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Tutti “a caccia” di CO2: un mercato da 55 miliardi di dollari entro il 2030

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Che cosa sono le tecnologie CCUS e a che servono

La cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio di diossido di carbonio (CO2) non è solamente un insieme di tecniche e tecnologie che potrebbe concorrere al raggiungimento degli obiettivi ambientali e climatici del secolo, ma rappresenta anche una grande occasione di business per le aziende e le startup specializzate.

Si tratta delle più avanzate soluzioni CCUS (Carbon Capture Use and Storage), tramite cui è possibile ridurre il carbonio in atmosfera direttamente alla fonte, cioè all’interno degli impianti industriali.

Molta della CO2 prodotta può infatti essere riutilizzata in altri processi, mentre la parte residuale può essere immagazzinata in appositi siti di stoccaggio in pozzi geologici situati anche sotto i 1000 metri di profondità nel terreno, o anche nelle profondità degli oceani (sotto l’effetto dell’enorme pressione della colonna d’acqua).

Cosa si può fare con la CO2? Gli impieghi sono diversi, perché è una materia prima pronta per un nuovo ciclo, che può risultare molto utile come prodotto intermedio nell’industria chimica, direttamente nella produzione di plastica, biocarburanti, edilizia (produzione di cemento, calcestruzzo e malte), nella produzione di asfalto stradale.

Un mercato mondiale che cresce rapidamente

Per questo il numero di imprese di ogni grandezza si sta cimentando in questo nuovo mercato, che secondo una ricerca Rystad Energy potrebbe valere più di 55 miliardi di dollari entro il 2030.

Ad oggi ci sono già più di 200 progetti annunciati, molti dei quali in fase di implementazione, ma si attende un aumento sensibile delle iniziative man mano che le organizzazioni di tutto il mondo si apprestano a raggiungere gli obiettivi di zero emissioni per la fine del decennio.

Al momento, la capacità stimata delle tecnologie CCUS a disposizione è di 35- 45 milioni di tonnellate di CO2 rimosse dall’atmosfera ogni anno, ma entro il 2030 tale dato dovrebbe crescere di dieci volte, fino a raggiungere le 550 milioni di tonnellate di CO2 rimosse ogni anno.

I costi di cattura sono attesi in una forbice tra 75 e 100 dollari a tonnellata di CO2.

Uno strumento in più nelle nostre mani per affrontare le grandi sfide climatiche ed ambientali che abbiamo di fronte, ma che al momento non sembra bastare, con le emissioni nocive che l’anno passato sono tornate a crescere del +6% a oltre 36 miliardi di tonnellate.

Secondo Rystad Energy e l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) da qui al 2050 bisogna riuscire a catturare circa 8 gigatonnellate di CO2, un livello operativo molto più alto delle 550 milioni di tonnellate annue stimate entro il 2030.

Con le emissioni globali di CO2 che rimbalzano a nuovi massimi, dopo l’arrivo del Covid-19 nel 2020, la domanda di progetti CCUS sta accelerando rapidamente. Amplificati dalle preoccupazioni sulla sicurezza energetica, messa in forte dubbio dalla guerra intrapresa dalla Russia in Ucraina, le richieste per una rapida decarbonizzazione del settore energetico, soprattutto in Europa, stanno diventando più insistenti“, ha spiegato Yvonne Lam, capo della ricerca CCUS di Rystad Energy.

La corsa di Europa e USA

In termini di mercato, Europa e Nord America da soli raggiungeranno entro la fine del decennio una capacità pari a 450 milioni di tonnellate di CO2 catturate, che equivale all’80% del totale stimato a livello mondiale nel periodo.

L’Europa da sola potrebbe sviluppare una capacità di cattura pari a 222 milioni di tonnellate di CO2, contro il dato esiguo odierno di appena 7 milioni di tonnellate.

È probabile che un terzo degli annunci previsti provenga solo da Regno Unito, Paesi Bassi e Norvegia.

Per quanto riguarda la capacità teorica di stoccaggio nel sottosuolo, si legge sul dito dell’ENI, OGCI (Oil & Gas Climate Initiative) ha in corso un censimento dei siti adatti allo scopo e di recente ha fornito una stima di massima relativa ai progetti finora presi in considerazione (512 in 12 paesi o regioni) pari complessivamente a più di 12.000 miliardi di tonnellate di anidride carbonica.

Il contributo di queste tecnologie alla transizione energetica pulita varierà senza dubbio, anche in maniera considerevole, tra paesi e regioni, senza contare che potrebbero sorgere diversi problemi, se non proprio veri e propri ostacoli all’impiego di queste soluzioni.

CCUS: c’è chi dice no

Quando, come e dove verranno applicate le tecnologie CCUS dipenderà da una serie di considerazioni, tra cui le dimensioni e l’età degli impianti elettrici e industriali esistenti, l’ammontare delle risorse energetiche domestiche (sia fossili che rinnovabili), il costo e la disponibilità di tecnologie alternative a basse emissioni di carbonio, la prossimità delle risorse di stoccaggio di CO2, l’avere o meno un’infrastruttura dedicata al trasporto di carbonio.

Secondo il WWF, in uno studio molto critico uscito nel 2021, lo sviluppo di un’industria CCS-CCUS è inevitabilmente associata, per sinergie tecniche ed economiche, alla filiera del fossile, ma soprattutto non si hanno sufficienti studi sulla sicurezza di queste soluzioni, sia ambientale, sia per la salute dell’uomo (soprattutto in caso di incidenti o attacchi esterni alle infrastrutture).

Questo legame implica che il sostegno alla CCS-CCUS rischi di essere un modo per tenere in vita le filiere delle fossili compensandone solo in maniera poco significativa le emissioni-serra. Più che un’opzione per la decarbonizzazione, la CCS-CCUS rappresenta quindi un’estensione delle attività dell’industria fossile con la prospettiva di procrastinare il decommissioning di impianti della propria filiera, e con esso le bonifiche relative”.

Fondamentalmente, molte associazioni ambientaliste vedono in questo argomento una forte contraddizione: le CCS-CCUS sembrano commercialmente proponibili solo in funzione della sopravvivenza dell’industria dei combustibili fossili, come quella del gas e del petrolio, il cui phase-out, invece, è ora assolutamente indispensabile alla decarbonizzazione.

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