Emergenza plastica

Teniamoci cara la Terra finché siamo in tempo. Ma come?

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Promuovere la cooperazione aziendale, sviluppando nuovi modelli economici sostenibili per la Terra, potrebbe essere una delle carte vincenti.

Appare ormai chiaro che gli effetti del cambiamento climatico interessino tutte le regioni del mondo, manifestandosi in catastrofi naturali e crisi umanitarie. Fenomeni meteorologici estremi, come abbondanti precipitazioni in alcune aree, siccità e ondate di calore senza precedenti in altre, sono sempre più diffusi.

Secondo gli scienziati, queste alterazioni atmosferiche sono destinate ad intensificarsi nei prossimi decenni e la ragione di questa enorme crisi ambientale è dovuta alle complesse e diversificate conseguenze dell’impatto dell’uomo sulla natura: si stima che ogni minuto venga disboscato l’equivalente di 27 campi da calcio e che oltre 8 milioni di rifiuti di plastica finiscano nell’oceano ogni anno, contribuendo all’80% dell’inquinamento totale dei mari, con la previsione che tra 25 anni ci sarà più plastica nell’oceano rispetto ai pesci.

Tutto questo avrà ricadute impressionanti sulla nostra vita. Una parte significativa della popolazione europea, circa il 90% degli abitanti delle città, è esposto a concentrazioni di inquinanti superiori ai livelli di qualità dell’aria ritenuti dannosi per la salute. E se da un lato il mantenimento di foreste sane, considerando che l’80% delle specie terrestri vive in questi ecosistemi, è di cruciale importanza per il clima e la salute della Terra, dall’altro la plastica non solo distrugge la vita oceanica ma, una volta degradatasi in microplastiche, si trasforma anche nel cibo che mangiamo e nell’aria che respiriamo. La plastica è ormai parte della nostra dieta: ogni settimana ne ingeriamo circa 5 grammi, l’equivalente di una carta di credito. La consapevolezza del fenomeno in Italia è però molto bassa: solo il 25% della popolazione italiana afferma di essere a conoscenza del problema delle microplastiche, a fronte del 69% di quella tedesca. Secondo il Word Economic Forum le microplastiche si trovano anche dove non ce le si aspetta, e se un mitilo contiene fino a 90 microplastiche, una singola bottiglia d’acqua ne può contenere fino a 240 per litro. In particolare, nel solo Mar Mediterraneo si concentra il 7% della microplastica globale.

Emergenza bottiglie di plastica

Tuttavia il consumo di acqua in bottiglia è aumentato in tutto il mondo.

Dei 46 miliardi di bottiglie di plastica, usati annualmente nei 28 Paesi dell’UE, l’Italia ne consuma tra i 7,2 e gli 8,4 miliardi, terza nel mondo e prima in Europa. Se nel continente europeo il 2017 ha registrato un utilizzo medio di 177 litri di acqua, il nostro Paese ne ha utilizzati 188 litri nello stesso anno e 206 nel 2018. A questo proposito va ricordato che il 26% di tutti i rifiuti rinvenuti sulle spiagge italiane sono bottiglie di plastica. Considerando che una bottiglia di plastica impiega mediamente 450 anni per degradarsi e che in media servono circa due chili di petrolio per ottenere un chilo di plastica Pet, per produrre 6 miliardi di bottiglie da un litro e mezzo occorrono circa 450.000 tonnellate di petrolio con la conseguente emissione di oltre 1,2 milioni di tonnellate di CO2.

Eppure bere l’acqua proveniente dai rubinetti, come attesta l’UE, potrebbe rappresentare una scelta non solo sostenibile, ma anche conveniente: le famiglie europee vanterebbero un risparmio di circa 600 milioni di euro l’anno. Bisognerebbe però ridurre anche lo spreco di acqua: in un Paese ricco di risorse idriche come l’Italia, secondo l’istituto di ricerca Censis circa il 31,9% dell’acqua va sprecato a causa di infrastrutture idriche inefficienti e obsolete, contro solo il 6,5% della Germania. 

Per quanto riguarda gli alimenti, il più inquinante continua ad essere la carne bovina: per ogni chilogrammo di carne si dissipano oltre 18.000 litri di acqua e si sviluppano emissioni superiori a 25.000 grammi di CO2, mentre per ogni chilogrammo di frutta consumiamo 490 litri di acqua e disperdiamo 930 grammi di CO2.

Quasi certamente l’aumento della temperatura media favorirà i Paesi del Nord del mondo. Nel 2100 si stima che le nazioni più esposte ai cambiamenti climatici perderanno fino al 23% di PIL pro-capite. Secondo l’indice di Verisk Maplecroft l’Italia è al quinto posto per vulnerabilità climatica: dal 2001 ad oggi si è già registrato un aumento della temperatura massima di 1 grado.

A causa del cambiamento climatico nel nostro Paese si sono persi 14 miliardi di euro in agricoltura in 10 anni e negli ultimi 15 anni è sparito un albero da frutto su tre. Eppure l’Italia è il primo Paese beneficiario di fondi dell’Unione Europea per il clima, con 19 miliardi assegnati, ma risulta l’ultimo per fondi utilizzati, solo 5,3 miliardi.

Fortunatamente, man mano che i consumatori diventano più consapevoli delle implicazioni ambientali dei loro acquisti, anche i marchi globali cominciano a lavorare attivamente per affrontare le conseguenze degli impatti climatici. Le multinazionali odierne operano in contesti sempre più difficili ma, per poter continuare a svilupparsi, hanno bisogno di un pianeta in grado di sostenerle. A questo scopo negli ultimi anni stanno emergendo cooperazioni fra aziende, enti ed organizzazioni al fine di offrire modelli di business innovativi ed ecocompatibili.

L’International Paper (IP), la società americana di imballaggi, cellulosa e carta più grande al mondo, e il WWF hanno dato vita ad ambiziosi progetti per garantire la sostenibilità a lungo termine delle risorse naturali, stabilendo i primi obiettivi scientifici a livello mondiale per la conservazione delle foreste.

Anche la multinazionale statunitense dell’informatica Hewlett-Packard (HP) ha avviato importanti cooperazioni, coinvolgendo i maggiori produttori di carta per allineare l’industria della stampa alla gestione responsabile delle foreste. HP ha inoltre intrapreso collaborazioni con organizzazioni non governative e partner fornitori per creare una catena di approvvigionamento di plastica ad Haiti, producendo localmente plastica riciclata, poi utilizzata negli stessi prodotti HP, e creando più di 1.000 posti di lavoro per gli haitiani oltre a fornire assistenza sanitaria e istruzione alle loro famiglie. Questi sforzi hanno già impedito che l’equivalente di 25 milioni di bottiglie di plastica raggiungessero i corsi d’acqua e gli oceani.

Un’altra iniziativa, la New Plastics Economy, guidata dalla Fondazione Ellen MacArthur, ha messo assieme istituzioni, università e oltre 400 rivenditori e produttori di 70 Paesi differenti per impedire che i materiali plastici continuino a divenire rifiuti, eliminando gli involucri non necessari e passando dai modelli di imballaggio monouso a quelli riutilizzabili, riciclabili e facilmente compostabili. L’iniziativa si concentra su diversi elementi tra loro collegati e che si rafforzano a vicenda: il dialogo fra accademici, studenti, governi, ONG e associazioni; un Protocollo globale sulle materie plastiche che possa anche fornire soluzioni al problema; l’innovazione; la ricerca di prove economiche e scientifiche per informare il dibattito globale; il coinvolgimento attivo delle parti interessate.

Diverse aziende stanno cominciando a lavorare anche con partner locali per creare nuovi modelli economici tollerabili per il nostro pianeta. Il marchio di abbigliamento Patagonia ha dichiarato di voler ridurre a zero le proprie emissioni di carbonio entro il 2025 investendo nella ricerca di soluzioni per rimuovere i gas nocivi, responsabili del riscaldamento dell’atmosfera, attraverso l’utilizzo di fonti di energia pulite e rinnovabili, di materiali riciclati e di fibre naturali, spingendo in questo modo anche i fornitori ad adottare pratiche più sostenibili.

Un’altra importante azienda di abbigliamento, The North Face, ha avviato una collaborazione con allevatori locali per adottare nuove tecniche di produzione volte a ridurre l’anidride carbonica, attirandola dall’atmosfera per arricchirne il suolo. I materiali ottenuti mediante questi processi ​​vengono poi utilizzati negli stessi prodotti The North Face.

In Italia

Anche l’Italia sembra iniziare a capire l’entità del problema. L’85% dei giovani italiani afferma di essere interessato alle tematiche ambientali e nell’ultimo anno un italiano su quattro ha acquistato almeno un capo di abbigliamento sostenibile o naturale. Il 76% degli italiani desidera poi conoscere la provenienza delle materie prime utilizzate e il 69% come vengono prodotti i vestiti. Il 42%, infine, afferma di porre attenzione alla scelta di calzature e accessori prodotti con metodi che non danneggiano l’ambiente.

Uno dei brand dell’alta moda più sostenibile è Gucci (il marchio è però di proprietà della società francese Kering S.A.), il quale, oltre a impegnarsi nell’acquisizione di materie prime da fonti sostenibili certificate, ha bandito le pellicce naturali e intrapreso una collaborazione con Panthera, l’unica organizzazione al mondo dedicata esclusivamente alla salvaguardia di felini selvatici e alla conservazione del loro habitat.

Nella classifica delle 100 aziende più sostenibili del mondo, la Global 100, ve ne sono anche due italiane: al sedicesimo posto troviamo la Erg, il primo produttore di energia eolica in Italia, e all’ottantesimo l’istituto bancario Intesa Sanpaolo. D’altronde gli investimenti sostenibili stanno diventando un trend sempre più consistente anche nei mercati finanziari, nell’interesse degli stessi investitori. Con il contributo di MainStreet Partners, società londinese specializzata nella finanza sostenibile, Banca Generali, attraverso una piattaforma online, ha creato nuovi strumenti per avvicinare le famiglie e i consulenti nella costruzione di portafogli che tengano conto delle diverse sensibilità sulle tematiche Esg (Environmental, Social and Governance), ovvero tutte quelle attività che, pur perseguendo gli obiettivi tipici della gestione finanziaria, sono legate all’investimento socialmente responsabile. 

Leader mondiale nel settore dell’energia pulita è la multinazionale Enel attraverso Enel Green Power, società dedicata allo sviluppo e alla gestione delle attività di generazione di energia rinnovabile che, con oltre 1.200 impianti, riesce a soddisfare i consumi di quasi 200 milioni di famiglie in 30 Paesi di tutto il mondo.

Nel settore food, la catena di punti vendita specializzata nella distribuzione di generi alimentari italiani Eataly ha scelto di commercializzare solo ed esclusivamente prodotti compostabili. Ma c’è di più: il suo fondatore, Oscar Farinetti, ha deciso di ideare il primo supermercato totalmente “green”. Questo nuovo progetto prende il nome di Green Pea. All’interno del nuovo store si potranno acquistare veicoli, sistemi per rendere la casa a minor impatto ambientale, vestiti prodotti con cotone non ogm e mobili assemblati con legno proveniente da aree verdi deforestabili. 

Nel medesimo ambito è importante menzionare Ferrero che, con l’obiettivo di migliorare le condizioni delle aree e delle comunità dove nascono le materie prime, ha inaugurato, già a partire dal 2013, una serie di programmi volti alla buona gestione della sostenibilità ambientale.

Tra le catene di supermercati che hanno iniziato a impegnarsi per la riduzione della plastica, Coop ha dichiarato di voler raggiungere nel 2025 un risparmio totale di plastica vergine di 6.400 tonnellate annue. Anche Conad si sta muovendo su questa linea, promuovendo l’eliminazione dei prodotti monouso e l’utilizzo di materiali di confezionamento alimentari plastic free. Lidl Italia ha sostituito le stoviglie monouso di plastica con alternative biodegradabili e compostabili, eliminando così dal mercato circa 450 milioni di unità tra piatti, bicchieri e posate in plastica, corrispondenti a quasi 2.000 tonnellate annue. L’Unicoop Firenze ha deciso di azzerare la vendita di questi prodotti, garantendo così un risparmio di circa 80 milioni di piatti di plastica, 90 milioni di bicchieri, 50 milioni di posate, per un totale di 220 milioni di pezzi l’anno, l’equivalente di 1.500 tonnellate di plastica sottratti all’ambiente. Stoviglie in plastica monouso non saranno più acquistabili anche nei supermercati Doc*Roma: oltre 12 milioni di pezzi in meno immessi nell’ambiente ogni anno, pari a più di 70 tonnellate di plastica.

Un ulteriore passo in avanti è stato fatto dalla Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) che ha aderito alla campagna #StopSingleUsePlastic: nelle università italiane saranno distribuite borracce di metallo e verrà incentivata l’installazione di dispenser d’acqua e macchine del caffè con la possibilità di selezionare l’opzione “senza bicchiere”. Sulla stessa direzione si stanno impegnando le scuole del Lazio aderendo all’iniziativa del plastic free: la giunta regionale ha stanziato oltre 200.000 euro a favore di università e istituti superiori per contrastare l’impiego di plastica usa e getta e l’Università Roma Tre ha già distribuito 30mila borracce di acciaio inossidabile per l’acqua, per sostituire le 10mila in plastica utilizzate ogni giorno nell’ateneo.

L’Unione Europea

Ma le linee di condotta possono arrivare anche dall’alto: l’Unione Europea ha approvato un programma per ridurre la plastica in circolazione, vietando quelle usa e getta entro il 2021 e portando il tasso di riciclo al 90% entro il 2025. La direttiva metterà al bando posate e piatti di plastica, cannucce, bastoncini cotonati, palette per miscelare i cocktail, sacchetti, contenitori di polistirolo espanso per alimenti. Stranamente, tra i bicchieri usa e getta verranno eliminati solamente i contenitori per liquidi realizzati con polistirolo espanso, rimarranno quindi consentite le altre tipologie di bicchieri di plastica.

Vi sono dunque molte opportunità per le aziende disposte a percorrere la strada della sostenibilità ambientale, ma le imprese che vorranno prosperare nel prossimo futuro dovranno, per scongiurare alterazioni irreversibili dell’ecosistema, rielaborare i propri schemi e modelli di business, instaurare nuove e rilevanti partnership, seguire un percorso virtuoso che porti a cambiamenti concreti e duraturi.

Purtroppo vi è ancora molto da fare.

Secondo l’ultimo report di GreenpeaceIl Pianeta usa e getta. Le false soluzioni delle multinazionali alla crisi dell’inquinamento da plastica, gli accorgimenti adottati finora non sono neanche lontanamente sufficienti, visto che attualmente l’industria delle fonti fossili è occupata nel reindirizzare i propri investimenti nella produzione di plastica che, secondo le stime, aumenterà del 40% nei prossimi dieci anni, arrivando ad essere responsabile del 20% del consumo mondiale di petrolio.

È pertanto necessario che l’idea di un futuro sostenibile diventi il fine di una mutazione dinamica che vada a beneficio di tutti e che spinga aziende, organizzazioni, governi e cittadini a lavorare assieme, massimizzando così gli impatti di politiche positive per la natura e la società.

La sfida è ancora aperta, ma non bisogna perder tempo.