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Digital Crime. Quando il post sui social network integra una cyber molestia

di Paolo Galdieri, Avvocato, Docente di Informatica giuridica, LUISS di Roma |

Il problema si pone poiché l’attività molesta assume rilevanza penale, sempre che sia posta in essere per petulanza o per altro biasimevole motivo, quando viene realizzata per mezzo del telefono o in un luogo pubblico.

Sempre più spesso la giurisprudenza e, in alcuni casi, il legislatore sono costretti ad intervenire per offrire risposte in ordine a domande di tutela giuridica provenienti dai nuovi contesti virtuali tra cui in particolare i social network.

La rubrica #DigitalCrime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale.
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Se ad esempio si sono ritenuti configurabili sulla base della previgente normativa i delitti di diffamazione e di sostituzione di persona per le ipotesi in cui vengono realizzati in rete, in altri casi, per evitare di incorrere nel divieto di analogia, si è preferito predisporre disposizioni ad hoc, come per l’adescamento di minorenni perpetrato attraverso internet,  oggi punito grazie all’art. 609 undecies c.p., introdotto dalla L. 172/2012.

Tale opera di adeguamento non si è invero ancora completata, tuttavia, come dimostrano le incertezze interpretative sull’operatività dell’art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone) nelle ipotesi in cui il disturbo o la molestia vengano realizzati attraverso un post pubblicato nella pagina di un social network.

Il problema si pone poiché l’attività molesta assume rilevanza penale, sempre che sia posta in essere per petulanza o per altro biasimevole motivo, quando viene realizzata con modalità ben definite dalla norma, ovvero: per mezzo del telefono o all’interno di un luogo pubblico o aperto al pubblico.

Per quanto concerne la prima ipotesi la giurisprudenza ha da tempo chiarito che possano considerarsi molestie realizzate per mezzo del telefono anche quelle perpetrate attraverso il citofono, gli sms e i messaggi di posta elettronica, in quest’ultimo caso solo allorquando quando vengano ricevuti sul telefono con avvertimento acustico.

Si è esclusa, invece, la configurabilità della contravvenzione in esame per le molestie arrecate tramite “Messenger”, in quanto tale servizio non può essere assimilato alla comunicazione telefonica.

Rispetto all’invio di messaggi indesiderati all’interno di un social network, e segnatamente sulla bacheca della vittima, si è osservato come tale condotta possa integrare il reato di molestia realizzato per mezzo del telefono sicuramente nell’ipotesi in cui l’invio del messaggio e la ricezione,  avvengano con il mezzo del telefono.

Al contrario, se il telefono cellulare o le impostazioni dell’account del social network non permettessero una modalità di ricezione diretta verrebbe a mancare l’immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del destinatario, escludendosi quindi l’applicazione dell’art. 660 c.p.

Quanto all’assimilazione del profilo di un utente all’interno di un social network ad un luogo pubblico o aperto al pubblico, occorre fare ulteriori distinzioni. Nel caso di una bacheca accessibile ad una pluralità indistinta degli utenti di Facebook, sembrerebbero ricorrere le stesse caratteristiche del luogo pubblico, che per la giurisprudenza dominante deve essere quello accessibile a tutti senza alcuna limitazione o condizione.

Al contrario, nel caso in cui la vittima della molestia utilizzasse una pagina a profilo cd. chiusa, e, quindi, accessibile solo ai cd. amici, non si potrebbe più parlare di luogo pubblico e nemmeno di luogo aperto al pubblico, considerato che sarebbe qualificabile come tale “quel luogo al quale ciascuno può accedere in determinati momenti, oppure osservando determinate condizioni, poste da chi esercita un diritto sul luogo stesso,  ovvero quello al quale può accedere una categoria di persone che abbia determinati requisiti” (Cass., Sez. III, n. 7769/2013).

In questo caso, infatti, l’unico modo per poter entrare nella bacheca sarebbe quello di essere accettato dall’utente gestore della pagina, circostanza questa che renderebbe il “luogo virtuale” più simile ad un luogo di privata dimora, ovvero un luogo in cui il soggetto titolare ha la possibilità di esercitare lo ius escludendi alios al fine di tutelare il diritto alla riservatezza.

Di recente, comunque la Suprema Corte ha ritenuto configurabile il reato di molestia rispetto ai messaggi sgraditi “postati” in una pagina di Facebook, considerando il social network una community aperta accessibile a chiunque (Cass., Sez. I, sentenza  n. 3759/2014).

Quello che non convince di questa decisione è che la Corte non opera alcun distinguo tra le diverse tipologie di profilo, chiuse o aperte, ritenendo che la piattaforma sociale  rappresenti sempre e comunque una sorta di piazza immateriale accessibile a chiunque.

 

Le diverse questioni interpretative poste dagli elementi costitutivi del reato portano a ritenere che la rilevanza penale della molestia realizzata attraverso un post dipenda ancora dalla conoscenza del contesto virtuale da parte degli organi giudicanti e dalla volontà degli stessi di far rientrare le nuove condotte all’interno della fattispecie. Al fine di evitare decisioni eterogenee pare auspicabile una modifica della norma, tale da ricomprendere, come modalità alternativa di realizzazione delle molestie, oltre al mezzo del telefono anche la rete internet o qualsiasi strumento informatico o telematico. Tale adeguamento sarebbe, tra l’altro, coerente con la recente riforma del 2013 che ha previsto un aggravamento di pena nell’ipotesi in cui il delitto di atti persecutori (cd. stalking) venga commesso  attraverso strumenti informatici e telematici.