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Un sindacato a Google, si rompe il patto di omertà

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Il nostro sindacato si impegna a proteggere i lavoratori di Alphabet, la nostra società globale e il nostro mondo. Promuoviamo la solidarietà, la democrazia e la giustizia sociale ed economica.

Il Manifesto di Alphabet Worker Union

Inizia così il manifesto costitutivo del nuovo Alphabet Worker Union (https://alphabetworkersunion.org/ ) il primo sindacato dei dipendenti di un grande gruppo digitale.

Senza retorica e facili parallelismi, certo che queste parole che arrivano dalla Silicon Valley non possono passare inosservate, questo documento che potrebbe essere ricordato come la nuova fase della civiltà digitale. 

Il New York Times di oggi scrive che per la prima volta centinaia di moderne figure del sistema produttivo di Google hanno formalmente costituito un nucleo sindacale aderente all’organizzazione nazionale delle Unions americana AFL-CIO. Siamo ovviamente ai primi passi, al momento si calcola in circa 500 gli aderenti su una massa di dipendenti che arriva ormai a 250 mila.

Una comunità scientifica di ingegneri e programmatori nel sindacato dei lavoratori di Google

È interessante il modo e la logica con cui queste centinaia di persone si siano organizzate.

Non un gruppo di disperati, sfruttati e sottopagati, ma una comunità scientifica di ingegneri e programmatori che si organizza per essere utili al mondo. 

La nostra centralità nel processo produttivo, si legge nel testo, la mettiamo a disposizione sia dei gruppi di lavoratori meno protetti nel ciclo digitale e, soprattutto, la vogliamo spendere per la società globale.

In sostanza più che il numero, conta la collocazione di queste persone, tutte più o meno nella filiera della ricerca dei nuovi dispositivi di intelligenza artificiale. 

Sono figure di snodo che non possono essere facilmente bypassate. 

L’obiettivo del sindacato dei lavoratori di Google

Infatti scrivono nel loro manifesto di fondazione: “Useremo il nostro potere recuperato per controllare ciò su cui lavoriamo e come viene utilizzato. Garantiremo che le nostre condizioni di lavoro siano inclusive ed eque. Non c’è posto per molestie, fanatismo, discriminazione o ritorsione. Diamo la priorità ai bisogni e alle preoccupazioni degli emarginati e dei vulnerabili. I lavoratori sono essenziali per il business. La diversità delle nostre voci ci rende più forti”. Si pone qui per la prima volta in maniera esplicita il tema di una contrattazione da parte dei programmatori del software che elaborano: non solo efficienza, si potrebbe titolare.

E conta poi anche l’effetto di immagine. 

Non dimentichiamo che Google nasce con lo straordinario e fortunatissimo slogan Don’T Be Devil, non essere il male. Per anni il logo arcobaleno della società ha rappresentato l’altra faccia pulita del mondo, quella che produceva risorse senza sprecarne e attivando la collaborazione sociale. Essere buoni non è una decorazione è parte costitutiva del capitale aziendale. Incrinare questa immagina, schiacciare Larry Page e Sergey Brin, i due ancora giovani e dinoccolati fondatori dell’impero, nel ruolo di padroni delle ferriere rompe quel patto di complicità che ha portato Google ai vertici del mercato.

L’atto di questo pugno di softeristi potrebbe essere puro velleitarismo di ben pagati professionisti radicaloidi, oppure banale movimentismo legato all’emotività del momento. Ma dobbiamo subito osservare come la scelta sindacale aggiunga al termine di un lungo percorso, che ha visto per anni agitarsi un’irrequietezza del personale di Google che cercava di avere una presa maggiore sul proprio lavoro.

Tanto più che in questi mesi di pandemia, che pure hanno prodotto per il comparto digitale profitti insperati, i problemi non sono mancati.

C’è burrasca a Mountain View, alle prese anche con il caso di Temnit Gebru

C’è burrasca infatti da tempo a Mountain View, il quartiere generale di Google è agitato dal caso di Temnit Gebru, l’ex responsabile dell’etica dei sistemi di intelligenza artificiale del potente motore di ricerca licenziata per le sue critiche al carattere discriminatorio e gerarchico del modello semantico adottato dai risponditori automatici di Google. 

Sulla scorta di quella denuncia si è aperto un baratro: 3.000 fra studiosi, ricercatori e consulenti di Google hanno chiesto il reintegro della Gebru.

Sundar Pichai, il CEO di Alphabet, la conglomerata che controlla Google, ha dovuto fare autocritica, ammettendo superficialità ed errori nelle reazioni alle critiche di Gebru. Il nodo sensibile riguarda proprio l’etica: nell’intelligenza artificiale, con l’accelerazione di ogni meccanismo decisionale, chi può garantire che i dispositivi che guidano la finanza o la sanità, o la formazione e il giornalismo siano improntati a valori e modelli etici trasparenti e condivisbili? Gebru spiega dettagliatamente nel suo report che i sistemi di Google importano pregiudizi e interessi propri dei programmatori e della proprietà. 

Se nella struttura decisionale di Google solo il 3 % dei dirigenti è di colore è evidente che i sistemi semantici parlano e pensano riflettendo questa discriminante. 

Il bias nell’intelligenza artificiale

Se, come è accaduto in Inghilterra, chi elabora gli algoritmi per valutare gli studenti sono provenienti solo da certe scuole è evidente che il sistema elaborato riflette quella gerarchia di valori. 

L’intelligenza artificiale non è un prodotto di largo consumo, è una forma di interferenza nelle nostre menti e nei nostri comportamenti: la proprietà del sistema non può essere l’unico garante della qualità etica e sociale del prodotto. Infatti, scrivono i nuovi sindacalisti digitali “Garantiremo che Alphabet agisca in modo etico e nel migliore interesse della società e dell’ambiente. Siamo responsabili della tecnologia che portiamo nel mondo e riconosciamo che le sue implicazioni vanno ben oltre Alphabet. Lavoreremo con coloro che sono interessati dalla nostra tecnologia per garantire che serva il bene pubblico”.

Calcolo e bene pubblico: questa è la bomba che potrebbe ridisegnare l’intero sistema digitale

Calcolo e bene pubblico: questa è la bomba che potrebbe ridisegnare l’intero sistema digitale. Se l’intreccio fra algoritmi predittivi e big data è la base per la riorganizzazione della società, con il riordino di interi settori, come la sanità, l’informazione, la produzione, la scuola, bisogna che questi sistemi, che mutano per altro vorticosamente siano permanentemente sotto controllo. Questo controllo che in alcuni casi viene già oggi esercitato dagli Stati, come nei Paesi autoritari, o da sistemi istituzionali e burocratici, come per altro accade ancora in Europa, deve invece essere gestito direttamente dalle comunità sociali. Quel velo di diffidenza e sarcastica indifferenza che ancora circonda le ambizioni di un negoziato sociale del calcolo, in cui è la stessa struttura dell’algoritmo che viene sotto posta a critica e controlla, ora sta diventando più plausibile. Integrare gli interessi sociali di città, università, categorie professionali, con le competenze dei lavoratori della conoscenza rende più praticabile e gestibile una nuova fase in cui, come sta accadendo oggi per i vaccini, i sistemi digitali, siano permanentemente sotto posto a una critica pubblica.

Un algoritmo si controlla con un altro algoritmo, e una piattaforma può essere monitorata da un’altra piattaforma. Questo impone ai sistemi sociali, pensiamo all’idea di smart city ancora tutta risolta in un semplice appalto ai grandi monopoli digitali di funzioni pubbliche, si dotarsi di strutture in grado di rendere consapevole e autonoma la scelta delle soluzioni tecnologiche. Avere una sponda di competenze e di valori nelle aziende, che garantisca un controllo di qualità proprio nei processi produttivi iniziale è essenziale. È quanto accade nelle redazioni, o nei centri di ricerca. Niente di nuovo, ma da oggi niente come prima.

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