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Rifiuti zero, ecco il modello circolare delle 5R (refuse, reduce, reuse, recycle & rot)

Roma rifiuti termovalorizzatore

Il mondo dei rifiuti

Ogni anno mediamente produciamo ormai 1.3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi urbani a livello globale. La metà circa della popolazione mondiale (arrivata a oltre 8 miliardi di persone) vive oggi in città, quindi il dato sul volume di rifiuti prodotti annualmente è destinato drasticamente a crescere e non solo nei soliti Paesi campioni dell’immondizia come Stati Uniti e Cina.

Ogni anno, negli Stati Uniti si producono 293 milioni di tonnellate di rifiuti che poi finiscono nel sistema delle discariche (circa 146 milioni di tonnellate), di cui il 24% è la componente organica.

Oltre al rifiuto “classico” ormai bisogna fare i conti anche con quello elettrico ed elettronico, che in tutto il mondo ha raggiunto un volume considerevole di 54 milioni di tonnellate tra il 2010 ed il 2019.

Per tutti questi motivi fino dagli anni Settanta del secolo scorso si è iniziato a parlare di “rifiuti zero” (zero waste), un termine coniato dal chimico Paul Palmer (fondatore dello Zero Waste Institute), che nei decenni ovviamente non ha modificato il significato originario della concetto, ma certamente ne ha favorito l’evoluzione.

Economia circolare del rifiuto, il modello delle 5R

Dalle tradizionali 3R, di raccolta, riciclo e riuso, oggi si è arrivati ad un modello di economia circolare delle 5R, in inglese “refuse, reduce, reuse, recycle & rot”, cioè “rifiutare, ridurre, riusare, riciclare e compostare”.

Il primo passo è rifiutare, cioè provare a sviluppare un nostro modello comportamentale come consumatore che sia orientato ad eliminare il rifiuto a monte, appunto non comprando tutti quegli oggetti e prodotti che già sappiamo essere dei rifiuti “non o poco riciclabili”, a partire da quelli “monouso” o “usa e getta”.

Il secondo, obbligato, è ridurre i consumi, riducendo il numero complessivo di oggetti e prodotti che compriamo, ottimizzando meglio quello che in casa/ufficio già c’è. Di fronte ad un negozio, fisico o virtuale, la prima domanda da porci è: ne ho davvero bisogno? Fondamentale è ricordarci sempre, ogni giorno (perché i rifiuti sono prodotti giornalmente), che ogni acquisto porta con sé scarti, quindi rifiuti che spesso non sono riciclabili e finiscono in discarica o nei forni degli inceneritori.

Terzo passaggio chiave è riusare i prodotti più vecchi. Una borraccia o un articolo di abbigliamento possono essere utilizzati un numero elevato di volte e quindi dopo l’acquisto non finiscono presto nel mucchio dei rifiuti. Altra cosa molto importante, dobbiamo sempre fare caso al materiale con cui sono prodotti, perché un conto è un metallo o tessuto rigenerabile/riciclabile/riutilizzabile e magari a basso impatto ambientale, un altro è impiegare materiali ad alto impatto ambientale ed energivori poi non riusabili per altri cicli produttivi.

Quarta azione è riciclare, che va distinta in due concetti complementari: riciclare per trovare nuove destinazioni d’uso e riciclare come corretta raccolta differenziata finalizzata al riciclo industriale di molte materie prime. Ad esempio, un vecchio giornale potrebbero trovare impiego come “packaging domestico” per incartare i regali di Natale, una vecchia scarpa potrebbe diventare un vaso per piantine e fiori; sia il giornale, sia la scarpa, potrebbero essere scomposte in tutte le loro componenti e rientrare in un nuovo ciclo produttivo.

Ultimo passaggio di questo modello è il ridurre a compost, cioè l’avvio delle azioni di compostaggio per gli scarti alimentari, come bucce della frutta e scarti vegetali, con l’obiettivo di ottenere del buon concime 100% naturale (magari anche biologico) da impiegare in giardino o in agricoltura.

Rifiuto zero, perché

Oggi sembra inevitabile seguire questo vademecum zero waste, ma un tempo tutti questi passaggi erano la norma quotidiana. Tutto ciò che era raccolto, cacciato, comprato o preso in prestito veniva consumato in ogni parte e ciò che avanzava trovava ulteriore impiego. Poco o niente finiva sotto la categoria “rifiuto”.

Secondo molti storici, è con i primi boom economici nei Paesi ex occidentali, come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia, che si è iniziato a creare il rifiuto come prodotto di un’intensa e a tratti insensata attività di consumo.

Questo vestito ha un buco, è rovinato, si è macchiato? Buttalo via, ce ne sono tanti in offerta a prezzi imbattibili. Il telefono, la tv, il pc, non funzionano più bene, anno troppi anni? Buttali via e comprane di nuovi. Questo è il mondo in cui viviamo.

Per questo oggi ci troviamo a dover affrontare i noti e gravi problemi di inquinamento di aria, terra e acqua, cibi compresi, con tragiche conseguenze in termini di salute umana, non umana e ambientale.

I rifiuti hanno conseguenze gravi sulla salute dell’uomo e dell’ambiente

Ci sono dati drammatici su questo: circa una morte prematura su sei nel mondo è legata all’inquinamento, secondo un recente studio della Lancet Commission on Pollution and Health.

Nel 2019, 6,7 milioni di morti premature sono state attribuibili all’inquinamento atmosferico, 1,4 milioni all’inquinamento idrico, 900.000 all’avvelenamento da piombo.

Dal 2010 i casi di decessi direttamente collegabili all’inquinamento da rifiuti ed emissioni nocive sono aumentati del 100%.

Grazie al modello 5R zero rifiuti si possono ridurre le emissioni totali del settore dei rifiuti dell’84%, pari a 1,4 miliardi di tonnellate di emissioni novice, secondo un Rapporto della Global Alliance for Incenerator Alternatives (GAIA).

Lo stesso rapporto ha anche evidenziato che il compostaggio, in particolare, può avere un grande impatto positivo sulla produzione di metano, che è significativamente più potente dell’anidride carbonica come gas serra. La raccolta differenziata alla fonte e il trattamento dei rifiuti organici, insieme al recupero meccanico e ai trattamenti biologici dei rifiuti residui e alla copertura delle discariche biologicamente attive, si legge nel documento, possono ridurre le emissioni di metano in media del 95%.

Zero waste è inoltre un’ottima leva per favorire la nascita e la crescita di comunità locali di piccoli produttori, che a loro volta favoriscono l’economia di prossimità, abbattendo di fatto le emissioni di CO2 legate ai trasporti e gli spostamenti umani (è tutto a pochi minuti a piedi o in bicicletta da casa), a cui spesso si aggiungono le comunità del “buy nothing”, cioè dello scambio di prodotti.

Consumi idrici ed energetici

Non va infine dimenticato che per produrre cibo o prodotti di altra natura (capi di abbigliamento, telefoni o automobili) serve tanta acqua e tanta energia, più diverse risorse naturali molto preziose (o rare).

Negli Stati Uniti, il sistema alimentare – dalla produzione agricola alla movimentazione merci, fino alla distribuzione finale – richiede 10,11 quadrilioni di unità termiche britanniche (Btu) di energiaL’agricoltura da sola rappresenta l’80% di tutto il consumo di acqua negli Stati Uniti e in cima a questo consumo ci sono i prodotti di origine animali (più gli stessi animali da crescere prima della macellazione). Sprecare cibo significa sprecare energia e acqua fondamentali per coltivare, produrre, trasportare, immagazzinare e vendere quel cibo.

Occorrono circa 3.000 litri d’acqua per creare una sola maglietta di cotone e l’industria della moda nel suo complesso utilizza quasi 79 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno per produrre vestiti e accessori. 

Riparare vecchie camicie o riutilizzare tessuti di abbigliamento sono azioni che a noi non costano niente e che invece aiutano tantissimo a ridurre la domanda di nuovi capi di abbigliamento e, in ultima analisi, a risparmiare acqua, energia e risorse naturali, che non ci possiamo più permettere il lusso di sprecare e che vanno invece tutelate fortemente per sperare in un futuro migliore del presente che viviamo.

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