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SosTech. Sarà lo streaming a salvare la musica?

Ci sono e ci saranno sempre nostalgici e luddisti, ma tra i segni evidenti dell’evoluzione digitale c’è anche il fatto che i nostri mixtape dedicati all’anima gemella (o aspirante tale) non comportano più una paziente combinazione di play, fast-forward e rewind su musicassette collegate allo stereo. Oggi trasciniamo in pochi secondi i brani scelti da una libreria pressoché infinita a una cartella e condividiamo il link agli interessati, senza doverci nemmeno dedicare a improbabili furori creativi a tinte fluo sul libretto d’accompagnamento; meglio ancora se seguono il nostro profilo.

Forse c’è meno cura artigianale. Meno impegno. Un sentimento, insomma, forse troppo facile per essere vissuto fino in fondo – ma vuoi mettere la possibilità di ascoltare la playlist su smartphone con tanto di AirPods al seguito, passare sullo stereo dell’alto e infine su quello di casa, magari grazie a un nostro comando vocale? Con buona pace degli audiofili – il corrispettivo musicale di chi non vuole saperne di abbandonare la piccola libreria di quartiere in favore di Amazon e del Kindle – lo streaming musicale non se ne andrà via tanto presto. Ed è un bene, visto che secondo molti è proprio grazie a Spotify, Deezer e soci che c’è ancora un’industria discografica.

L’equilibrio dello streaming

È tutta una questione di equilibrio. Quanti sono gli euro che l’utente è disposto a spendere (o, per metterla in un altro modo, quanta pubblicità è disposto ad ascoltare) prima di considerare che valga la pena di procurarsi la musica illegalmente, attraverso torrent e similari? Spotify, Apple Music, Google Play Music, Amazon Music, Deezer sembrano aver trovato un compromesso in grado di funzionare, come dimostra anche l’ottimo esordio in borsa del colosso del settore, appunto Spotify: segno che c’è fiducia da parte del mercato, segno che quasi tutti sono convinti che il modello dello streaming sia il presente e il futuro. Malgrado non piaccia a molti, in primis agli artisti, che non di rado vedono percentuali irrisorie a fronte di milioni di ascolti di un brano.

Di sicuro, secondo il Global Music Report di IFPI per la prima volta lo streaming audio ha superato la vendita fisica di CD e vinili e dei download digitali messi insieme: +8,1% per il settore, terzo anno consecutivo di crescita e un solido 38,4% dei profitti totali dell’industria discografica. Dall’altra parte, continuano a calare le vendite dei supporti fisici (-5,4%) e dei download digitali (-20,5%). Del resto, se è vero che un cd o un album offrono innegabilmente di più – oltre alla qualità audio, il packaging, il booklet e in genere qualcosa di “solido” tra le mani – da un altro punto di vista ingombrano, sono ben poco portatili a fronte della mobilità assoluta dello streaming digitale, e saltare da un’artista all’altro comporta qualche minuto di paziente ricerca, non la frazione di secondo impiegata per ricercare un nome su un’applicazione. Dal canto loro, i download digitali sono più comodi ma ben più costosi dello streaming e non hanno nessuno dei vantaggi del supporto fisico: non stupisce, insomma, che sembrino destinati a tramontare.

Gli algoritmi? I DJ di oggi

Nel 2017, il 54% delle entrate è arrivato dal digitale, e l’Italia non fa eccezione: nei primi mesi del 2018, dopo qualche momento difficile nel 2017 dovuto soprattutto alla revisone delle basi contrattuali con le varie piattaforme, lo streaming ha fatto segnare già un +65%. Di sicuro la riduzione dei costi di Internet mobile (su SosTariffe.it potete trovare le offerte più convenienti da confrontare per lo smartphone) e la comodità dell’interfaccia anche su telefonini e tablet ha avuto un ruolo fondamentale nel successo dello streaming, e non stupisce che i maggiori player del settore stiano continuando a investire per creare un’esperienza d’uso più piacevole e comoda.

L’ultima, in ordine di tempo, Spotify, che ha operato una bella revisione all’interfaccia del suo servizio free e disponibile a tutti, la “porta” per passare all’abbonamento Premium. Ora l’applicazione su smartphone è molto più facile da gestire, senza l’invasione di playlist consigliate che caratterizzavano le passate versioni, ma allo stesso tempo l’ascolto per chi non paga è diventato più complicato, almeno per chi desidererebbe soltanto ascoltare un disco intero in santa pace: ma l’idea dell’album è un residuo degli anni Settanta, oggi si fa tutto con gli algoritmi, e per questo chi utilizza Spotify in versione free ora non avrà semplicemente un ascolto in shuffle, cioè casuale, delle canzoni che compongono un disco, ma una playlist generata in tempo reale che comprenderà anche brani “correlati”, che potrebbero o meno far parte dell’album. Il tutto considerando che ci sono solo 6 possibilità ogni ora per saltare una canzone.

Ma il restyling di Spotify ha anche un altro scopo: offrendo, per la prima volta, circa 40 ore di musica on demand da 15 playlist precedentemente accessibili solo agli utenti Premium (come Discover Weekly o RapCaviar), la compagnia può accedere a un bacino molto più ampio di dati su cui basare i propri algoritmi, per renderli sempre più precisi nel consigliare a chi usa l’applicazione quali altre canzoni dovrebbe ascoltare, basandosi sui suoi gusti. Secondo quanto dichiarato da Babar Zafar il VP of product development di Spotify, «La nostra comprensione della musica era limitata a Premium. Che cosa succede quanto aggiungi altri 90 milioni di utenti?».

I compagni hardware: gli smart speaker

Anche sul fronte hardware le cose si muovono, eccome. L’ultima moda, gli smart speaker come Echo e Google Home (nonché HomePod di Apple), a metà tra musica e domotica, stanno andando forte, soprattutto in Cina dove si associano a prodotti più a basso coso, come Mi AI di Xiaomi e Tmall Genie X1 di Alibaba: solo sul mercato cinese, sono stati venduti 27 milioni di smart speaker lo scorso novembre e 35 milioni a dicembre.

E sempre dalla Cina arriva un altro aiuto a Spotify: secondo quanto sostiene il Wall Street Journal, il più grande servizio di streaming del Paese, Tencent Music Entertainment Group, pare avere in mente una IPO da 25 miliardi di dollari, che porterà benefici anche ad azionisti del calibro di Universal Music Group, Sony Music Entertainment e Warner Music Group, oltre alla stessa Spotify, che dal 2017 ha una compartecipazione con il gigante cinese.

Fonti:

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