I camper movie sono il genere di film che fin dai primordi del cinema, raccontavano forse l’azione che è stata più rappresentata sul grande schermo: la rapina in banca.
I titoli da ricordare sarebbero infiniti, dal 1903, anno mitico, in cui si inizia a lavorare al cantiere di Hollywood, fino ai giorni nostri, le versioni dell’attacco al luogo che rappresenta la ricchezza per antonomasia sono davvero incalcolabili, con il coinvolgimento dei maggiori registi e interpreti della storia del grande sogno nella sala buia.
Il cinema contribuì a consolidare il mito delle banche come luoghi della sicurezza, in cui i soldi erano al riparo da ogni rischio. La banca era innanzitutto la sicurezza che poteva offrire. Non a caso clienti di riguardo nei primi anni del 900, venivano accompagnati a visitare il caveau, la grande cassaforte sotterranea, in cui si custodivano i depositi.
Oggi rimane la centralità della sicurezza ad accreditare una banca, e più in generale una qualsiasi istituzione finanziaria, ma cambia l’oggetto: non sono più i soldi che devono essere protetti ma i dati.
Una banca, potremmo dire è innanzitutto la sua cybersecurity.
Ognuno di noi può infatti chiedersi quale sia la prima esigenza che espone al dirigente dell’agenzia dell’istituto di credito con cui opera: sono sicuri i miei dati?
Vale per le banche ma vale ormai per la stragrande maggioranza di aziende e professioni. I dati con cui si opera sono oggi il vero tesoro da tutelare. E per i malintenzionati, sono il vero bottino che si persegue.
Il 75% delle violazioni digitali che accadono ormai ogni ora nel nostro paese, riguardano il capillare sistema di imprese e professioni. Vengono attaccati computer, telefonini, data server, in generale depositi di documenti che rappresentano la tracciabilità della nostra vita.
Come spiega Maurizio Ferraris nel suo saggio Documanità (Laterza editore) “definisco documediale la rivoluzione in corso perchè si basa sull’intersezione fra la crescita della documentalità, ossia la produzione di documenti in quanto elemento costitutivo della realtà sociale, e quella della medialità, che nel digitale non è più segnata dalla relazione da uno a molti, bensì da molti a molti”.
Una descrizione che fotografa il modo con cui producono e si organizzano la stragrande maggioranza delle imprese, ossia tracciando ogni atto negoziale e produttivo attraverso la composizione di documenti digitali che vengono poi fatti circolare in ambiti più o meno ampio, a secondo del modello di business.
Questa dinamica è oggi inesorabilmente esposta ad un pericolo strutturale costituito dalle intrusioni di esterni che mirano a sequestrare questi documenti per ricavarne un profitto.
La sicurezza nella gestione di questa circolarità documediale, diciamo per usare il termine di Ferraris, certifica l’affidabilità dell’impresa. Ora nella progressiva accelerazione di questi scambi diventa indispensabile contare sulla riservatezza del reciproco scambio di documenti.
In questo contesto un’azienda – prendiamo ancora l’esempio della banca- deve garantire che qualsiasi trasmissione di dati possa avvenire nella più assoluta esclusività, come si dice con la certificazione del contro end to end di ogni passaggio di informazioni.
Ma per garantire questo, e qui veniamo alle dolenti note, è indispensabile che l’impresa sia titolare sia dei software gestionali con cui tratta i dati e sia dei luoghi di deposito di questi dati. Una circostanza che al momento riguarda un’infima minoranza.
Nei giorni scorsi un grande banca di interesse nazionale ha annunciato che nel proprio percorso di digitalizzazione ha stipulato un accordo con Google per l’ottimizzazione dell’intera catena del valore delle infrastrutture digitali che presidiano la propria cybersecurity. Intendiamo di conseguenza che anche le infrastrutture quali i data server dove saranno custoditi i dati sensibili dei clienti saranno condivisi con Google, ossia con un gruppo che ricava il proprio fatturato dalla capacità di trasformare ogni nostra scia digitale in una profilazione dettagliatissima delle nostre caratteristiche come utenti e consumatori.
Ci chiediamo se la banca d’Italia, come organismo di controllo del mercato bancario non debba farci sapere quali cautele saranno previste per tutelare rigidamente i correntisti. Cautele che non possono essere limitate ad un capitolato tecnico in cui si precisa che il data server sarà di esclusivo acceso da parte della banca. Progressivamente questa necessità, ossia di essere titolari dei servizi digitali strategici che assicurino la piena autonomia del sistema economico nazionale, investiranno anche aziende di dimensione meno rilevante della banca in questione. Tanto più che le interconnessioni tecnologiche fra sistemi di produzione, prodotti sofisticati e gli apparati di difesa e sicurezza nazionale stanno ingigantendosi, rendendo ogni impresa di fatto, un tassello centrale nell’intero circuito di protezione dell’indipendenza nazionale.
La legge che proprio in questi giorni è in discussione sull’intelligenza artificiale tratta sono di rimbalzo della questione dei dati, mentre è ora il momento per dare al paese indicazioni precise per riorganizzare i sistemi imprenditoriali alla luce di un fattore, la sicurezza, che lega imprese, professioni e sistema paese in un nuovo patto di solidarietà sovrana.
In un contesto geopolitico sempre più instabile, dove le minacce informatiche colpiscono con precisione chirurgica infrastrutture strategiche e account personali, e in un mondo in cui abbiamo capito quanto sia insicuro la dipendenza tecnologica delle nostre democrazie dalle autocrazie, è ora – nell’era del trumpismo – che l’Italia e l’Europa si attivino per rafforzare la propria autonomia tecnologica.
A questa chiamata fa appello la Conferenza “Indipendenza Digitale – Un patto per il futuro economico e tecnologico dell’Europa e degli europei”, promossa da Key4biz, che si terrà a Roma il 27 maggio dalle 14:30 alle 18:00 a Palazzo Wedekind.
Per partecipare all’evento “Indipendenza Digitale” a Roma il 27 maggio pomeriggio clicca qui.