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Terrorismo, dati telefonici e Internet conservati per 6 anni? Ecco perché si rischia il flop

Roberto Capocelli

Più del loro significato immediato, i fatti di cronaca spesso rispecchiano la realtà culturale che soggiace agli eventi: il caso dell’emendamento Verini (PD), approvato alla Camera lo scorso 19 luglio, ci racconta del ritardo di grossa parte di questa classe politica nel comprendere le profonde trasformazioni che la tecnologia produce nella vita dei cittadini.

L’emendamento in questione, infatti, non solo non risolve i problemi che si propone di affrontare, ma rischia di crearne altri, aumentando l’entropia in un momento già di per sé confuso.

La norma, infatti, estende da due a sei anni la conservazione dei dati del traffico telefonico e, da uno a sei, quelli del traffico internet: inserito nell’ambito di una legge sul recepimento di normative comunitarie per la sicurezza degli ascensori, il decreto triplica i tempi precedentemente previsti dal Codice del Garante della privacy.

La norma deve ora essere approvata al Senato e, nelle dichiarazioni degli estensori, dovrebbe agevolare un contrasto più efficace del terrorismo e della criminalità.

Tralasciando le approssimazioni di procedura – che pure descrivono il “metodo” nell’affrontare tematiche così cruciali e complesse –  fa sorridere che, proprio alcune ore fa, la Corte Europea di Giustizia aveva bocciato la proposta di accordo fra UE e Canada sulla raccolta e conservazione dei dati dei passeggeri, dichiarandolo contrario alle norme europee.

Il decreto, poi, non si pone minimamente il problema dei costi: chi pagherà il prezzo della conservazione di tutti questi dati? Le aziende scaricheranno sull’utenza la gestione dei database? O recupereranno i costi vendendo i dati?

A giustificazione della norma, Verini ha citato non meglio precisate sollecitazioni da parte degli organi competenti di indagine (magistratura e investigatori) per aumentare i tempi della conservazione dei dati; ma ad oggi, nessuno ha mai dimostrato che la raccolta di massa di dati “a strascico” si sia rivelata cruciale nella prevenzione o repressione di attentati terroristici.

Al contrario, le cronache provano che, come nel caso degli ultimi attentati di Parigi e Londra, gli esecutori erano soggetti già noti ai servizi di intelligence e alle forze dell’ordine. Quello che mancava, dunque, non erano certo le informazioni o i dati, ma la capacità di analizzarli.

Viviamo in un mondo in cui la chiave della comprensione della realtà, nella lotta al terrorismo come nel commercio, risiede non nella raccolta di dati (ampiamente disponibili), ma nella capacità di sistematizzarli e analizzarli, estraendone informazioni decisive.

Una chiave che aprirebbe la porta anche ad un dibattito politico più competente.

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