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SosTech. Smartphone: come la mettiamo con l’ambiente?

La comodità rende pigri e distratti: soprattutto, porta a fingere di non vedere le conseguenze di comportamenti che finiscono con l’avere un impatto notevole – e di rado positivo – sul mondo che ci circonda. È il caso della sbornia digitale che riguarda un po’ tutti da qualche tempo; la stessa che spinge a fare la fila per comprare uno smartphone e poi cambiarlo dopo uno o due anni. Perché non ci si può proprio perdere l’ultima innovazione, che sia la resistenza all’acqua, le fotografie ancora più definite o i giochi in stile console.

Tutto questo ha un costo, che (seppur cospicuo) non si limita all’aspetto monetario. I metalli che si sposano così bene con il design ultraleggero nella scocca del telefonino o che costituiscono la base della componente elettronica, devono prima di tutto venire estratti dal sottosuolo e spesso in Paesi che non sono propriamente né il paradiso della democrazia, né quello delle condizioni di lavoro. Si è infatti a lungo parlato dei turni massacranti delle fabbriche cinesi, anche per giganti come Apple. Infine: quando lo smartphone viene pensionato senza troppe cerimonie, condannato all’obsolescenza per via di aggiornamenti (obbligatori) del sistema operativo, che i modelli vecchi non supportano più, sorge il problema dello smaltimento, visto che la percentuale di riciclo è ancora troppo bassa.

Su questi temi si incentra il rapporto di Greenpeace From smart to senseless: the global impact of 10 years of smartphone, che fin dal titolo punta provocatoriamente il dito contro un prodotto che si autodefinisce smart da un decennio circa, ma che in realtà avrebbe molto da imparare. Come ricorda lo studio, appena pubblicato, in dieci anni sono stati prodotti più di 7 miliardi di smartphone e la durata media negli Stati Uniti di uno di questi telefonini supera di poco i due anni (26 mesi). Una montagna di materiali potenzialmente pericolosi (perfino per l’utente, come hanno dimostrato i recenti casi di batterie esplosive) ulteriormente aggravata dalla politica di diverse società, che danno sempre meno opportunità all’utente di rimediare a normali inconvenienti dovuti all’usura (in primis la batteria ormai scarica). Cambiare, sostituire, comprare di nuovo: questa è la strada che ci viene suggerita.

Una montagna di metalli da riutilizzare

Naturalmente non è il caso di lasciarsi tentare da un facile luddismo di ritorno: il fatto che gli smartphone siano sempre più accessibili, con offerte molto convenienti (su SosTariffe.it si possono trovare le tariffe mobili più economiche per avere anche il dispositivo) è un fatto positivo, da qualsiasi parte lo si guardi. Siamo più connessi, più vicini alle informazioni che ci servono, più in grado di lavorare a distanza e in mobilità. Ma tutto questo non può distrarre dalle conclusioni, spesso sorprendenti, che arrivano dal rapporto di Greenpeace.

Più di 150mila tonnellate di alluminio, 100mila di rame, 67mila di plastica, quasi 40mila di cobalto per le batterie, 3000 tonnellate di tungsteno per la vibrazione, e poi argento, oro, neodimio, indio, palladio e gallio: l’impronta ecologica degli smartphone prodotti dal 2017 a oggi è impressionante, e purtroppo sono stati fatti ancora pochissimi passi per un riciclo serio e ragionato di questi materiali. Greenpeace denuncia anche il fatto che Samsung, dopo lo scandalo del Galaxy Note 7 e il conseguente richiamo di 4,3 milioni di dispositivi, non abbia ancora chiarito le sue politiche sulla gestione di questi apparecchi ormai inservibili ma ricchi di materiali che potrebbero essere riutilizzati con un approccio virtuoso a un modello di produzione circolare.

Le emissioni nocive

Un altro aspetto è quello legato alle emissioni di CO2, considerando quanta energia ci vuole per alimentare tutta l’industria degli smartphone. Secondo i conti di Greenpeace, l’energy footprint ammonterebbe, dal 2007 a oggi, a 968 TWh, il che più o meno equivale a tutta l’elettricità consumata in un anno da uno stato-continente come l’India. Le fasi di produzione, malgrado i miglioramenti in efficienza energetica della filiera, dipendono ancora molto dai combustibili fossili, soprattutto perché si basano su aziende della Cina, dove il 67% dell’energia arriva dal carbone. Greenpeace spende parole di lode per Apple, l’unica compagnia che si sia impegnata a rendere al 100% basata su rinnovabili la sua linea di produzione per l’iPhone: Cupertino ha già firmato due importanti contratti per l’elettricità rinnovabile in Cina e Foxconn, la più importante società ad assemblare i melafonini, si è impegnata a costruire impianti solari per un totale di 400 MW per il suo stabilimento a Zhengzhou.

C’è davvero bisogno di un modello nuovo ogni anno?

E i consumatori, in tutto questo? A dispetto della breve vita degli smartphone fino ad ora, la loro percezione sta lentamente cambiando: ormai (come del resto è già accaduto per i tablet) è difficile che ci sia un’innovazione talmente groundbreaking da spingere all’aggiornamento e sempre più utenti decidono di rimanere con il loro dispositivo ancora almeno un altro anno, dopo aver assistito alle presentazioni dei nuovi modelli. Il problema è che anche per inconvenienti minori spesso l’unica soluzione è comprare un nuovo smartphone.

Continuare con una produzione ossessiva di telefonini ha anche seri costi dal punto di vista umano, come dimostrano le terribili condizioni dei minatori di cobalto in Congo, con un rischio continuo di asfissia o di rimanere intrappolati, senza equipaggiamento adeguato né mappe, o le notizie dei lavoratori in Sud Corea che hanno riscontrato forme tumorali dopo essere stati esposti a lungo a sostanze chimiche nocive.

La produzione circolare

Il modello virtuoso che Greenpeace consiglia è la produzione circolare: far durare gli smartphone il più a lungo possibile, recuperare i materiali ancora “buoni” e usarli per creare nuovi dispositivi. L’obiettivo è sia quello di arrivare a una percentuale di impiego di nuovi materiali disponibili in quantità limitata prossima allo zero – anche con l’ausilio della modularità – sia aumentare la durata degli smartphone, così da diluire l’energia e le risorse necessarie per la produzione in un numero maggiore di anni. Sarà naturalmente essenziale anche eliminare del tutto le sostanze chimiche pericolose e puntare su filiere al 100% basate su rinnovabili.

Il rapporto si conclude con queste parole: “È tempo che l’industria abbracci un’innovazione importante – un modello di produzione lento, pulito, a circuito chiuso, alimentato da energia rinnovabile. Chi sarà il primo a raccogliere la sfida?”. Il guanto è stato lanciato.

Fonte: http://www.greenpeace.org/usa/wp-content/uploads/2017/02/FINAL-10YearsSmartphones-Report-Design-230217-Digital.pdf

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