Il dibattito

Smartphone in classe? Politica e sistema scolastico battano un colpo. Intervento di Michele Mezza (PollicinAcademy)

di Michele Mezza, Direttore di PollicinAcademy.it |

Non possiamo lasciare soli i ragazzi ad eseguire inconsciamente le prescrizioni di algoritmi altrui. Ed è la scuola che può, che deve, trasformare quell’inconsciamente in consapevolezza.

Il dibattito avviato da Key4biz sullo smartphone in classe mi pare tanto importante quanto del tutto isolato, nell’indifferenza di un sistema scolastico e di una cultura politica che dovrebbe concentrarsi proprio su questi temi per riuscire ad afferrare la coda del diavolo dell’attualità.

Come PollicinAcademy (www.pollicinacademy.it), un centro di ricerca sugli alfabeti della mobilità presieduto dal filoso francese Michel Serres, da tempo cerchiamo di sollecitare un’attenzione non puramente tecnica ai processi di interferenza dei nuovi standard della mobilità con la nostra vita.

Io purtroppo ho un età che mi permette di ricordare ancora distintamente quante bacchettate presi, con il righello sulle mani, quando frequentavo le classi elementari, quando portavo a scuola una penna biro.

L’apparato scolastico del tempo reagiva in maniera isterica ad ogni, per quanto frivolo, segno di modernizzazione.

Non era segno di ottusità. Tutt’altro.

Quella scuola aveva una grande sensibilità e percezione della propria missione sociale, basata sulla riproduzione e continuità delle gerarchie consolidate, e misurava con grande attenzione ogni segnale di comportamenti anomali che potessero incrinare l’autorevolezza e autorità del sistema.

La penna con il pennino, il calamaio, l’inchiostro, erano i simboli di una teologia pedagogica che consacrava la centralità dell’intero apparato scolastico, dal maestro al bidello.

Il motore di questa missione era la trasmissione della lingua, delle sue regole, e della sua forma, a partire proprio dalla calligrafia. Chi, più o meno della mia età, non ha ancora la percezione di quale angoscia rappresentava una macchia sul quaderno?

Attorno alla padronanza della lingua e della sua rappresentazione, di cui la gestione del pennino era elemento strutturale, si costruiva un codice disciplinare e gerarchico che governava l’intera successiva carriera scolastica.

La pagina era il media di quell’epoca: uno spazio scritto, da cui ricavare le nozioni essenziali, ed uno spazio bianco, su cui riversare le proprie capacità. Una pagina come spazio chiuso, finito, che doveva essere amministrato per sottrazione: andava scritto solo quello che doveva essere scritto. Ed una volta concluso il riversamento del proprio pensiero su quello spazio, si chiudeva e concludeva l’avventura intellettuale. E toccava a chi doveva valutare leggere e giudicare. Senza ulteriori integrazioni e proiezioni.

Questa è stata per secoli la cultura alfabetica.

Vi pare che questo scenario sia in qualche modo sovrapponibile alla scuola d’oggi?

Non mi riferisco agli aspetti più esteriori: insegnanti e studenti ovviamente non sono nemmeno paragonabili antropologicamente a quelli che sto rievocando. Mi riferisco alla missione sociale, agli strumenti culturali, ai codici linguistici, e alle grammatiche prescrittive.

Testi e contesti di questa avventura sono geneticamente mutati.

Diceva Roland Barthes che la fotografia non a caso è stata inventata dai chimici e non dai pittori.

Intendeva segnalare, con la sua straordinaria sensibilità, con largo anticipo, che la tecnologia sta riclassificando le forme e i contenuti del sapere, riordinando in maniera che al momento ci appare caotica, l’intera libreria dei modelli didattici. Tutto quello che era lineare, organico, consequenziale e scritto, oggi lo cogliamo nel pieno della sua transizione verso nuove categorie quali: la frammentarietà, l’ipertestualità, l’asincronicità, la multimedialità.

Di questa transizione lo smartphone è stato il penultimo motore. Il passaggio dal computer residente al sistema mobile ha spinto l’uomo su una nuova soglia che proprio Michel Serres ci ha raccontato nel suo ultimo saggio “Il mancino zoppo” (Bollati Boringhieri http://www.bollatiboringhieri.it/libri/michel-serres-il-mancino-zoppo-9788833927602/ ) come il passaggio dall’interattività dell’indice a quella del pollice.

Proprio Pollicina è la protagonista di questa svolta che, spiega Serres, muta completamente la stessa innovazione della grammatica del computer, introducendo nuove modalità di relazione fra individuo e pensiero, mediate appunto da un’interattività del pollice, che è il dito che manovra lo schermo dello smartphone, rispetto all’indice che guida l’interattività del mouse. Il Pollice risponde ad un lobo diverso del cervello rispetto alle altre quattro dite, e ci porta a reagire in maniera diversa, proprio perché siamo in mobilità, in piedi, sempre alla viglia di una decisione o di una relazione.

In questo scenario sono immersi i giovani che vanno a scuola, fin dalla più tenera età. In questo scenario al momento a menare le danze non è né il sistema delle telecomunicazioni, né la scuola, ma una nuova potenza intelligente che si chiama software. Meglio ancora algoritmo. E qui incontriamo l’ultimo, al momento motore dell’evoluzione multimediale: il brainphone.

Il telefonino ad intelligenza artificiale. I nuovi terminali, già da tempo sul mercato, sono, come sapete, tutti dotati di una ulteriore unità operativa, di cui abbiamo parlato più volte proprio su Key4biz, persino nella mia rubrica BreakingDigital.

Si tratta di una generazione di apparecchi che affianca ormai la nostra cosiddetta mappa sinaptica, integrando le sue funzioni neuronali, con vere protesi attive.

Ora il problema è: chi elabora il corredo valoriale, etico e semantico, di questi sistemi? Al momento, mentre discutiamo delle possibili generazioni della scuola italiana, tutta la nostra infanzia è affidata agli uffici marketing dei grandi monopolisti della rete che decidono come guidare la crescita dei nostri ragazzi.

Come si può rendere questa delicatissima funzione non un’attività esclusiva e riservata di aziende che mirano a massimizzare i propri profitti ma  una straordinaria opportunità per rendere sempre più adeguati e capaci i nostri ragazzi? L’unico sistema che la storia ci suggerisce è quello di rendere questo formidabile potere un patrimonio sociale, condividendolo, e rendendolo così trasparente e pubblico. Esattamente come si è fatto con la sanità, o la stessa scuola, o l’informazione, o, ancora prima, con la scrittura e il denaro.

Per avviare questo mastodontico processo sono indispensabili strutture e competenze, in grado di affiancare i nostri ragazzi con lo stesso livello di capillarità e di sensibilità che mostrano le agenzie digitali.

La scuola è sicuramente una di queste agenzie sociali in grado di riprogrammare i sistemi intelligenti. Ma come, mi si dirà, se gli insegnanti hanno persino paura del registro digitale? Dove sono i corsi di riqualificazione?

Questo è un nodo vero. Ma pensiamo di procedere davvero con la stessa linearità del passato: prima le risorse, poi gli strumenti, infine le funzioni?

Questa volta le potenze che abbiamo dinanzi non aspettano. Non hanno bisogno di noi per entrare nella nostra testa.

Si tratta di procedere per shock successivi. Esattamente come si fece in quella stagione di 50 anni fa, in cui la democrazia e l’interdisciplinarietà entrarono nella scuola a colpi di assemblee e di confusione. E io sono fra quelli che non credono che prima fosse meglio di oggi.

Il telefonino è già oggi uno strumento di vita. Io credo che debba diventare la base della nuova didattica, esattamente come era la penna con pennino ed inchiostro nei primi anni ‘60.

Bisogna che famiglie, insegnanti, presidi, ministero e ragazzi siano posti dinanzi alla responsabilità di una strategia che non ammette deleghe o fughe: tocca a tutti giocare la partita.

Piuttosto mi preoccuperei di altri sbandamenti. Da quest’anno, ad esempio, sono avviati i corsi di formazione al codice nelle scuole elementari. Mentre discutiamo di telefonino, bambini di 7 e 8 anni cominciano ad imparare a programmare. Quando questi bambini arrivano alle medie, fra 4/5 anni, chi gli spiega cosa possono fare e cosa non possono fare con la tecnologia?

E chi gli insegna oggi il linguaggio del software?

Il ministero ha deciso di appaltare questa delicatissima funzione ad un soggetto esterno, Microsoft. Vi pare lecito e civile che sia proprio l’azienda che ha una cultura più proprietaria e vincolistica con il software a svezzare digitalmente i nostri figli?

E il telefonino non sarà invece un contrappeso a modelli così dirigistici?

Non pensate ad esempio che proprio integrare l’uso dei nuovi brainphone, con i loro bot, i loro cloud, i loro data base, sia un modo per accelerare il processo di emancipazione dei ragazzi da nuovi tutor digitali?

Non si dovrà piuttosto cercare di capire come funzionano questi sistemi e cominciare, ad esempio, a decifrare i limiti semantici dei bot, addestrarli insieme agli studenti?

Gli insegnanti non riescono?

Ebbene le nostre città sono piene di giovani talenti, di associazioni digitali, di università e co-working con cui saldare alleanze e convenzioni per organizzare doposcuola finalizzati all’emancipazione digitale. Spiegava un grande matematico degli anni ‘90, Alexander Galloway, che il software è l’unica espressione umana che convertendo il significato in azione è inconsciamente eseguibile. Quell’avverbio è il crinale attorno a cui si sta giocando la partita dell’innovazione. Non possiamo lasciare soli i ragazzi ad eseguire inconsciamente le prescrizioni di algoritmi altrui. Ed è la scuola che può, che deve, trasformare quell’inconsciamente in consapevolezza.