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Subscription fatigue, quando ci si stanca degli abbonamenti

Sono ormai più rari di un quadrifoglio in un’aiuola. Sono i servizi digitali a pagamento una tantum e non ad abbonamento, che pure fino a qualche anno fa erano la norma. Prendiamo le app per telefonia mobile: si pagava una certa cifra all’inizio, magari anche alta, e poi si poteva usare quel programma per sempre, senza restrizioni. Ora, almeno all’apparenza, è tutto gratuito: poi scopriamo di avere sui nostri smartphone una versione “light” a cui mancano funzionalità importanti. Si vogliono pure quelle, o si vuole evitare che il tutto si disattivi dopo qualche settimana? Niente paura: basta pagare un abbonamento per la versione premium, a 3, 4, 9 euro al mese. Pochi spiccioli, in apparenza, ma che alla fine coagulano in un esborso mensile che manda a gambe all’aria i nostri buoni propositi di budget sostenibile, oltretutto attraverso quella sorta di “RID di fatto“ che è l’addebito diretto sul metodo di pagamento legato all’App Store (per iOS) o al Play Store (per Android). Così, quando guardiamo l’estratto conto, vediamo ogni giorno qualche microtransazione che non ci sembra preoccupanti, ma la goccia scava la roccia, e gli abbonamenti allo stesso modo erodono il nostro patrimonio.

La difficoltà di dire “basta”

Il problema si è acuito con la pandemia e i lockdown, quando la noia di giornate sempre uguali e la necessità di farsi consegnare a domicilio i beni che non si potevano più comprare di persona ha spinto milioni di persone a provare servizi in abbonamento di ogni tipo, in cerca di un delivery casalingo per qualche rinunciabile velleità (dal vino ai cosmetici) o di un contenuto in streaming ancora non visto, dopo serate trascorse a esplorare gli angoli più nascosti delle piattaforme tv. Il problema, come abbiamo avuto modo di sperimentare sulla nostra pelle ormai tutti, è l’unsubscribe, ovvero il gesto con il quale – attirandoci mail strappalacrime di chi sostiene di non poter vivere senza di noi e che può diventare migliore, come il più patetico degli ex – diciamo “basta” a un abbonamento. Ma non riusciamo quasi mai a farlo per tempo, arriva la notifica del nostro conto corrente che ci dice che abbiamo pagato anche questo mese, accidenti, il prossimo devo ricordarmi assolutamente di cancellarmi, però ora accedere al sito è scomodo, lo faccio quando sono più tranquillo. E gli abbonamenti rimangono lì, silenti e spesso mai usati, per rispuntare quando è troppo tardi, alla notifica successiva. Un meccanismo non dissimile, ad esempio, a quello della telefonia mobile o fissa (su SOSTariffe.it si possono consultare sempre le occasioni più convenienti di oggi), ma con un’importante differenza: se del telefono non possiamo realisticamente più fare a meno, è davvero così indispensabile essere abbonati nello stesso momento a quattro o cinque piattaforme, due app per l’abbonamento casalingo, una per l’organizzazione della nostra agenda e quattro o cinque videogiochi?

Per metà dei consumatori adesso è troppo

Negli ultimi tempi, le cose sono cambiate. The great unsubscribe, l’ha chiamato Forbes: alla fine del 2021, in media il consumatore USA aveva 5 abbonamenti, fino a 2 in meno rispetto all’inizio della pandemia. Insomma, se c’è stato un boom durante il periodo più duro del Covid, ora la contrazione ci riporta addirittura a livelli più bassi di prima. Va infatti considerata l’inevitabile perdita di potere d’acquisto degli ultimi mesi, acuita in Europa (ma con riflessi che si fanno sentire anche nel resto del mondo) dalla crisi energetica, che ha spinto milioni di famiglie a guardare più seriamente al proprio conto in banca alla ricerca delle spese da tagliare. Secondo il Kearney Consumer Institute, all’orizzonte ci sarebbe addirittura un’apocalisse degli abbonamenti: secondo il suo studio, infatti, più della metà di chi si avvale di questi servizi vorrebbe ridurre la propria quota mensile a 50 dollari al mese, mentre oggi arriva, negli Stati Uniti, quasi a 200. Il 40% del totale pensa di spendere troppo in questo tipo di servizi, e che quindi sia ora di chiudere i rubinetti.

Si può rinunciare al modello della “subscription”?

C’è chi, come TechCrunch – vera e propria Bibbia digitale per la cultura della Silicon Valley – minimizza il problema, sostenendo che la subscription fatiguestia diventando una comoda scusa per giustificare i propri fallimenti da parte di chi non ha un modello di business vincente. In effetti, dire che la gente non ha più voglia di abbonarsi permette di fare i conti con le proprie responsabilità, ma le vittime finora sono state molto illustri: il caso più eclatante è stato quello di Netflix, che dopo anni di crescita quest’anno ha perso 800.000 abbonati nel primo trimestre e altri 900.000 nel secondo. E quest’ultimo è comunque visto come un risultato positivo, visto che il timore era di perdere addirittura due milioni. Il colosso dello streaming si è addirittura visto obbligato a fare una cosa che in USA riguarda di solito solo chi è in seria crisi, cioè licenziare. Ed è corsa ai ripari per tappare le falle, in modo per certi versi speculare a quello dei fanatici degli abbonamenti costretti a diventare oculati: la misura più chiacchierata degli ultimi mesi è quella del nuovo modello “familiare” per chi altrimenti condividerebbe i dati del proprio account, pratica che Netflix sta cercando di stroncare da anni, unita all’ipotesi sempre più concreta di un tipo di abbonamento meno oneroso ma con la pubblicità, per convincere anche coloro per i quali anche pochi euro in meno fanno la differenza.

La sfida è creare valore

Qual è la verità? Difficile che si possa invertire la rotta, ormai: la cultura dell’abbonamento è ormai troppo radicata in noi, e in effetti è di una comodità indubbia, come le rate per l’acquisto di un’auto o di un telefonino ultimo modello (a proposito: gli iPhone in Italia superano ormai la soglia dei 2.000 euro, ma il pagamento a “soli” 50 euro al mese che proporranno i maggiori operatori mobili spingerà tanti a fare spallucce e a cliccare “ordina”). Ma di certo il mercato è diventato molto più competitivo, e le aziende dovranno faticare non poco per creare valore e non limitarsi a essere una spesa non identificata in più. Perché sta arrivando il momento in cui certe scelte saranno obbligate.

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