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L’industria audiovisiva italiana tra Tax Credit, Netflix e la mancanza di dati innovativi

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L’Associazione Produttori Televisivi (Apt) cambia nome e diviene “Apa - Associazione Produttori Audiovisivi”. Presentati altri dati evanescenti, e richiesto l’incremento del salvifico “tax credit”. La Sottosegretaria Lucia Borgonzoni: “il settore non vuole assistenzialismo”.

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Questa mattina è stata presentata a Roma, nell’elegante sala dei convegni dell’Ara Pacis, il “1° Rapporto sulla Produzione Audiovisiva Nazionale”, promosso dall’Associazione Produttori Televisivi alias – finora – “Apt”, che ha approfittato dell’occasione per annunciare il cambio della propria denominazione: da “Apt” diviene “Apa”, acronimo che si scioglie in “Associazione Produttori Audiovisivi”, evidenziando i generi di riferimento, ovvero “serie”, “film”, “intrattenimento”, “doc”, “animazione” (“non solo” fiction, quindi).

Naturale sorge un quesito: Anica, come reagisce, dato che, da molti anni, il suo acronimo si scioglie giustappunto in “Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali” ovvero “non solo cinema”?! Il Presidente dell’Anica, Francesco Rutelli, era seduto in prima fila, ma non è intervenuto.

Si è trattato di un’iniziativa rientrante nella naturale fisiologia di una “lobby” imprenditoriale, qual è l’Apt, fondata nel 1994, e dal 2017 presieduta da Giancarlo Leone, storico dirigente apicale della Rai.

L’occasione intendeva porsi come riflessione sullo stato dell’industria audiovisiva italiana, sullo stato della serialità, sulle trasformazioni del sistema dei media, sul ruolo della Rai…

Atmosfera positiva, toni pacati, assenza di polemiche: un diffuso e pervasivo “volemose bene”, una performance di quelle che il Commissario Montalbano definirebbe del solito “circo equestre”, ovvero – scriviamo noi – della solita “compagnia di giro”. Nessun dissidente, nessuna voce fuori dal coro, nessuna voce degli autori o dei sindacati…

Delusi? No, non ci attendevamo granché d’altro.

Ci aspettavamo forse… grandi rivelazioni?!

No, perché abbiamo coscienza, da anni anzi decenni, della non particolare vocazione di “lobby” come Apt ed Anica a fornire fotografie accurate e radiografie approfondite della vera economia del sistema audiovisivo.

Si tende a fornire sempre una immagine positiva ed una lettura ottimista dei (pochi) dati reali relativi alla struttura ed al funzionamento dei mercati audiovisivi. Oppure, se si registra una crisi, si sparano fuochi d’artificio numerici sul rischio di conseguenze letali, semmai lo Stato chiudesse un po’ i cordoni della borsa.

In Italia, questo deficit di conoscenza caratterizza anche altri mercati culturali (dall’editoria alla musica), in assenza di soggetti terzi, istituzionali o privati, che propongano letture indipendenti delle economie mediali dei vari settori.

L’unica notizia emersa dalla presentazione è forse quella data dalla Sottosegretaria delegata al cinema, la leghista Lucia Borgonzoni, che ha annunciato l’esigenza di aprire anche a Netflix il “tavolo” di lavoro che è stato avviato a metà dicembre, per ragionare su eventuali “ritocchi” alla legge sul cinema e sull’audiovisivo (la “legge Franceschini” di fine 2016, che è ormai a regime, o quasi, con i suoi oltre 20 decreti attuativi), soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra produttori e broadcaster. Con il suo fare sempre morbido e simpatico, la Sottosegretaria ha sostenuto: “ho trovato un settore che dialoga tra le varie sfaccettature e tra i vari interessi. Fare un piccolo passo indietro per farne uno avanti tutti insieme. Ringrazio tutte le persone intervenute oggi. È un settore che non vuole assistenzialismo (ma Lei ne è proprio sicura, gentile Sottosegretaria?! n.d.r.). Tutti hanno semplicemente chiesto un aiuto per rendere grande un settore che è ‘made in Italy’. È un’espressione altissima del nostro made in Italy. È un settore in forte crescita, che ha voglia e bisogno di crescere ancora di più. Abbiamo deciso di fare un riparto parziale (dei fondi della legge cinema, ovvero i 400 milioni di euro l’anno, n.d.r.), ma dobbiamo ridisegnare questo riparto. Dobbiamo sederci tutti ad un tavolo per capire come cambierà questo settore. Stiamo puntando molto sull’internazionalizzazione… Anche Netflix ha dato la propria disponibilità a prendere parte a questi tavoli. È un passo importante. Presto Netflix nominerà un rappresentante italiano”. Di fronte alla totale assenza di trasparenza nelle sue politiche – economiche ed editoriali – che Netflix sveli la propria “identità” sul mercato italiano è quasi una… notizia-bomba (se le intenzioni verranno seguite dai fatti, ovviamente).

Il Presidente dell’Apa Giancarlo Leone ha sostenuto: “la notizia del riparto parziale immediato è fondamentale. Anche la notizia del tavolo per ridisegnare i criteri di questo riparto è importante. Spero in un incremento del tax credit”.

Sono stati presentati dati innovativi? No.

Leone ha sostenuto, con orgoglio: “siamo qui per parlare di una storia di successo. Rispondiamo al disfattismo imperante con i dati e con analisi che non si prestano a interpretazioni. Non parliamo di ascolti o di box office. Per la prima volta, oggi, abbiamo realizzato un rapporto multi-ricerca sotto il profilo industriale per quanto riguarda la filiera dell’audiovisivo. Non era mai successo prima”.

Questa affermazione è vera soltanto in parte, perché di tentativi di esplorazione cognitiva della “filiera”, nel corso dei decenni, ce ne sono stati diversi: purtroppo tutti parziali, se non partigiani.

Basti citare la terza edizione del rapporto “Il sistema audiovisivo. Evoluzione e dimensioni economiche”, curato da e-Media Institute ed Istituto Bruno Leoni (Ibl (vedi “Key4biz” del 22 giugno 2018, “I numeri (troppo) in libertà dell’industria culturale italiana”). E non a caso buona parte dei dati del “Rapporto” curato da Apa è tratta giustappunto dalla fonte e-Media. Apa ha proposto un mix disomogeneo di fonti (da e-media a Symbola, da Geca Italia a Certa, ecc.), inventandosi una nuova… “metodologia” (?!): il “rapporto multi-ricerca” (???). Ovvero, tradotto in italiano: “estrapolo dalle poche e deficitarie fonti disponibili quei dati che sono funzionali alla mie tesi”. Ovvero, nel caso in ispecie, “tutto va bene, madama la Marchesa (alias Mibac)… basta che ci conceda tanto ma tanto tax credit!”.

E ricordiamo soprattutto che lo strumento di conoscenza forse più prezioso – e scientificamente accurato – per il settore ovvero l’Osservatorio sulla Fiction Italiana (Ofi), fondato dalla appassionata Milly Buonanno (professoressa all’Università di Roma “Sapienza”) e per oltre vent’anni saggiamente sostenuto dalla Rai, è stato progressivamente depotenziato (e sempre più limitato “a circolazione interna”), in funzione del disinteresse mostrato da Viale Mazzini negli ultimi dieci anni (l’ultima edizione è stata pubblicata nel 2010, “Se vent’anni sembran pochi”, nella killerata collana editoriale della Rai EriZone”, erede della nobile “Vqpt – Verifica Qualitativa Programmi Trasmessi”).

Giancarlo Leone ha sostenuto che “il mercato è in crescita per quanto riguarda la tv free e pay. Secondo le nostre stime, la buona tenuta continuerà e crescerà la cosiddetta tv non lineare come la tv on demand. Il settore è in forte sviluppo, questo è l’anno zero. La produzione audiovisiva nazionale ha raggiunto il valore di 1 miliardo di euro nel 2017. Nelle fonti di contribuzione della fiction, sono molto importanti gli apporti societari ed esteri, un dato che, fino a qualche anno fa, era irrisorio. Non è clamoroso, ma è in crescita. Tutto ciò che sta accadendo nel settore della serialità è merito del ruolo del tax credit. È un dato fondamentale che il governo non deve sottovalutare in futuro. È il motore che ha generato la crescita del nostro sistema”.

Non abbiamo dubbi che il “tax credit” abbia stimolato la crescita, ma crediamo che lo Stato abbia il dovere di misurare gli effetti di questo strumento, che appare salvifico, ma che forse tale non è.

Alcuni degli elementi evidenziati da Giancarlo Leone: “la filiera dell’audiovisivo è composta da soggetti forti come Rai, Mediaset e Sky, ma è importante la filiera mista. Sono 161 le società audiovisive che hanno oltre 5 milioni di fatturato. Possiamo dire che i lavoratori impegnati nell’audiovisivo sono 70mila diretti, che aumentano grazie all’indotto… Nel 2018, nella programmazione tv della serialità, c’è una prevalenza Rai ma anche Mediaset ha dato il proprio contributo, che è in crescita. Per quanto riguarda l’intrattenimento, abbiamo analizzato 29 reti e abbiamo censito 250 titoli. Sono divisi equamente tra produttori interni e produttori esterni. È il segnale della forza dei broadcast e dei produttori indipendenti. La produzione interna aumenta nel daytime mentre la produzione esterna prevale nel prime-time. Ciò significa che nei prodotti pregiati, ci si rivolge ai produttori indipendenti… I titoli in grado di avere una forza presenza sul mercato sono almeno 25. Ciò significa una crescita del 150 %. Il mercato crede nei nostri prodotti. I titoli recenti sono ‘Gomorra’, ‘I Medici’, ‘Baby’, ‘Il Miracolo’, ‘L’Amica Geniale’, ‘Il Nome della Rosa’, ‘La Porta Rossa’, ‘Suburra’, ‘The Young Pope’ e altri. I titoli in preparazione raddoppiano: ‘Colt’, ‘Gheddafi’, ‘I Diavoli’, ‘Il Regno’, ‘Les Italiens’, ‘Lontana da Te’, ‘Luna Nera’, ‘Non mi lasciare’, ‘Romero’, ‘Romulus’, ‘The New Pope’ e altri. Si tratta di titoli che conquisteranno il mercato internazionale…”.

Come dire?! Tutto molto interessante (cit. Fabio Rovazzi).

Estrapoliamo dagli interventi degli altri relatori.

Fabrizio Salini, Amministratore Delegato Rai: “siamo in presenza di una riforma Rai necessaria e inevitabile. I contenuti sono e saranno sempre di più i protagonisti del settore audiovisivo. Oggi, la Rai è organizzata come un broadcaster classico e tradizionale. Questo modello organizzativo non credo sia in grado di competere con il futuro. Siamo partiti da due elementi di base: la Rai ha difficoltà nell’intercettare il pubblico giovane. È un dato di fatto. Il secondo riguarda l’organizzazione: la Rai ha una direzione di genere e di contenuto come la fiction, ma incredibilmente non prevede altri direzioni di contenuto. Il piano industriale va in questo senso: la creazione di 10 aggregatori, ognuno dei quali si concentrerà sul contenuto di competenza. Questo modello organizzativo porterà ad una non dispersione delle risorse. Noi abbiamo la necessità di creare formati che abbiamo vita su ogni singola piattaforma. Il pubblico si sta allontanando dal consumo della tv cosiddetta lineare. Questo è un ulteriore compito per noi…”. Salini ha ricordato che sono state intanto create due nuove direzioni, una per i Documentari ed una per i Format: “per quanto riguarda le direzioni, alcune sono già state create, come quella dedicata ai documentari e ai nuovi formati. Oggi, la Rai produce internamente pochi contenuti originali. È una cosa che abbiamo progressivamente perso. Ciò non significa che dobbiamo produrre tutto internamente…”.

Ovviamente la questione è ben più complessa, perché riguarda una strategia complessiva del “public broadcaster media” e la migliore definizione del suo profilo identitario, anche rispetto ai “produttori indipendenti”: Rai deve essere co-produttore, per esempio in materia di “fiction”, o semplicemente committente?! E che dire della deriva del ricorso alle solite multinazionali – Fremantle in primis – per format di “entertainment” che Rai avrebbe chance di ideare e produrre internamente?!

Notoriamente “la battaglia per i diritti” è cruciale, e l’Italia è uno dei Paesi europei nei quali la vocazione al rischio imprenditoriale dei produttori – sia nel cinema sia nella fiction – resta modesta, anche perché (ma non soltanto per questa ragione) per molti decenni i “broadcaster” hanno trattenuto per sé parte rilevante dei diritti, sostenendo di essere i finanziatori sostanzialmente unici (il che è purtroppo vero, ahinoi) delle operazioni produttive (al di là dell’intervento assistenziale dello Stato)… Un cane che si morde la coda: una questione delicata nella quale ha cercato di intervenire anche l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ma con eccessiva prudenza.

La questione “diritti” è peraltro intimamente collegata alla questione “quote”, ovvero obblighi imposti ai “broadcaster”, e finanche agli “over-the-top”. Si ricorda che dal 1° gennaio 2019 avrebbe dovuto entrare in vigore le nuove regole sulle quote di programmazione e produzione da parte delle emittenti televisive, ma un emendamento nella Legge di Stabilità ha rimandato l’applicazione al 1° luglio 2019, e peraltro la “decadenza” dell’ex Direttore Generale Nicola Borrelli e la lentezza con cui il Ministro Alberto Bonisoli ha nominato il successore Mario Turetta ha reso tutta la situazione… insabbiata. È evidente che, al di là degli aspetti “teatral-relazionali”, l’iniziativa odierna è finalizzata anche alla ripresa del “tavolo di lavoro” che la Sottosegretaria Lucia Borgonzoni aveva avviato, in materia, con un Nicola Borrelli ancora nella pienezza del suo incarico…

Nicola Maccanico, Vice Presidente esecutivo di Sky ha sostenuto: “il nostro è un mondo dove ci sono poche barriere, dove il punto di riferimento sono i contenuti, e il problema è come declinarli. Siamo in un momento storico, dove non si parla più di assistenzialismo ma di industria. Questa è un’industria che crea posti di lavoro, occupazione e prospettiva. Per quanto riguarda Sky, Sky sta attraversando un periodo entusiasmante. Sky è entrata in una competizione globale diversa, dove il contenuto locale diventa un elemento fondamentale, perché non esistono più monopoli. Tutti siamo in un mercato più competitivo e questa è un’opportunità per migliorarsi. La partita sul contenuto locale è strategica. Vogliamo allargare la nostra presenza sul mercato, allargando i generi e lavorando con i personaggi più noti del panorama italiano. Non dobbiamo avere paura di cercare gli ascolti”.

Alessandro Salem, Direttore Generale contenuti Mediaset: “stiamo puntando di più sulla produzione di contenuti originali, sia intrattenimento che fiction. In questo periodo, l’attenzione è sulla fiction. Riguardo la fiction, abbiamo vissuto un momento complicato. Da due anni, abbiamo ricominciato a lavorare e abbiamo intenzione di accelerare. L’obiettivo vero, ideale e ottimale, sarebbe produrre 7 giorni alla settimana. Solamente con il contenuto originale, puoi intercettare il pubblico cosiddetto in fuga. Sia la leva fiscale che la leva delle co-produzioni internazionali sono molto importanti”.

Franco Siddi, Presidente di Confindustria Radio Tv: “i vostri dati parlano chiaro, sono utili alla riflessione. In questo mondo, il ruolo dei broadcaster mantiene la propria centralità. C’è bisogno di fare più sistema. I dati dimostrano che se gli investimenti delle tv crescono, il sistema ne risente positivamente. Questo sistema ha bisogno di contenuti importanti, originali e di qualità, con una caratteristica di italianità per proiettarci all’estero. Non dobbiamo farci imporre le linee dai produttori esteri. Abbiamo interesse affinché il sistema trovi consolidamento: investire in questi termini, sull’audiovisivo è una carta di crescita per il sistema economico. Questi dati vanno visti in termini industriali”.

Il solito mantra: “industria”, “sistema”, “mercato”… ma concetti interpretati con la retorica ritualità di sempre, autoreferenzialmente e conservativamente, rimuovendo la vocazione alla conoscenza (denuncia?!) delle criticità del sistema.

Nihil novi sub sole.

Nessuna riflessione critica sul senso strategico dell’intervento dello Stato, tra Mibac e Rai.

Nessuna vera analisi dello stato di salute reale del sistema, culturale oltre che economico.

Ci si domanda semplicemente: cosa accadrebbe alla “industria” della produzione cinematografica ed audiovisiva italiana se venisse “staccata la spina” del sostegno pubblico?!

Crediamo che non sia osceno sostenere che l’industria italiana dell’audiovisivo è fortemente assistita. È un dato di fatto oggettivo, anche se ben nascosto tra le pieghe di “studi” di settore che sono asserviti alle esigenze del committente, in una numerologia strumentalizzata e partigiana. Peraltro, nello stesso “Rapporto” proposto oggi dall’Apa, si legge che il “valore della produzione” della fiction italiana è (sarebbe) nell’ordine di 370 milioni di euro. Osserviamo le “fonti di contribuzione”: 260 milioni di euro vengono dai “broadcaster lineari”, 60 dal “tax credit”, e soltanto 50 da “apporti societari ed esteri” (si noti che vengono confuse… mele e mere, e sarebbe invece interessante conoscere il dato degli “apporti” delle società italiane soltanto): quest’ultima voce incide soltanto per un 14 % sul totale. Un po’ poco – si converrà – per dimostrare la vocazione al rischio dei produttori “indipendenti”, che in verità appaiono assai dipendenti dallo Stato, che si chiami Rai (ovvero Mediasetovvero Sky o quel che sia, anche per obbligo di legge) o Mibac…

Crediamo che non sia osceno domandarsi se questo assistenzialismo stia contribuendo realmente al rafforzamento del tessuto produttivo, allo sviluppo della produzione indipendente, all’estensione del pluralismo espressivo.

Ci si domanda infine cosa accadrebbe se il Mibac ovvero l’Agcom promuovessero la prima mai realizzata ricerca di scenario sulla produzione audiovisiva nazionale: uno studio indipendente che non nascondesse dietro le tante… foglie di fico degli interessi di parte. Un apprezzabile tentativo di conoscenza (dopo anni di letargo) l’ha messo in atto l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazione, con l’“Indagine conoscitiva” sul settore della produzione audiovisiva (avviata con delibera n. 20/15/Cons), resa pubblica a fine febbraio 2016, ma si è trattato di un tentativo troppo timido.

E, come abbiamo già segnalato su queste colonne (vedi “Key4biz” dell’8 marzo 2019), è certo apprezzabile che uno dei primi atti del neo Direttore Generale del Cinema del Mibac, Mario Turetta (oggi curiosamente assente, mentre era in sala il suo predecessore Nicola Borrelli, cui è stato tributato un tiepido applauso) sia stato proprio l’avviso per la realizzazione di una “valutazione di impatto” della legge Franceschini (la n. 220 del 14 novembre 2016).

Non resta che augurarci che questo incarico produca finalmente un set di dati adeguato alla comprensione vera ed alla valutazione oggettiva degli effetti reali dell’intervento della “mano pubblica” nel settore, in chiave non soltanto economico-economicista (efficienza, efficacia, etc.), ma anche in chiave linguistica e sociologica (pluralismo, creatività, etc.).

Fino ad allora, si continuerà purtroppo a brancolare nelle nebbie dell’ignoranza, ovvero a sparare numeri d’artificio che non fanno vera luce nella notte in cui… “tutte le vacche sono nere” (parafrasando Hegel), ovvero nella quale siamo… “todos caballeros” (parafrasando Carlo V).

Clicca qui, per leggere il “1° Rapporto sulla produzione audiovisiva nazionale”, promosso da Apa – Associazione Produttori Televisivi, presentato a Roma il 12 marzo 2019.