l'analisi

Strapotere degli algoritmi e sfruttamento dei lavoratori: cambia il vento nella Ue contro la Silicon Valley?

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I politici stanno prendendo coscienza delle implicazioni delle nuove tecnologie sulla libera circolazione delle idee – proprio quella che internet doveva contribuire a salvaguardare – e i diritti dei lavoratori?

Il vento in Europa sta davvero cambiando per i giganti dell’hi-tech americano? Non ci riferiamo, stavolta, all’offensiva del vecchio continente nei confronti delle pratiche fiscali dei vari Apple e Amazon, quanto a due episodi – apparentemente senza alcuna connessione – che mettono in evidenza la crescente insofferenza di politici e regolatori verso queste società dal modus operandi spesso poco trasparente o troppo spregiudicato.

Il primo episodio si riferisce alle pesanti accuse mosse dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nei giorni scorsi agli ‘algoritmi’ utilizzati dai giganti del web, rei di distorcere la percezione e restringere le informazioni a nostra disposizione.

Le formule ‘segrete’ utilizzate da questi algoritmi non fanno altro che appiattire le opinioni e creare casse di risonanza per le idee radicali e i pregiudizi, eliminando di fatto l’esposizione a idee e interpretazioni diverse. Un regalo ai populismi, secondo la Merkel, e un pericolo per la democrazia.

“Gli algoritmi, quando non sono trasparenti, possono portare ad una distorsione della percezione, possono ridurre l’ampiezza della nostra informazione” ed è per questo che “devono diventare più trasparenti”, ha tuonato la Merkel.

Certo, non è una novità che Google facesse poco di più che aiutarci a trovare quello che sappiamo già di volere, ma non a trovare quello che non sappiamo di volere e che internet non fosse più quel posto libero e di esercizio pratico di democrazia come si presentava ai suoi albori: l’allarme su come gli algoritmi che regolano le nostre  esperienze quotidiane di navigazione ci costringano a un cammino in cui ci autoconvinciamo di non aver bisogno di niente che non ci venga già dato lo aveva già nel 2012 Eli Parisier nel suo libro ‘The Filter Bubble’.

“La bolla dei filtri ci taglia tutto ciò che non sappiamo di volere. Ed è invece su ciò che non sappiamo di volere che si basa la creatività e l’innovazione”, spiegava Parisier.

La differenza è che, mentre fino a poco fa questi discorsi erano relegati nelle sale conferenze zeppe di esperti del settore, ora l’argomento diventa di attualità politica, tanto da spingere Angela Merkel ad abbandonare i temi dell’austerity, della Brexit, dei migranti, per dedicare qualche parola agli algoritmi e al loro strapotere.

Facebook, dal canto suo, ha sempre rivendicato l’uso di un algoritmo per mostrare ai suoi utenti ‘quello che vogliono vedere’ sulla base della loro navigazione o degli “argomenti e gli hashtag che di recente sono stati più popolari su Facebook”: di recente, però, si è venuto a sapere che lo stesso Mark Zuckerberg ha impedito la rimozione di alcuni post pubblicati su Facebook da Donald Trump ritenuti una forma d’istigazione all’odio. Come dire: noi non censuriamo ma potremmo farlo.

Senza contare che nei mesi scorsi la questione dell’influenza che Facebook esercita sulle notizie ha richiesto l’intervento della  Commissione Commercio del Senato americano che ha inviato una lettera a Zuckerberg per chiedere delucidazioni su una vicenda di presunte manipolazioni delle Trending News.

Ma, dicevamo, c’è anche un altro episodio che evidenzia come lo strapotere delle web company americane sia messo in questi giorni in discussione: un giudice di un tribunale di Londra ha dato ragione ai conducenti Uber che lamentavano il fatto che i loro contratti negavano loro i diritti fondamentali del lavoro, come il salario minimo e ferie pagate. Uber, ha detto il giudice, non può far finta che queste persone siano imprenditori del tutto indipendenti dalla società cui effettivamente prestano servizio.

Ma non è solo la sentenza in sé a essere così sorprendente: altrettanto singolare è il linguaggio energico usato dal giudice Anthony Snelson che definito “vagamente ridicole” le argomentazioni secondo cui Uber a Londra rappresenta un mosaico di circa 30.000 piccole imprese. La società californiana, secondo il giudice, ha volutamente fatto ricorso a un linguaggio fittizio e contorto e ha anche inventato “una nuova terminologia” nel tentativo di abbindolare la corte.

Uber, naturalmente, farà appello contro la decisione ma sono in molti a credere che la sentenza del giudice potrebbe effettivamente migliorare le condizioni di lavoro di migliaia di persone impiegate nella nuova cosiddetta ‘gig economy‘, ossia il nuovo modello in cui spariscono le prestazioni lavorative continuative, si lavora solo quando c’è richiesta e tutti lavorano in proprio.

Ma le ‘cattive’, in questo ultimo caso, non sono certo solo le aziende americane. Come non pensare anche ai lavoratori italiani di Foodora, azienda tedesca che si occupa di consegne a domicilio di pasti caldi cucinati in trattorie e ristoranti, che nelle scorse settimane hanno scioperato contro le condizioni degradanti alle quali sarebbero sottoposti e contro la paga a cottimo? O ancora ai lavoratori italiani della logistica, spremuti spesso senza troppi diritti, per garantire che i prodotti che compriamo durante il nostro shopping online siano consegnati nella maniera più rapida ed economica possibile?

Ecco perché, come sottolinea  Philip Stephens sul Financial Times, partendo dalla contrapposizione Ue-Usa – spesso relegata a una mera questione di protezionismo contro l’eccessivo potere di mercato delle compagnie americane – non si può non pensare che forse finalmente i politici stiano finalmente prendendo coscienza delle implicazioni non più trascurabili delle nuove tecnologie sulla libera circolazione delle idee – proprio quella che internet doveva contribuire a salvaguardare – e i diritti dei lavoratori.