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AssetProtection. Social network e diritto d’opinione, cosa stiamo sbagliando?

di Alberto Buzzoli, Socio ANSSAIF – Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria |

Con i social network, le infezioni di idiozia, prima fisicamente arginate in luoghi e contesti ben precisi, possono sfociare in vere e proprie pandemie. Reclamare il diritto all'opinione ed esercitarlo in modo indiscriminato, senza un po’ di sana consapevolezza non porterà a nulla di buono, per nessuno.

La rubrica AssetProtection, ovvero Riflessioni su sicurezza e terrorismo, a cura di Anthony Cecil Wright, presidente Anssaif (Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria). Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

Ci lamentiamo costantemente, per carenze di ogni genere. Ma certo non scarseggia l’applicazione indiscriminata del diritto d’opinione. E attenzione a non confonderlo con il diritto d’espressione o all’informazione, che sono cose ben distinte. Per diritto d’opinione intendo una mescolanza poco intelligente delle due cose insieme.

Se per caso vi stiate domandando cosa c’entra la questione con la sicurezza, sarei pronto a rispondere che in qualche modo qui si parla di una vera e propria emergenza sociale. Perché con i social network, le infezioni di idiozia, prima fisicamente arginate in luoghi e contesti ben precisi, adesso possono sfociare in vere e proprie pandemie.

Le persone sembra percepiscano sempre più l’urgente esigenza di diffondere qualsiasi notizia, anche se è solo una voce, e di commentarla, a tutti i costi. Cos’è, un gesto di utilità sociale perché la stampa “autorizzata” è carente? Oppure ha a che vedere con l’auto affermazione, con il bisogno di sentirsi protagonisti a tutti i costi?

Esiste poi una certa propensione a maltrattare la forma scritta. Ma non è solo una questione di stile. Pensiero e linguaggio devono “fare scopa”, altrimenti la chiarezza di un concetto vacilla, producendo pericolosi fraintendimenti. E quando questi si moltiplicano in modo esponenziale “scatta la rissa”. Quindi giù con gli insulti, come se potessero in qualche modo conferire una maggiore forza o autorevolezza al punto di vista che si intende condividere. Come se non bastasse, le conseguenze delle parole digitali, che sembrano così eteree, sono tutt’altro che immateriali.

Le fake news (ovvero le bufale, le notizie false), gli haters (ovvero i commentatori “violenti”), un’informazione ufficiale sempre più debole, costretta a muoversi più velocemente di prima ed in modo più flessibile alle ondate di interesse manifestate della rete, sono solamente alcuni dei sintomi, gravi, di un sistema al collasso.

Forse i poteri istituzionali e le autorità di controllo lavorano su confini troppo fragili e poco chiari. La stampa potrebbe rafforzare la qualità dell’informazione e dare un giro di vite alle modalità di “accreditamento” per fare notizia. Le piattaforme tecnologiche dovrebbero scegliere “che lavoro fare da grandi” ed agire di conseguenza. L’esecutivo ed il giudiziario avrebbero necessità di approfondire le regole e presidiarne l’applicazione anche sul territorio digitale.

Ma soprattutto le persone hanno bisogno di nuovi strumenti di apprendimento, per capire la realtà digitale che li circonda, l’oceano nel quale si sono tuffati, forse dimenticando a bordo il salvagente. A questo proposito risulta particolarmente meritevole il progetto Parole_O_Stili che, attraverso l’educazione alla parola, intende contribuire attivamente al ripristino di un equilibrio comunicativo della rete ormai smarrito.

In conclusione, reclamare tanto il diritto all’opinione ed esercitarlo in modo indiscriminato, senza un po’ di sana consapevolezza non porta a nulla di buono, per nessuno.