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Siae-Soundreef, lo storico accordo cambierà l’economia del diritto d’autore in Italia?

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Storico accordo tra il gigante Siae e la farfalla Soundreef destinato a cambiare l’economia del diritto d’autore in Italia, mentre Anica risponde alla consorella Apt proponendo una sua fantasiosa numerologia dell’economia dell’audiovisivo

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Due sono le notizie che hanno scosso il sistema mediale italiano, questa settimana: il clamoroso accordo tra Siae e Soundreef, destinato a cambiare lo scenario del diritto d’autore in Italia, e la partecipazione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla presentazione del rapporto Anica Cinema e audiovisivo: l’impatto per l’occupazione e la crescita in Italia”.

Entrambe le iniziative meritano un adeguato approfondimento su queste colonne, perché determinano conseguenze significative nella “economia politica” del settore: la prima in termini sostanziali, la seconda in termini lobbistici.

L’accordo tra l’ex “monopolista” Società Italiana Autori Editori – Siae (fondata nel 1882) e la “emergente” Soundreef (fondata nel 2011, attiva in Italia dal 2014 ma sviluppatasi realmente a partire dal 2017) ovvero la pacificazione raggiunta dopo anni di cruenta “guerra” (battaglie sui media, azioni legali, finanche iniziative spionistiche…), è stato reso da un dispaccio di agenzia diramato nel pomeriggio di mercoledì 10 aprile, che è stato ripreso dalla stampa nazionale l’indomani senza l’attenzione che in verità merita. Se il quotidiano “la Repubblica” si è limitato a segnalare – così come il “Corriere della Sera” – in un trafiletto, che si tratta di una “svolta” nel mercato dei diritti d’autore per gli artisti, l’accordo “finalizzato a definire tutte le controversie in essere” è in verità una iniziativa molto importante, perché rafforza quello che riteniamo debba essere un “fronte unitario” rispetto agli “over-the-top”, ovvero in generale nei confronti dei mega-predoni del digitale. Di fatto, i soggetti in campo (la Siae, “ente pubblico economico a base associativa”, la commerciale Soundreef Ltd – società di diritto britannico – e la sua emanazione italica “non profit” Lea, acronimo che sta per Liberi Autori e Editori), hanno concordato di rinunciare a tutte le cause pendenti.

L’accordo mira, fermo restando il rapporto di concorrenza tra le parti, a garantire il buon funzionamento del mercato, nell’interesse innanzitutto dei titolari dei diritti d’autore nonché degli utilizzatori.

Siae e Soundreef hanno convenuto su un insieme di principi come:

– la definitiva intervenuta liberalizzazione del mercato (sebbene nei limiti dettati dal Decreto legislativo n. 35/2017); la Siae riconosce la legittimità di Lea a raccogliere diritti d’autore per conto di Soundreef Ltd e i suoi iscritti diretti;

Siae riconosce che gli utilizzatori di musica italiani dovranno perfezionare una licenza integrativa a quella di Siae anche con Lea (anche per conto di Soundreef Ltd) ove l’utilizzatore suonasse repertorio di quest’ultima e che quindi il pagamento della licenza Siae non è più esaustivo rispetto all’utilizzo di musica;

– la circostanza che ciascun ente di intermediazione dei diritti d’autore – sia esso costituito nella forma dell’organismo per la gestione indipendente dei diritti o dell’entità di gestione indipendente – amministrerà esclusivamente la quota parte dei diritti d’autore a esso dato in gestione dal titolare dei diritti con esclusione, pertanto, dell’applicazione di qualsivoglia regola sulla comunione dei diritti sulla singola opera, e a prescindere da eventuale intesa tra editori e autori…

La concretezza dell’accordo è confermata dall’impegno che entro il 30 giugno 2019 Siae e Soundreef modificheranno i propri statuti allo scopo di metabolizzare al meglio l’accordo raggiunto il 10 aprile 2019. Ancora più tempestiva l’operatività, dato che hanno anche concordato che entro 10 (dieci!) giorni verranno concordate regole operative idonee a garantire che gli utilizzatori siano posti in condizione di perfezionare in maniera agevole tutti i “contratti di licenza” necessari all’utilizzazione dei diritti rappresentati dalle diverse società. Nemmeno in Svizzera, si registrano tempistiche così rapide!

Ricordiamo che cinque anni fa una direttiva europea ha dato la possibilità a tutti gli artisti di affidare a qualunque società volessero la raccolta dei diritti sull’utilizzo della loro musica. Il governo italiano (allora guidato da Paolo Gentiloni) però ne recepì solo una parte, mantenendo di fatto il monopolio Siae, ma consentendo al contempo la possibilità di operare a società “no-profit”. E quindi la commerciale Soundreef ha promosso la non commerciale Lea, ma – secondo Siae – si sarebbe trattato di una “schermatura” formale…

Non vogliamo qui entrare nel merito della “sproporzione” di attenzione con cui i media italiani hanno prevalentemente trattato il “caso” Soundreef, come se questa piccola “start-up” incarnasse i panni di un Robin Hood nei confronti della troppo ricca Siae (spesso accusata con una logica in stile “Roma ladrona”). Stiamo trattando infatti del rapporto di un gigante (Siae) con una farfalla (Soundreef), e certamente non è la quantità di artisti rappresentati l’indicatore adeguato a comprendere le dimensioni dell’una o dell’altra: Siae ha oltre 90mila associati, a fronte dei 14mila associati vantati da Soundreef, ma basta osservare il totale di proventi dell’una e dell’altra, per comprendere le proporzioni. Il fatturato Soundreef è stato di 4,2 milioni di euro nel 2017 (il consuntivo 2018 dovrebbe essere a quota 6 milioni). Il fatturato Siae, ovvero il totale degli incassi (repertorio e copia privata) è stato di 701,9 milioni di euro nel 2017 (ed il consuntivo 2018 dovrebbe essere a quota 694 milioni). Un rapporto di 1 a 167, a favore della Siae.

D’altronde Soundreef continua a sbandierare, tra i propri autori, nomi come Enrico Ruggeri, Fedez, J Ax, Rovazzi e Achille Lauro, e pochi altri artisti famosi, a fronte delle centinaia e centinaia di artisti affermati che può vantare la Siae, e delle decine di migliaia di suoi associati autori meno noti.

Non è un caso se Siae è presieduta da un autore-simbolo della migliore cultura musicale italiana, qual è Mogol, anche se l’accordo raggiunto il 10 aprile è da attribuire senza dubbio soprattutto alle capacità politiche di un grande mediatore qual è Salvo Nastasi, da qualche mese Vice Presidente della Siae (per decenni alla guida dell’intervento pubblico nel settore spettacolo in Italia, come Direttore Generale e poi Capo di Gabinetto del Mibac, e successivamente Vice Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri).

Rispetto al diritto d’autore, va comunque evidenziata l’italica “contraddizione interna”: il Movimento 5 Stelle ha sempre proclamato la necessità di una fine del monopolio Siae in nome di quella “disintermediazione” totale che ritiene rivoluzionaria, ma la proposta di legge del grillino Sergio Battelli non ha registrato grandi consensi. È anche vero – come ha giustamente ricordato l’europarlamentare piddina Silvia Costa – che i grillini europarlamentari hanno votato contro la Direttiva Europea sul diritto d’autore, che è stata approvata qualche settimana fa a larga maggioranza, ed ha registrato il plauso della quasi totalità degli artisti, autori, intellettuali, operatori delle industrie culturali e creative d’Europa.

Che ci fossero “prove di pacificazione” tra Siae e Soundreef l’avevamo compreso, e già segnalato anche su queste colonne: ad inizio marzo a Bari, c’è stato un primo pubblico incontro tra Giulio Rapetti (alias Mogol) e Davide D’Atri (dominus della Soundreef), ovvero prove tecniche di dialogo, benedette da Davide Casaleggio (vedi “Key4biz” del 14 marzo, “Direttiva Copyright, la Siae ‘fa pace’ con Soundreef e attacca gli Ott: ‘La vostra è una non libertà’”).

Le reazioni all’accordo Siae-Soundreef sono prevalentemente positive, anche se, sul web, qualcuno lamenta il rischio della creazione di un nuovo paradossale… “oligopolio”, che andrebbe a discapito degli interessi degli autori, soprattutto i giovani. Riteniamo si tratti di tesi infondate.

Piuttosto, quel che crediamo vada affermato con forza è che questo accordo – che può ritenersi “spiritualmente” sintonico con la nuova Direttiva Europea – rafforza le capacità del “sistema degli autori” nei confronti degli “oligopolisti di internet”.

Come abbiamo cercato di spiegare più volte (anche su queste colonne) la tanto decantata “disintermediazione” del web produce, nella nuova economia delle industrie culturali e creative, risultati non propriamente miracolistici. Se è vero che si allarga – anzi si estende all’infinito – il potenziale di accesso alla conoscenza, un sistema “disintermediato” finisce per favorire soprattutto i nuovi “poteri forti”, ovvero dei soliti Google, Facebook, Apple

Nessuno sta studiando con adeguata attenzione le conseguenze della “rivoluzione digitale” nell’economia del lavoro creativo e culturale: sulla base di nostre ricerche e valutazioni, l’intera “classe intellettuale” sta andando incontro a processi di continua e strisciante depauperizzazione, in questa nuova fase del capitalismo.

E quella dell’ennesima declinazione della “disintermediazione assoluta”, rappresentata dalla “blockchain”, è verosimilmente l’ennesima… grande illusione.

Frammentare i soggetti che – nel bene e nel male – tutelano gli autori nei confronti dei nuovi “padroni dell’immaginario” finisce paradossalmente per fare il gioco dei capitalisti del digitale. In taluni casi, “liberalizzare” è soltanto uno slogan ideologico, allorquando uno Stato lungimirante non può e non deve affidare soltanto al mercato settori delicati e strategici come il sistema culturale (e – al suo interno – la cura del diritto d’autore).

Purtroppo, il dibattito politico nazionale non prende in considerazione i dati: in effetti, l’Italia continua ad essere uno dei Paesi europei nei quali le teorie e le pratiche dell’“evidence-based policymaking” rappresentano l’eccezione alla regola.

Il governo della cultura, nel nostro Paese, soffre in modo particolare di questa patologia cognitiva: anche il dibattito sul diritto d’autore (così come lo scontro tra Siae e Soundreef) è stato agitato da motivazioni ideologiche e passionali, non si è certo caratterizzato per un confronto serio e documentato sulle ragioni dell’una o dell’altra parte.

E qui veniamo ad altra questione (in qualche modo correlata), ovvero all’altro “fatto” degno di attenzione: giovedì 11 aprile 2019, il Premier Giuseppe Conte ha partecipato alla presentazione di uno studio di settore promosso dall’Anica, firmato dal Centro Studi Confindustria (Csc), il quale ha cercato – senza riuscirvi (a parer nostro) – di fare il punto sulla situazione del mercato del lavoro nell’industria italiana dell’audiovisivo (includendovi anche il “broadcasting”). È stato presentato un dossier di una trentina di pagine (intitolato “Cinema e Audiovisivo: l’impatto per l’occupazione e la crescita in Italia”), privo di un apparato metodologico minimamente descrittivo. Elaborare studi, nel settore culturale, basati sui codici Ateco (assolutamente non adeguati alle specificità di questo settore), significa voler affondare nelle sabbie mobili. Segnaliamo che uno degli intervenienti alla presentazione, Fedele Confalonieri, Presidente di Mediaset, ha commentato con ironia una qualche perplessità sui “numeri” presentati da Anica e Csc, ed ha contrapposto altri dati, elaborati “notarilmente” da Confindustria Radio Televisioni (tratti dallo “Studio economico” di Crtv) sul numero degli occupati reali nel settore…

Sicuramente si deve apprezzare un Presidente del Consiglio che dichiara “il governo è dalla vostra parte… dobbiamo tutelare questa filiera, che assicura crescita e occupazione ma che ci fa anche emozionare… io stesso cedo volentieri al fascino della sala buia e dello schermo grande… stiamo dettando regole equilibrate per tutti i competitor, per favorire la crescita, ad esempio l’investimento in contenuti italiani da parte delle piattaforme… le sale cinematografiche siano sempre più dei presidi sociali per le comunità…”. Queste dichiarazioni di principio e di intenti sono senza dubbio commendevoli. Che questa sensibilità si stia concretizzando al meglio in iniziative evanescenti come la campagna “Moviement” – oppure limitandosi a rinnovare la fede (cieca) nei confronti del “tax credit” – è questione altra, sulla quale rinnoviamo le perplessità di cui ci siamo fatti interpreti su queste colonne (vedi “Key4biz” del 1° aprile, “Mibac e Rai, tra l’incerta campagna ‘Moviement’ e la nomina del direttore Generale”). Ribadiamo che, ad oggi, non esiste ancora una “valutazione di impatto” sui risultati della legge Franceschini-Giacomelli. L’iniezione nel sistema di 400 milioni di euro l’anno ha certamente prodotto risultati “positivi”, ma nessuno sa con esattezza… quali, dove e come.

L’atmosfera complessiva dell’iniziativa Anica è stata peraltro caratterizzata da una positività travolgente, da un ottimismo oltranzista, da un ecumenico “volemose bene” ai limiti dell’incredibile… Mancava soltanto, in sala, il sottofondo di “Penso positivo” di Lorenzo Jovanotti Cherubini. Capiamo l’ottimismo della volontà (e l’esigenza di far capire all’Esecutivo che si tratta di un settore vitale anche per l’economia nazionale, onde evitare “spending review”…), ma forse sarebbe opportuno guardare anche cosa c’è dietro, ovvero l’altra faccia della Luna.

Stessa atmosfera che si registrava qualche settimana fa, in occasione di una “presentazione” coreografica simile, promossa dall’Associazione Produttori Televisivi – Apt, nel suo cambio di “naming” in Associazione Produttori Audiovisivi – Apa (vedi “Key4biz” del 12 marzo 2019, “L’industria audiovisiva italiana tra Tax Credit, Netflix e la mancanza di dati innovativi”). Anche lì, entusiasmo a gogò, numeri in libertà, stime simpaticamente proposte in assenza di descrizione metodologica: fuochi d’artificio, cifre ad effetto. Si segnala peraltro che lo scarno dossier presentato dall’Apt (pomposamente intitolato “1° Rapporto sulla Produzione Audiovisiva Nazionale”) in quell’occasione è stato proposto in questi giorni a mo’ di allegato dell’edizione di aprile 2019 del mensile “Prima Comunicazione”, testata autorevole che si riferisce a questo studio con entusiasmo – come dire?! – incomprensibile.

Qualcuno ha osservato che, in termini di lobbing, “Anica batte Apt” 2 ad 1: i “televisivi” hanno portato sul tavolo di presidenza della propria kermesse soltanto la appassionata Sottosegretaria Lucia Borgonzoni, i “cinematografici” hanno portato nientepopodimeno che l’elegante Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma questa è giustappunto una competizione in termini di immagine: molto rumore per nulla. Apparenze, teatrini, passerelle, iconologie…

Il principe di turno (si chiamava Dario Franceschini prima ora Alberto Bonisoli ovvero la sua delegata Lucia Borgonzoni) allarga i cordoni della borsa: tutti contenti, tutti applaudenti, anzi… osannanti. Anche un po’ proni, sia consentito osservare. Al di là delle raffinate capacità di cerimonieri di eccellenza, come Francesco Rutelli (Anica) e Giancarlo Leone (Apa), cantori alla corte.

Ma qualcuno ha il coraggio di domandarsi le conseguenze reali dell’intervento della “mano pubblica” nel sistema?!

A beneficio di chi va realmente questo intervento pubblico?!

Si estende realmente lo spettro del pluralismo espressivo?

Si rafforza realmente il tessuto imprenditoriale?

Qualsiasi serio studioso dell’economia della cultura in Italia sa perfettamente che lo “stato dell’arte” sui “numeri” del sistema resta assolutamente carente, deficitario, penoso: l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) non ha mai affrontato questo settore con un minimo di impegno; il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac) ha smantellato nel corso degli anni il proprio Ufficio Studi e l’Osservatorio dello Spettacolo; l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) soltanto da qualche anno ha prodotto un report (pensiamo al primo studio sulla produzione audiovisiva, timido tentativo esplorativo)…

Insomma, non esistono fonti pubbliche in grado di produrre dati validati: questa è la vera verità, che una rubrica intitolata “ilprincipenudo” non può che ribadire.

E ci piace osservare che nella coreografia autoreferenziale e sorridente della kermesse Anica, ci sia stato almeno una “vox clamans” fuori dal coro: lo sceneggiatore e regista Alberto Simone, in rappresentanza dell’associazione 100autori, ha ricordato che il panorama non è esattamente roseo, se è vero – come ha evidenziato uno studio promosso dalla Federation of European Film Directors (Fera), recentemente presentato e sul quale torneremo presto – che il livello reddituale degli autori di cinema e televisione in Europa evidenzia una preoccupante e crescente “povertà”… Con buona pace della “manna” che i teorici della rivoluzione digitale continuano a proclamare.

La domanda conclusiva è: il coro sulle sorti magnifiche e progressive dell’industria audiovisiva italiana – orchestrato con grande coreografia da Anica ed Apt (utilizzando peraltro danari pubblici per questi “progetti speciali”, finanziati dal Mibac piuttosto che dal Mise) – è realmente funzionale ad uno sviluppo autentico, profondo e plurale, del sistema dell’immaginario (inteso sia nella sua anima economica sia nella sua anima artistica) oppure determina semplicemente una conservazione dell’esistente (ed un rafforzamento dei “poteri forti” del sistema)?!