quadriennio trampiano.

Scrivo alle ore 17 di mercoledì 4 novembre. Da circa un’ora le agenzie rilanciano il cauto ottimismo dello staff di Joe Biden, legato al lento e progressivo spoglio dei voti pervenuti via posta, dopo che per l’intera mattinata è aleggiata la sensazione di un bis del Presidente uscente Donald Trump.

In attesa di risultati più consolidati e definitivamente confortanti, non ho resistito alla tentazione di sfilare dalla libreria il testo più famoso di Alexis de Tocqueville. Pubblicato in Francia a partire dal 1835, La democrazia in America è – come è noto – il frutto di un lungo “reportage” sul campo, durato nove mesi, il cui obiettivo ufficiale era lo studio del sistema penitenziario americano.

Il clima politico e culturale in cui l’opera matura è presto detto. Siamo nell’Europa della Restaurazione post Congresso di Vienna, che segue alla grande Rivoluzione dell’89 e all’epoca napoleonica. È l’Europa dei moti che puntano a disarcionare le vecchie monarchie appena restaurate e ad introdurre elementi di lenta e faticosa democratizzazione dei sistemi politici. In Francia, le simpatie del giovane aristocratico Alexis de Tocqueville vanno ai liberali e alla loro lotta contro i cosiddetti ultras, condotta con l’obiettivo di consolidare ed estendere le garanzie costituzionali e i poteri del parlamento, strappati a Luigi XVIII nel 1814 ed ora nuovamente in discussione durante il regno di Carlo X (1824-1830).

A maggio del 1831 – quindi pochi mesi dopo quella rivoluzione del luglio 1830 che determina la caduta di Carlo X, l’avvento di Luigi Filippo d’Orléans e la vittoria, invero ancora assai precaria, del liberalismo moderato – Tocqueville ha l’opportunità di compiere assieme al suo amico Gustavo de Beaumont, un lungo viaggio di studio in giro per gli States. Da questa esperienza scaturisce un testo che è una pietra miliare degli studi sulle origini, la natura e i caratteri di una democrazia rappresentativa.

Ecco alcune osservazioni estrapolate dalla densissima prefazione al testo.

“Una grande rivoluzione democratica si sta attuando tra noi: tutti la vedono, ma non tutti la giudicano nello stesso modo. Alcuni infatti, considerandola una novità puramente accidentale, sperano di riuscire ancora a fermarla; mentre altri pensano che niente e nessuno possa più resisterle, perché la considerano il fenomeno storico più continuo, più antico, più duraturo che si conosca. (….) Tutto il mio libro, appunto, è stato scritto sotto l’impressione di una specie di terrore religioso, sorto nella mia anima alla vista di questa rivoluzione irresistibile, che progredisce da tanti secoli, sormontando qualsiasi ostacolo, e che ancor oggi avanza in mezzo alle rovine che essa stessa ha prodotte. (…). Educare la democrazia, rianimare, se è possibile, le sue fedi, purificare i suoi costumi, regolare i suoi movimenti (…) io immagino, così, una società in cui tutti, considerando la legge come opera propria, l’amerebbero e vi si sottometterebbero senza fatica, e in cui, essendo l’autorità del governo rispettata non in quanto divina, ma perché necessaria, l’amore verso il capo dello Stato non sarebbe una passione, ma un sentimento ragionevole e tranquillo. Quando ciascuno avesse dei diritti e la sicurezza di poterli conservare, verrebbe a stabilirsi tra tutte le classi una fiducia sincera e una sorta di reciproca condiscendenza, lontana sia dall’orgoglio che dalla bassezza”.

È un testo del 1835, scritto dal giovane rampollo di una illustre casata di antica nobiltà normanna. Per coglierne grandezza e chiaroveggenza bisogna naturalmente leggerlo con gli occhi dell’epoca. 

La fine della grande democrazia americana

Eppure, per quanto si possa e debba storicizzare, rileggendo quelle parole lontane, non si sfugge alla sensazione di quanto l’immagine della grande democrazia americana sia stata devastata e sporcata dal quadriennio trampiano.

Sulle responsabilità dei democratici e sui loro fallimenti, sulla perdurante assenza di un welfare degno di questo nome anche dopo le due legislature Obama, sul birignao delle dinastie democratiche incapaci di parlare a quella parte della middle class bianca precipitata nell’ultimo decennio sulla soglia dell’indigenza, si sono spesi fiumi di inchiostro.

Resta il fatto che l’era Trump – sempre che sia auspicabilmente finita –  ha dato spazio e respiro al peggio che si agita nell’anima più nera della grande democrazia americana. E’ un Paese la cui pancia profonda ai primi segni dell’epidemia si mette in fila non già davanti ai supermercati, ma davanti alle armerie; che rimette quotidianamente in discussione consolidati diritti civili; che rispolvera il suprematismo; che ripropone i suoi spettri peggiori, dal razzismo, al disprezzo per le minoranze e per le diversità, fino alla presunzione di impunità dei poteri costituiti, al di fuori e al di sopra del sindacato della legge, si tratti del comandante in capo piuttosto che dell’ultimo poliziotto in divisa.

Come sempre l’America è specchio dell’occidente tutto. In Italia sono moltissimi i segni di una progressiva trampizzazione del centro-destra e del suo insediamento sociale. A cominciare dalla dialettica città-provincia. Anche qui da noi, come negli States, il centro sinistra (che vinca o perda) resta un centro sinistra da ZTL, più forte nelle città che in provincia; più forte nei salotti dei centri urbani piuttosto che nelle cinture periferiche.

La geografia elettorale

Si guardi la geografia elettorale americana. Ancora una volta la destra americana vince a mani basse in tutto il Midwest, da nord a sud, ma non nelle capitali. Stravince in Wyoming, ma non nella sua capitale Jackson; In Jowa, ma non a Des Moines; nello Utah, ma non a Salt Like City. In Lombardia, nel Lazio, in Piemonte, succede lo stesso.

Le analogie non finiscono qui. Anche qui da noi abbiamo i nostri suprematisti tollerati ed all’occorrenza blanditi; i nostri diritti civili regolarmente invisi e messi in discussione.

Avremmo bisogno di una lunga stagione raffaelliana; di una narrazione che procedesse come un dipinto del Sanzio; di scienza e sapienza rispettate e autorevoli come nel dipinto della scuola di Atene; di bella politica come bello è il volto della Madonna col cardellino.

E invece – ci piaccia o meno – ci tocca vivere in una perdurante e assai meno idealizzante stagione klimtiana in cui Filosofia, Giustizia e Scienza sono conquiste precarie e mai consolidate per sempre, in cui le magnifiche sorti e progressive sono poco più che un auspicio.

Accontentiamoci per ora di contare i voti in Michigan e Wisconsin e incrociare le dita. Per tutto il resto sarà ancora lunga.