Analisi

Tim-Kkr: perché non interviene il Ministro Franceschini, rivendicando anche ‘sovranità culturale’?

di |

Il maggiore operatore di telefonia del Paese, che detiene gran parte dell’infrastruttura di tlc potrebbe essere ceduto agli stranieri e nessuno si scandalizza, anche per i nessi con l’industria dei contenuti?

La vicenda della offerta del fondo statunitense di “private equityKkr (Kohlberg Kravis Roberts) di acquisto di Telecom Italia alias Tim (ovvero una cosiddetta “opa amichevole” per il 100 % delle azioni ordinarie e di risparmio) è complessa e multidimensionale, e può essere affrontata da più punti di vista: su queste colonne, Michele Mezza ha proposto questa mattina una lettura “mediologica” (di politica dei media) lungimirante e condivisibile (vedi “Tim e i giornali, perché la nuova guerra delle Tlc rivaluta la funzione dei social”), ed il Direttore di “Key4bizRaffaele Barberio, un paio di settimane fa, commentava la gestione deludente di Tim (vedi “Key4biz” del 5 novembre 2021, “Tim come il Titanic? Finisca la stagione degli annunci e si passi alle scelte concrete”)…

Sempre oggi, Paolo Anastasio affronta un’altra delicata questione, ovvero le possibili conseguenze rispetto ai dati sensibili della Pubblica Amministrazione italiana, una questione di “sicurezza nazionale” che non può essere considerata marginale (vedi “Tim-Kkr, l’acquisizione complicherebbe anche la gara Cloud Psn. Quali garanzie per i dati strategici della Pa?”)… E c’è chi ricorda che la questione ha anche ricadute di geopolitica internazionale: Tim possiede e controlla anche la rete internazionale Sparkle su cui corrono i dati di 32 Paesi, tra cui la maggior parte di quelli che si affacciano sul Mediterraneo. E va ricordato che l’impostazione strategica internazionale del governo Draghi è quella di un allontanamento dalla Cina e di un avvicinamento agli Usa…

La vicenda ha quindi ricadute afferenti all’economia nel suo complesso (forza-lavoro inclusa), alla sicurezza nazionale, al sistema delle infrastrutture delle tlc nazionali (la mitica “rete unica” nazionale)… Ma c’è dell’altro.

Qui vogliamo infatti manifestare alcune considerazioni di approccio “culturologico”: di politica culturale, appunto.

Perché in questa vicenda non interviene il titolare del Ministero della Cultura, Dario Franceschini?!

La risposta che la questione non è di sua competenza è tesi banale, superficiale, fallace: una decisione come quella che si prospetta ha conseguenze indirette ma fondamentali sull’intero assetto del sistema culturale e mediale nazionale.

Siamo infatti convinti che le politiche mediali – e quindi anche quelle delle telecomunicazioni – e le politiche culturali dovrebbero essere gestite in modo coordinato, sintonico, sinergico (il che in Italia non avviene): l’evoluzione del sistema dei media e l’avvento del digitale hanno finito per “confondere” le tecnologie con i contenuti, l’hardware con il software, ed un Paese evoluto deve avere una visione strategica d’insieme.

Questa visione integrata e strategica, in Italia, raramente c’è.

Audiovisivo italiano: spostamento all’estero del “decision-making” di lungo periodo, con buona pace del “soft power” italiano

Partiamo da un fenomeno sul quale quasi nessuno sta riflettendo: grazie alla grande iniezione di risorse che il Ministro Dario Franceschini ha deciso di stimolare nello stanco corpo dell’industria audiovisiva nazionale, anzitutto con la legge che è riuscito a far approvare a fine 2016 (la legge n° 220/2016 cosiddetta ormai “Legge Franceschini”), il sistema della produzione di immagini in Italia è cresciuto, almeno come “output” (quantità di film cinematografici realizzati, quantità di ore di fiction prodotte…), anche se nessuno ha finora mai realmente indagato a fondo sul reale rafforzamento strutturale della base industriale…

Nessuno – in effetti – è ancora in grado in Italia di dimostrare se si vive ancora in un sistema audiovisivo fortemente assistito, o se l’intervento dello Stato ha provocato un incremento della capacità (e volontà) di investimento degli imprenditori privati: temiamo che la vocazione al rischio dei produttori audiovisivi italiani sia ancora modesta, ma certamente non abbiamo, nemmeno noi, un dataset sufficientemente trasparente per poter sostenere che la nostra tesi sia corretta (né altri possono sostenere la correttezza di differente tesi).

Cosa ha determinato “la legge Franceschini”? Che entrassero nel sistema – soprattutto grazie ad uno strumento di stimolazione tributaria qual è il “tax credit” – più risorse: molte più risorse… Si ricordi che, a fine ottobre 2021, il fondo previsto dalla “Legge Franceschini” del 2016 per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo è stato incrementato di ulteriori 110 milioni di euro. L’importo minimo annuale del fondo, nel 2016 di 400 milioni di euro, partirà quindi da 750 milioni di euro

Conseguenze di questa robusta iniezione di risorse?!

Tra le altre, secondo i dati proposti recentemente dall’Associazione dei Produttori Audiovisivi (Apa) nel suo “3° Rapporto sulla Produzione Audiovisiva”, i ricavi cumulati delle prime 50 imprese di produzione audiovisiva italiani sarebbero passati dai 645 milioni di euro del 2013 ai 1.090 milioni di euro dell’anno 2019 (per l’anno 2020 si prevede – conseguenze della pandemia – un calo tra il 5 e l’8 % rispetto all’esercizio precedente).

Alcune società di produzione italiane si sono quindi strutturalmente rafforzate, il mercato audiovisivo nazionale è cresciuto (dal punto di vista della capacità produttiva e dell’offerta, del fatturato e complessivo), e sono entrati in campo “player” stranieri…

Tra il 2015 ed il 2021, il sistema audiovisivo italiano ha assistito ad una serie di operazioni che si definiscono di “finanza straordinaria”, ovvero di “merger & acquisition” (“M&A”), aggregazioni di imprese e passaggio delle quote azionarie di controllo:

  • la tedesca FremantleMedia (a sua volta controllata dal gruppo tedesco Rtl-Bertelsmann) ha acquistato WildSide
  • la francese Banijay (già Zodiak) ha acquisito Magnolia (ed i soci italiani De Agostini sono divenuti minoranza)
  • la tedesca Beta Film ha acquisito Cross Production (nata da una costola di Magnolia)
  • la britannica Itv Studios ha acquisito Cattleya
  • la francese Federation Entertainment ha acquisito Fabula Pictures
  • la francese Mediawan ha acquisito Palomar
  • la statunitense Oaktree(fondo specializzato in immobiliare e fondi pensione) ha acquisito Stand By Me e Picomedia

Di fatto, alcune delle maggiori società di produzione dell’immaginario audiovisivo sono passate in mani straniere, nell’arco di un quinquennio.

Si dirà: “è il mercato, bellezza!”. Si dirà “è la globalizzazione”. Si dirà “si rafforza l’internazionalizzazione dell’audiovisivo italiano”.

In parte, è vero. In parte, non è vero.

Se spesso coloro che cedono (gli imprenditori fondatori) la maggioranza delle quote proprietarie rivendicano pubblicamente che rimane in mano loro “il controllo editoriale” (cioè il processo decisionale delle prossime produzioni), è indubbio che si stia assistendo ad uno spostamento all’estero del “decision making” strategico di medio-lungo periodo.

Si dirà, ancora: siamo italiani, ma anche europei, e quindi “qual è il problema?”.

Il “problema” consiste nella rivendicazione di una sovranità nazionale nelle industrie culturali e mediali.

Non si tratta di una questione minore o marginale, nella costruzione di un “immaginario nazionale” e nella costruzione di un “soft power” nazionale: questo secondo concetto è molto di moda, in questi tempi (il Presidente dell’Anica Francesco Rutelli è stato tra i primi a rifletterci seriamente), ma, se esso è valido, deve essere preso in considerazione che questo “soft power” – per essere tale in ottica internazionale – deve essere (deve restare) in mani nazionali.

Come ha scritto sul quel che sta accadendo nel settore audiovisivo nazionale Giovanni Cocconi su “The Huffington Post” (il 5 maggio 2020), in verità “lo shopping straniero è una brutta notizia, anche perché in effetti non succede mai il contrario, e cioè che una nostra società acquisti una straniera. Il problema esiste e ha molte parentele con quello che ha indebolito altri settori della creatività italiana come la moda e il lusso: la scarsa capacità finanziaria, la cronica difficoltà di cercare capitali sul mercato, la tendenza a passare all’incasso appena si presenta l’occasione” (si ricordi en passant che Cocconi è stato tra l’altro a capo dell’ufficio stampa del Ministero dello Sviluppo Economico, dove ha lavorato anche al “Piano Banda Ultralarga” e alla prima consultazione pubblica sulla Rai).

Qualcuno in Italia, dalle parti del Ministero della Cultura, si sta ponendo il problema?!

Perché, un… “problema” certamente c’è.

Hardware e software sempre più convergenti, reti e cavi e contenuti e “social media” si intrecciano: il caso TimVision è sintomatico del nuovo scenario

Passando dal “piccolo mondo” dell’industria dell’audiovisivo al “grande business” dell’industria delle telecomunicazioni, riteniamo che la questione si ri-proponga: non si tratta soltanto di rivendicare il diritto alla “italianità” dei processi decisionali, ma di ragionare di politica industriale ed al contempo di politica culturale, allorquando “hardware” e “software” convergono sempre di più, e l’interazione tra industria delle tlc ed industria dei contenuti diviene sempre più intensa ed intima…

Basti pensare a come la stessa Telecom Italia è entrata nel business dell’offerta di contenuti audiovisivi, attraverso la piattaforma TimVision: si tratta della “tv on demand” del Gruppo Telecom Italia, che, sulla carta, non è differente da soggetti come Netflix e Now Tv

È importante osservare come Tim sia entrata in questo mercato, recentemente, in modo prepotente: è stato stipulato un accordo tra Dazn e Tim in regime di esclusiva, ben descritto da Gianfranco Giardina sulla qualificata testata specializzata “DDay” nelle sue conseguenze sui consumatori finali.

Tim-Dazn: si tratta di un accordo da 1 miliardo di euro, ovvero 340 milioni di euro l’anno per 3 stagioni…

Solo Tim può essere veicolo terzo dell’“app” di Dazn e dei suoi contenuti. Un cliente potrà abbonarsi direttamente a Dazn e vedere le partite attraverso, per esempio, le piattaforme “smart tv” che dispongono dell’app Dazn, ma le offerte commerciali saranno appannaggio di Tim, che sta difendendo la propria posizione di esclusiva anche allestendo diversi escamotage di ordine tecnico, per offrire un servizio unico. E ovviamente l’app Dazn non sarà presente su altre piattaforme proprietarie diverse da TimVision… Scrive Giardina, domandandosi in che modo si potranno vedere le partite in tv? “Stante la situazione sopra esposta, e salvo contrordini, i contenuti di Dazn potranno essere viste attraverso le app di Dazn su device mobili, il sito di Dazn su pc, le smart tv dotate di app Dazn, le altre piattaforme standard (per esempio la FireStick di Amazon) oppure attraverso il set top box di Tim, a prescindere dal gestore che offre la connettività. Sparirà invece l’app Dazn dai ricevitori Sky e dai box degli altri gestori telefonici”.

Conclude il Direttore di “DDay”: “un discreto modo per Tim, soprattutto in tempi di “switch-off” tv e in mancanza di decoder Dtt smart molto evoluti, per rimettere uno zampino (o uno zampone) all’interno di case che negli anni si sono allontanate dall’ex monopolista. D’altronde toccherà pur dare un senso ai 340 milioni all’anno (solo di diritti) che Tim ha deciso di investire in questa partita”.

Quella della “convergenza” di Telecom verso i contenuti è intrapresa che è nata ormai oltre dieci anni fa, nel 2009 con il nome di Cubovision. D’altronde Tim ha una storia lunga in materia di piattaforme “streaming” video: basti ricordare l’avanguardia di Rosso Alice, che fu lanciata nel 2004 e, dopo soltanto 4 mesi, si registrarono più di 1,2 milioni di spettatori unici (quasi l’8 % degli utenti internet italiani in quel periodo), con più di 23,7 milioni di pagine “scaricate”. Certamente albori assai positivi nello streaming per il gruppo italiano, sebbene negli anni successivi non vi fu il successo sperato.

In virtù di accordi sottoscritti con alcuni “big player” del settore, come in primis Dazn, l’offerta di Tim Vision è oggi ampia e contiene molti titoli di successo (film, serie tv, fiction Rai, cartoni animati, documentari, eventi sportivi, concerti…). C’è anche un’estesa area “free” dove vedere la programmazione tv degli ultimi 7 giorni dei principali canali Rai e La7.

TimVision, “aggregatore totale”, nell’offerta 2021/20212, propone 100 ore di contenuti originali

In sintesi, TimVision è il sempre più aggressivo servizio di “streaming” realizzato dall’operatore telefonico Tim: consente, a chi ha un abbonamento di rete fissa o anche a coloro che non sono clienti, di poter accedere ad un articolato catalogo di contenuti multimediali (migliaia di titoli in Hd). TimVision offre poi forme di pacchetto integrato sia con il “Mondo Netflix” sia con il “Mondo Disney” (questa è la denominazione delle offerte).

A rivoluzionare TimVision all’interno del gruppo guidato da Luigi Gubitosi è stata la strategia del “piano industriale” del 2019 lanciata da Carlo Nardello, Chief Strategy, Business Development & Transformation Officer (Nardello è stato per anni a capo della Direzione Marketing della Rai), e Luca Josi, Direttore Brand Strategy, Media & Multimedia Entertainment. Ad implementare questa strategia è stato chiamato Andrea Fabiano, ex Direttore di Rai1 passato nel 2019 in forze nel gruppo Tim come Vice President Entertainment e ora alle Strategie di Gruppo.

Si ricordi che TimVision è stata incorporata in Tim nel giugno dell’anno scorso: l’obiettivo dichiarato è stato quello di ottimizzare tutte le realtà produttive di contenuti del gruppo all’interno della Direzione Brand Strategy, Media & Multimedia Entertainment di Tim, allora guidata da Luca Josi (già fondatore del gruppo Einstein Multimedia, di cui è stato Presidente dal 1994 al 2013; in gioventù è stato segretario del Movimento Giovanile Socialista, da 1991 al 1994, nonché membro della direzione e dell’esecutivo Psi negli stessi anni). Grazie all’incorporazione, dunque, un’unica direzione guida da allora la comunicazione e i contenuti del gruppo, e per questa ragione le produzioni di entrambe si sono riunite in una sola struttura. Andrea Fabiano, ex direttore di Rai 1 e già Amministratore Delegato di Timvision, è rimasto in carica come Responsabile Multimedia di Tim (TimVision); attualmente Fabiano è Responsabile Strategy & Transformation nella struttura Strategy, Business Development & Transformation Office di Tim. A fine settembre 2021, Luca Josi ha lasciato la guida dell’intrapresa, anche se poco prima aveva presentato alla stampa l’offerta 2021/20212 di TimVision, come ben descritto dall’accurato mensile specializzato “Tivù” pubblicato da Duesse (testata che ha dedicato a TimVision la copertina dell’edizione di settembre), sulle cui colonne aveva enfatizzato la qualità del catalogo TimVision (definito da Antonella Dominici, Vice President TimVision and Entertainment Products, un “aggregatore totale”). In occasione della conferenza stampa, Josi aveva annunciato un “monte ore di contenuti digitali che supererà le 100 ore”.

L’“aggregatore totale” Tim (TimVision) è quindi entrato definitivamente anche nella produzione di contenuti.

Tim ha investito 1 miliardo di euro nei diritti della “serie A” per lanciare alla grande TimVision: “Con TimVision puoi avere TUTTO”

Come abbiamo segnalato, Tim si è impegnata a pagare dei 340 milioni a stagione, per tre anni, alla pay tv via internet per i diritti della “serie A”, ma il rapporto tra Tim e Dazn è in effervescenza, anzi in crisi: Tim è insoddisfatta dei suoi ritorni sull’investimento nel calcio. Parrebbe che anche lo stesso Amministratore Delegato Luigi Gubitosi sia ben cosciente dei risultati deludenti dell’ultimo trimestre.

Si ricordi che l’intrapresa era comunque partita in salita, dato che l’Antitrust aveva bloccato la possibilità di vendere contratti “bundle” ossia “calcio” + “abbonamento a Internet”. In effetti, Tim avrebbe potuto incrementare i propri guadagni con un’offerta che includesse il “pacchetto calcio” di TimVision e la fibra ottica, ma questo “bundle” è stato vietato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Conseguentemente, Tim ha promosso dinamiche di scontistica aggressiva: l’abbonamento non solo al calcio di Dazn, ma anche alla “Coppa dei Campioni” con Infinity, ai canali Disney, a Netflix e alla programmazione di TimVision è stato offerto in un pacchetto sotto i 30 euro al mese…

Ad inizio ottobre, il pacchetto che comprende tutti i servizi di “streaming” video più importanti, quindi Disney+, Netflix, Dazn e Infinity+, compresa TimVision, è stato offerto – fino al 15 novembre 2021 – tramite la promo “Gold” a 29,99 euro al mese, bloccati fino al 30 settembre 2022.

Lo slogan è stato “Con TimVision puoi avere TUTTO” (a caratteri maiuscoli, ovviamente). Un altro slogan è “Tim Vision, la nuova casa del calcio e delle tue passioni”.

Secondo alcune stime, gli utenti di TimVision sarebbero cresciuti a quota 700.000, a fronte di un target di almeno il doppio (ma non ci sono dati ufficiali), e comunque con margini ancora troppo modesti per Tim, e quindi le previsioni per il pre-consuntivo 2021 sono scemate. Rilevanti, nello scenario, le difficoltà legate alla visione, soprattutto nelle prime giornate di campionato. La colpa non sarebbe stata della rete Tim, ma dei server di Dazn… Tim sta chiedendo a Dazn di rinegoziare il contratto.

Si ricordi che Dazn ha investito ben 2,4 miliardi di euro per i diritti di trasmissione delle partite di calcio di “serie A” nel triennio 2021-2024.

Del ruolo di Tim anche nell’industria mediale e culturale nazionale

Sono sufficienti queste considerazioni, per comprendere quanto il ruolo di Tim sia già oggi rilevante nel mercato dell’offerta audiovisiva nazionale.

Non è questione, quindi, soltanto di reti e di cavi, ma anche di contenuto e finanche “social media”.

Eppure, come ha scritto oggi Michele Mezza, “si presenta una società, presieduta per altro dall’ex capo della Cia, nonché comandante in capo in Iraq delle truppe americane Davide Petraeus, e candidamente si propone come proprietario unico di tutto questo ben di Dio. Cosa che in Francia o in Germania non avrebbero aperto nemmeno la busta che contiene la proposta. Invece da noi non solo l’accogliamo con serenità, ma la sollecitiamo festosamente”.

In tutta la vicenda delle possibili evoluzioni del ruolo di Tim in un’Italia intesa come “sistema Paese”, poi, non dovrebbe essere ignorato il ruolo della Rai – Radiotelevisione Italiana spa (ruolo che invece, su queste tematiche, continua ad essere completamente assente, e ricordiamoci anche della controllata RaiWay…): crediamo che, in una prospettiva di rilancio dell’industria nazionale delle tlc e dei media, una sinergia tra Tim e la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo avrebbe molto senso, proprio nell’economia della convergenza tra reti e cavi e contenuti.

Sergio Bellucci (Net Left): situazione drammatica per il Paese, decisioni assunte senza dibattito pubblico, la rete italiana di tlc deve restare italiana”

Una analisi interessante della vicenda Tim/Kkr è stata proposta oggi da Sergio Bellucci (fondatore di Net Left – La Transizione, saggista, mediologo, autore del recente “Ai-work. La digitalizzazione del lavoro”, per i tipi di Jaca Book) in una intervista curata da Giuseppe Sacco sul sito “politicainsieme.com”: l’ex Responsabile Comunicazione di Rifondazione Comunista (che ha dedicato alle vicende di Telecom ed altri “player” il saggio “Il decennio digitale” nel 2008) ricorda la stagione delle “privatizzazioni”: “allora la privatizzazione di un gioiello industriale e strategico fu giocata con l’illusione di poter “spogliare” dall’interno il valore dell’azienda e rendere quel gioiello industriale nella disponibilità di quello o quell’altro amico della politica e, forse, anche in un grande scambio collegato al nostro ingresso nell’Euro.  Molti attori, a partire da quel momento, sono entrati nel grande circo della privatizzazione; dagli Agnelli che pensarono di controllare l’azienda con percentuali risibili (senza metterci soldi per l’acquisto…) fino ai nuovi imprenditori, e ai Tronchetti Provera. Per poi arrivare alle grandi svendite spagnole o francesi, fatte tutte su tavoli “politici”, e a straordinarie partite di scambio con la partecipazione di “grandi gruppi italiani” che provarono a salvare loro stessi a danno della principale infrastruttura di comunicazione del paese”. Bellucci propone anche un paragone con la deriva Alitalia: “abbiamo speso miliardi e forse giustamente, per tenere in vita la connessione aerea del nostro paese con il resto del mondo intervenendo più volte a evitare il collasso della compagnia di bandiera. Non vorrei che oggi commettessimo la stessa imprudenza, sottovalutando l’importanza di mantenere il controllo necessario ad una autonoma politica industriale nel campo dell’economia digitale. Oggi dovremmo dire che il governo italiano, agendo su Cassa Depositi e Prestiti, dovrebbe far sentire il proprio interesse a mantenere italiana la rete di telecomunicazione e, anzi, a rilanciarne il ruolo internazionale”. E denuncia come queste decisioni avvengano in segrete stanze, senza adeguato dibattito pubblico: “il Consiglio di Amministrazione di Tim convocato di domenica ha un significato drammatico per il nostro paese. Soprattutto, mette in luce come vi sia l’assenza di qualsiasi effettiva comunicazione, ed ancor meno dibattito, su quelle che sono le effettive posizioni del governo. Che, con la copertura delle cosiddette “forze politiche”, ci fa discutere di cose marginali mentre quelle che determinerebbero il futuro del paese vengono trattate nelle segrete stanze, al di fuori i occhi indiscreti”.

Si ricordi che in fondo americano Kkr conta ben 429 miliardi di dollari in gestione (ovvero 380 miliardi di euro), 109 società in “portafoglio” e oltre 240 miliardi di dollari di ricavi l’anno. In Europa, Kkr, nel solo settore tlc, controlla già la britannica Hyperoptic; è anche il maggiore azionista dell’editore tedesco Axel Springer; in Spagna, assieme ad altri fondi, possiede il quarto operatore telefonico nazionale MasMovil. In Italia, l’investimento principale è stato in Fibercop, la società a cui Tim ha conferito l’ultimo miglio della rete: Kkr ha messo sul piatto 1,8 miliardi di euro per aggiudicarsi il 37,5 % della società infrastrutturale controllata da Tim e partecipata anche da Fastweb

Secondo alcuni analisti, l’intenzione di Kkr sarebbe quella di separare la divisione di Tim che fornisce i servizi alla clientela dalla gestione delle reti…

Si dirà che già attualmente il primo azionista di Tim (con il 23,75 % delle quote) è un gruppo francese come Vivendi (e peraltro questo azionista ha ormai sostanzialmente sfiduciato i vertici del Cda), ma si vorrà osservare che è comunque un “player” europeo e non statunitense, sebbene anche su questo si potrebbero manifestare varie critiche… E si ricordi che Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ha una quota del 9,81 % delle azioni di Tim.

Da segnalare che Kkr ha presentato una manifestazione d’interesse per il 100 % delle azioni ordinarie e risparmio di Tim: un’offerta quindi destinata al “delisting” della società. La soglia minima stabilita dal fondo Usa per portare a termine la propria proposta, al momento “non vincolante e indicativa”, è quella di raggiungere un’adesione pari ad almeno il 51 % del capitale.

Il comunicato stampa del Mef di domenica sera: il Governo rivendica “l’esercizio delle proprie prerogative”

Ieri sera verso le 21, il Ministero dell’Economia e delle Finanze dirama un comunicato stampa, che recita, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte: “Il Governo prende atto dell’interesse per Tim manifestato da investitori istituzionali qualificati. L’interesse di questi investitori a fare investimenti in importanti aziende italiane è una notizia positiva per il Paese. Se questo dovesse concretizzarsi, sarà in primo luogo il mercato a valutare la solidità del progetto. Tim è il maggiore operatore di telefonia del Paese. È anche la società che detiene la parte più rilevante dell’infrastruttura di telecomunicazione. Il Governo seguirà con attenzione gli sviluppi della manifestazione di interesse e valuterà attentamente, anche riguardo all’esercizio delle proprie prerogative, i progetti che interessino l’infrastruttura”.

E quali sono queste “prerogative” proprie, ovvero “i progetti che interessino l’infrastruttura”?!

Questa la risposta? “L’obiettivo del Governo è assicurare che questi progetti siano compatibili con il rapido completamento della connessione con banda ultralarga, secondo quanto prefigurato nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con gli investimenti necessari nello sviluppo dell’infrastruttura, e con la salvaguardia e la crescita dell’occupazione”.

Ci sembra sia assente un qualsivoglia cenno alla “italianità” di Tim.

E basti quel passaggio del comunicato, preoccupante: “sarà in primo luogo il mercato a valutare la solidità del progetto”.

Appunto, “va’ dove ti porta il mercato”.

E lo Stato, resta a guardare?!

Crediamo che, nella dialettica tra Giorgetti e Franco e Colao ovvero i ministri più direttamente coinvolti, sia ben titolato ad intervenire anche Dario Franceschini: basti ricordare quanto il sistema culturale nazionale sia ormai intimamente “connesso” con il sistema mediale, e quindi con le telecomunicazioni ed il pervasivo habitat digitale.

Crediamo che il titolare del Mic possa e debba rivendicare le ragioni di una sovranità culturale dell’Italia sull’affaire Tim.

I tempi per intervenire ci sono, dato che il “super comitato” che è stato nominato per affrontare il destino di Tim, ovvero della maggiore infrastruttura tecnologica del Paese, non avrà certamente tempi brevissimi.

Si ricordi che il comitato è formato dal Ministro dell’Economia Daniele Franco, da quello dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, da quello del titolare del Ministero per l’Innovazione Tecnologica Vittorio Colao, nonché dal Sottosegretario Francesco Gabrielli, più una “task force” di tecnici ed esperti di Palazzo Chigi (Francesco Giavazzi, Roberto Garofoli, Giuseppe Chiné): saranno loro a dover tentare di evitare che l’“opa” di Kkr su Tim rientri nella lunga serie delle “occasioni perdute” dal nostro Paese.

Perché il Presidente Mario Draghi non coopta nel super comitato anche il Ministro Dario Franceschini?!

Crediamo che egli potrebbe addurre le ragioni anche culturali nell’esercizio di un “golden power” per tutelare non soltanto la rete in sé, ma anche – indirettamente – l’industria mediale e culturale italiana.