l'analisi

Storie di minotauri e labirinti digitali

di Stefano Gazzella, Privacy Officer e DPO - componente del DL NET |

La partecipazione online è sempre più spesso promossa come strumento di aggregazione, presentata come modalità attraverso la quale alcuni diritti fondamentali possono trovare nuove forme di espressione. Eppure, la dimensione in cui ci si colloca è un labirinto di regole e policy che hanno la propria ragion d’essere fondamentale nel “Far Web”.

La rubrica “Digital & Law” è curata da D&L Net e offre una lettura delle materie dell’innovazione digitale da una prospettiva che sia in grado di offrire piena padronanza degli strumenti e dei diritti digitali, anche ai non addetti ai lavori. Per consultare tutti gli articoli clicca qui.

La partecipazione online è sempre più spesso promossa come strumento di aggregazione, presentata come modalità attraverso la quale alcuni diritti fondamentali possono trovare nuove forme di espressione. Eppure, la dimensione in cui ci si colloca è un labirinto di regole e policy che hanno la propria ragion d’essere fondamentale nel “Far Web”. Luogo in cui la legge ha l’abitudine di arrivare con ritardo e minore efficacia rispetto all’autoregolamentazione dei gestori.

Labirinti digitali

«È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole».

È con queste parole all’interno del breve racconto de “La casa di Asterione” che Borges fa riflettere il minotauro sulla propria condizione, facendo emergere così quel suo solitario e febbrile vagare senza una precisa meta. Ed è proprio l’argomento della solitudine che riverbera all’interno di un mondo ideato proprio per esaltare il contenimento dell’Io, un luogo che sa diventare il teatro ideale della dispercezione del sé. In questa dimensione il soggetto giunge anche ad una distorsione del più intimo senso di autodeterminazione e delle proprie libertà.

È possibile ritrovare una facile analogia e ricondurre proprio questo concetto di labirinto a tutti quei mondi digitali in cui si svolge l’espressione di un’identità tutt’ora dai contorni indefiniti? Certamente, potrebbe sollevarsi un’immediata contestazione considerando che c’è una differenza piuttosto evidente dal momento che l’ecosistema dei social network e delle interconnessioni non lascia molto spazio alla solitudine o all’isolamento. Ma fino a che punto possiamo affermarlo con certezza? Dopotutto la struttura del labirinto riguarda la mente, il sentire e la percezione.

È possibile vedere oggi dei moderni minotauri digitali che subiscono tutti gli effetti delle prigioni senza sbarre all’interno delle quali rientrano ad esempio tanto le social bubbles quanto le echo chambers. Tutti questi semi erano già presenti all’interno nel web 2.0 e successivamente hanno trovato multiformi modalità di maturazione. Non deve sorprendere infatti che la struttura stessa del social persegua un’esaltazione dei pensieri conformi, agilmente promossi dall’azione di regole algoritmiche e suggerimenti automatizzati.

Il tutto viene compiuto in nome del miglioramento dell’engagement o della coerenza del feed, secondo il business model dei gestori della piattaforma. E così il senso di solitudine ed isolamento ben permane nonostante l’essere attorniati da avatar, follower una folta gamma di interazioni predefinite.

Il nodo dell’autodeterminazione

Guardando anche oltre gli spazi digitali che sono sotto il controllo dei privati, è impossibile ignorare anche i pericoli del trend operati attraverso strumenti ed ecosistemi a controllo pubblico. Basti guardare alle Smart Cities, agli interventi di sviluppo attuati attraverso lo strumento del PNRR e l’integrazione di tecnologie di controllo del cittadino già nel quotidiano. Fino a che punto però un pubblico potere può agire ad esempio per perseguire obiettivi proclamati di interesse generale – quali ad esempio quello della sostenibilità o dell’aumento dell’efficienza dei servizi – nel comprimere l’autodeterminazione dei cittadini consistendo sostanzialmente in un effetto manipolatorio? Dopotutto, anche l’azione di nudging lo comporta. Per quanto la si voglia indicare come “spinta gentile”.

In tutti gli ambiti in cui si va ad incidere sull’autodeterminazione individuale diventa necessario perseguire la ricerca di un bilanciamento degli interessi in gioco secondo proporzionalità, al fine di individuare quali tutele e garanzie attuare in modo efficace per mantenere indenni i diritti e le libertà fondamentali delle persone. O almeno, questo è ciò che indicano i predicati di ogni tentativo di normare le responsabilità dei costruttori dei labirinti digitali.

La giurisdizione di Dedalo

Fino a che punto i costruttori di questi labirinti digitali possono essere indicati come responsabili per tutto ciò che avviene al loro interno? La risposta giuridica, è bene ricordare, non può che essere il seguito rispetto ad una decisione politica. E venire plasmata dalle azioni di lobbying.

Il cittadino digitale è destinato a trovare però un’imperfetta tutela anche all’interno degli strumenti normativi evoluti quali ad esempio il Digital Service Act. Se quel che viene considerato è infatti il ruolo di consumatore o utente, la protezione cui si può provvedere non può che essere affievolita e non riguardare tout court un Io che si esprime anche nel mondo digitale. Tutto ciò ha comportato come naturale conseguenza nel tempo l’accettazione diffusa che gli interventi indicati come maggiormente efficaci non sono stati svolti in nome della tutela dei diritti umani ma di altri interessi elevati come concorrenti, quali le logiche e il funzionamento dei mercati.

Alcuni esempi. L’antitrust promuove il metodo Ssnip (Small but significant and non-transitory increase in price) per rilevare distorsioni di scelta dei consumatori nel mercato digitale e il fenomeno del c.d. lock-in tecnologico, per cui anche un servizio digitale offerto gratuitamente può generare un vincolo ed “intrappolare” all’interno di un determinato ecosistema. Le libertà sono considerate il più delle volte limitatamente all’azione di scelta come utente e di conseguenza ci si occupa di dark pattern e garanzie di un consenso valido e pienamente formato per la regolazione del flusso dei propri dati personali o l’accettazione di termini e condizioni.

Per quanto gli interventi elencati siano di indubbio valore si realizzano tutti i rischi derivanti dal micromanagement in chiave normativa, mentre il quadro generale mantiene i contorni del Far Web.

Se si disperde – o viene reso sempre più rarefatto, o dimenticato – il valore di alcuni principi generali nel contesto digitale anche le corrispondenti tutele diventeranno sempre più opache. E qui la responsabilità di azione è in coloro che per primi dovrebbero richiamarli, definirli ed applicarli: giuristi, giudici e policy maker per primi.

Sempre più spesso e fin troppo facilmente si è infatti derogato e si continua a derogare – formalmente o comunque nella sostanza – alla giurisdizione di Dedalo indicandola come prevalente. Questo fenomeno interviene come effetto di quella “responsabilizzazione” che la normativa vorrebbe perseguire, ma che ha provocato la ricerca di una autoregolamentazione delle piattaforme e dei gestori di servizi del web.

Nella sostanza oramai le policy d’uso sono fonti normative atipiche di cui gli algoritmi si fanno giudici ed esecutori. E come è prevedibile per delle aziende che perseguono scopi imprenditoriali l’intento è quello di ridurre e mitigare la propria responsabilità e promuovere il proprio business. Così in alcuni casi sa fa “privacywhashing”, ci si propone di costruire dei sistemi di controllo interno in nome della maggiore sicurezza degli utenti e di chi partecipa ai servizi.

Così, ad esempio: un intento virtuoso di contrastare le fake news transita per le soluzioni proposte dalle piattaforme; la protezione dei minori per sistemi di age verification che prevedono il monitoraggio dei comportamenti e un ambiente social reso più sicuro grazie al filtro dei contenuti. Insomma: si costruiscono nuovi snodi e porte del labirinto, con il benestare dello Stato che rinuncia a parte della propria giurisdizione e del ruolo di protezione e garanzia.

La libertà di scelta

In tutto questo avere la capacità lato utente di gradare la propria modalità di partecipazione online è importante, ma non si deve mai rinunciare a svolgere una riflessione fondamentale a riguardo. Nella maggior parte dei casi, il minotauro digitale sembra destinato ad essere intrappolato poiché è il design stesso dell’ecosistema ad impattare sulla percezione dell’Io, del contesto percepito e percepibile nonché delle scelte che è possibile intraprendere. E in questo momento deve intervenire un’educazione digitale effettiva, che comporti una piena capacità di selezione e non l’opzione fra uno o più modelli di diritti e libertà concessi as-a-service.

La responsabilità di ciascun cittadino sta nel pretendere che tanto in contesti pubblici che privati la tecnologia venga costantemente mantenuta al servizio dell’uomo. Certo, a voler essere provocatori si potrebbe dire che è già così ma il dettaglio sta nel comprendere a quale uomo sia asservito. Facendo certamente peccato nel pensare male, ma sbagliando certamente di poco.

La domanda di servizi digitali deve riguardare anche il loro funzionamento e l’impatto sul singolo individuo e sulla sua partecipazione sociale, sia nella dimensione online che offline. E solo questa domanda può incidere efficacemente sull’offerta di servizi e di conseguenza sfruttare proprio quella forza di mercato oramai assunta a valore fondamentale per un miglioramento. Ma qui l’opzione di uscire o rinunciare a questa gamma di servizi e tecnologie deve essere preservata, mantenendo delle alternative. Altrimenti, tutto sarà nient’altro che un bluff e una riconfigurazione del design. E il labirinto digitale resterà sempre una prigione dell’individuo.