L’intelligenza artificiale è entrata nell’agenda della Pubblica Amministrazione, ma l’adozione reale è ancora frammentata: lo si vede da uno dei capitoli finali del report di Anitec-Assinform, Il digitale in Italia 2025. Mercati, dinamiche, policy.
A oggi, solo il 28% degli enti centrali (Ministeri, agenzie, grandi amministrazioni) dichiara un utilizzo significativo dell’IA in alcuni processi, mentre tra Regioni e Comuni la soglia scende sotto il 10%. L’interesse c’è, ma l’adozione su larga scala è frenata da limiti strutturali, ossia mancanza di competenze interne, governance dei dati ancora debole, modelli organizzativi poco reattivi. In molti casi si lavora su dei prototipi e non si riesce a portarli davvero in produzione.
L’AI viene usata per automatizzare il back office, generare documenti o classificare richieste, tutto però sempre in contesti circoscritti, e i progetti davvero trasformativi restano eccezioni.
Le tecnologie più utilizzate sono quelle più consolidate, come il Natural Language Processing per chatbot e assistenti virtuali, o il machine learning supervisionato per il rilevamento di anomalie. Le sperimentazioni più avanzate – come quelle basate su IA generativa o Deep Learning – si contano sulle dita di una mano e restano quasi esclusivamente in capo agli enti centrali o a pochi grandi attori regionali.
Eppure la spinta all’adozione è forte: il PNRR prevede investimenti diretti, la Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale 2024–2026 ha fissato obiettivi specifici per la PA e il nuovo quadro normativo europeo impone standard sempre più stringenti. Ma senza un salto di qualità nella gestione dei dati e nella capacità di pianificazione, i rischi superano i benefici. L’innovazione esiste, ma resta fragile; e dove mancano una visione condivisa e un’organizzazione capace di sostenerla, l’IA non semplifica, ma si inceppa.
Dove vanno i soldi dell’IA pubblica
Secondo il report, nel 2024 la spesa della Pubblica Amministrazione italiana per soluzioni basate sull’intelligenza artificiale ha superato i 47 milioni di euro, con una crescita del +45,5% rispetto all’anno precedente. Ma dietro il dato aggregato si nasconde una disparità evidente: il 75% degli investimenti proviene dalla PA centrale, mentre la componente locale – Regioni e Comuni – si ferma a poco più di 11 milioni. La distanza non riguarda solo i bilanci: riflette scelte politiche, capacità tecniche e priorità operative molto diverse tra i livelli istituzionali.
La previsione per il 2025 è di un’ulteriore crescita: 64,4 milioni di euro, con un incremento stimato del +36,2%. Il trend è chiaro, ma ancora troppo concentrato su pochi enti. Le tecnologie più adottate restano quelle a bassa soglia di complessità: NLP per migliorare l’interazione con i cittadini (chatbot, assistenti vocali), e machine learning supervisionato per l’analisi dei dati.
L’IA generativa, pur molto discussa, è ancora in fase di studio in molte amministrazioni. I Comuni, in particolare, puntano su strumenti semplici, spesso legati a servizi anagrafici, gestione dei ticket o assistenza online.
Anche per l’utente finale, questi cambiamenti si riflettono nel modo in cui si accede ai servizi: se i moduli sono ancora da stampare o se si può procedere online fa la differenza. Chi è abituato a essere aggiornato sulle offerte digitali disponibili per casa e ufficio, come connessioni fibra veloci o abbonamenti mobili, può affidarsi a strumenti come SOStariffe.it, che permette di confrontare in modo chiaro tariffe e coperture delle principali compagnie; il raffronto con la PA può essere impietoso.
Regole europee e norme italiane: il labirinto dell’AI pubblica
A spingere la PA verso l’adozione dell’IA non sono solo l’innovazione tecnologica e i finanziamenti, ma anche un quadro normativo sempre più dettagliato. L’AI Act, in vigore dal 1° agosto 2024, è il primo regolamento europeo dedicato all’intelligenza artificiale: classifica i sistemi in base al livello di rischio e impone obblighi precisi per quelli utilizzati in ambiti sensibili come istruzione, lavoro, giustizia e accesso ai servizi pubblici. Molti dei sistemi attualmente sperimentati dalla PA rientrano in queste categorie, e di conseguenza sono soggetti a una serie di verifiche, controlli e valutazioni d’impatto sui diritti fondamentali.
Accanto al regolamento europeo, l’Italia ha approvato nel marzo 2025 un Disegno di Legge nazionale sull’IA, che recepisce le direttive UE ma aggiunge vincoli specifici per la PA. Tra questi, l’obbligo di trasparenza e tracciabilità delle decisioni algoritmiche, il principio di responsabilità umana (l’IA non può decidere da sola) e l’indicazione – poi rimossa – di ospitare tutti i sistemi pubblici su server localizzati nel territorio nazionale.
L’insieme delle norme è pensato per garantire sicurezza, etica e controllo, ma nella pratica rischia di generare confusione operativa, soprattutto per gli enti meno attrezzati.
In parallelo, entrano in gioco il Data Act, che definisce l’accesso ai dati tra soggetti pubblici e privati, e il già noto GDPR, che resta il punto di riferimento per la protezione dei dati personali. Il risultato è un intreccio di regolamenti che, se non gestiti con chiarezza, possono rallentare i progetti invece che favorirli.
Progetti sul campo: chi sta davvero usando l’AI
Al di là dei piani e delle strategie, qualcosa si muove: alcune amministrazioni pubbliche stanno sperimentando l’IA in modo concreto, anche se su scala ridotta. Quattro Regioni – Toscana, Liguria, Lombardia e Puglia – sono capofila di progetti finanziati direttamente dal Fondo per l’innovazione tecnologica, per un valore complessivo di 20 milioni di euro. I temi variano, dalla sicurezza del territorio all’efficienza energetica, dalla sanità ad alta complessità all’ ottimizzazione della spesa pubblica.
Alcuni enti locali, invece, hanno già portato in produzione piccole soluzioni basate su NLP o machine learning supervisionato: chatbot per richieste anagrafiche, sistemi predittivi per la gestione dei rifiuti o per l’analisi delle pratiche edilizie. A livello centrale, gli usi più maturi si concentrano su automazione documentale, classificazione delle comunicazioni, supporto alle decisioni interne. Le soluzioni di IA generativa, in particolare, stanno trovando spazio nella redazione automatica di testi amministrativi o nella gestione delle interazioni ripetitive con gli utenti.
Il problema è la frammentazione. Molti di questi progetti nascono come iniziative isolate, senza un’infrastruttura comune o un percorso chiaro di scalabilità. Il rischio è che si moltiplichino le sperimentazioni ma senza un reale salto di qualità nei servizi. Le PA che riescono ad avanzare sono quasi sempre quelle che hanno investito prima in data governance e formazione del personale.
Perché l’adozione dell’IA resta un percorso a ostacoli
Affinché l’intelligenza artificiale diventi davvero uno strumento efficace per la Pubblica Amministrazione, serve molto più di qualche sperimentazione ben riuscita: una visione organizzativa stabile, capace di trasformare iniziative isolate in un ecosistema pubblico interconnesso. E serve un’infrastruttura di base che oggi, in molti enti, semplicemente non c’è: dati accessibili e di qualità, modelli di procurement flessibili, competenze trasversali e aggiornate.
Solo il 14% delle amministrazioni centrali dispone di una strategia operativa sull’IA; il resto naviga tra tentativi, documenti programmatici e fasi di valutazione. Mancano figure tecniche, ma manca anche una cultura manageriale capace di interpretare il cambiamento. I modelli organizzativi più promettenti, come quello Hub & Spoke, sono ancora una minoranza, e l’adozione di soluzioni IA più avanzate – come deep learning o algoritmi di rinforzo – resta confinata a realtà con risorse e ambizioni fuori scala rispetto alla media.
In questo scenario, l’introduzione dell’intelligenza artificiale tende a rimanere vincolata a progettualità sperimentali, spesso isolate e difficili da integrare nel funzionamento ordinario degli enti. La possibilità di evolvere verso un’adozione più matura dipenderà dalla capacità di costruire percorsi comuni, di valorizzare le competenze esistenti e di trasformare le linee guida in prassi operative stabili, capaci di resistere ai cambi di vertice e alle incertezze normative.